21.7.19

Etica e politica delle piante. Se gli alberi provano piacere e dolore che diritto abbiamo di potare le loro vite? (Gianfranco Marrone)


Per millenni relegate al gradino più basso nella catena degli esseri, anche le piante diventano soggetti etici ma la questione ambientale non si può ridurre a un semplice antropocentrismo al rovescio


Il mondo delle piante vive una clamorosa rinascita: tutti ne parlano, tutti le vogliono, tutti si ergono a loro difensori. Parlando in loro nome, a qualsiasi livello del dibattito pubblico: da quello filosofico a quello politico, da quello della sensibilità diffusa al mondo, manco a dirlo, dei social media. Di modo che oggi diventa possibile, come mostra il bel libro di Pellegrino e Di Paola Etica e politica delle piante (Editore: DeriveApprodi)
Per millenni le piante – selvatiche, coltivate, ornamentali, edibili, immaginarie o reali che fossero – sono state relegate nel gradino più basso della catena degli esseri. Per quanto il pianeta esista grazie a loro (costituendo l'80% della biomassa della Terra, assorbono carbonio e forniscono ossigeno), l'ideologia zoocentrica dominante – da Aristotele alla biologia contemporanea – le ha considerate, tutt'al più, un puro palcoscenico della vita animale, esseri viventi ma passivi, immobili e incapaci di progettualità, privi di sensibilità e affetti, meno che mai di cognizione e raziocinio. Nella migliore delle ipotesi, le piante hanno funzionato da serbatoio simbolico per le varie culture, restando comunque una sorta di alterità costitutiva della specie umana. Essere ridotti al rango delle piante, puri vegetali, è per gli uomini il massimo dell'abominio o dell'insulto, perché, appunto, comporta un uscir fuori dalla propria natura.
Ora però, ragionano Pellegrino e Di Paola, non solo nella storia del pensiero e della religione sono ben esistite ideologie non zoocentriche (da Teofrasto all'induismo e al giainismo), ma si è sviluppata ai nostri giorni una visione filosofica che attribuisce ai vegetali tutt'altre caratteristiche intrinseche. Falsa l'idea di un'immobilità delle piante (basta avere le lenti giuste per coglierne gli spostamenti). Per non parlare del fatto che, a conti fatti, esse sono dotate di sensibilità, manifestando sentimenti di piacere e di dolore, e partecipando da protagoniste alla costruzione e al mantenimento dell'habitat non solo naturale ma anche sociale.
In un'epoca qual è la nostra, dove ogni separazione fra natura e cultura, ambiente e uomo, appare, piaccia o non piaccia, del tutto superata, la specie umana ha perduto la sua supposta centralità nell'universo. È l'epifania del cosiddetto Antropocene (al quale gli stessi due autori hanno dedicato un importante volume lo scorso anno), che ha portato a riconsiderare, prima, il ruolo degli animali (si pensi all'antispecismo, l'animalismo, al veganesimo etc.) e, adesso, quello dei vegetali. E se, come da qualche tempo si discute, occorre attribuire agli animali loro precisi diritti, non in funzione dell'uomo ma in quanto tali, analogo ragionamento deve essere condotto per quel che riguarda il cosiddetto regno vegetale.
Per farlo, occorre innanzitutto ridimensionare i nostri, di diritti: in nome di che cosa uccidiamo le bestie? che diritto, appunto, abbiamo di sottoporle a quelle immani torture che si svolgono negli allevamenti o, peggio nei mattatoi? Allo stesso modo, ragionano Pellegrino e Di Paola, perché recidere sistematicamente le radici un albero imponente per farne un bonsai? In nome di quali valori potare il bosso nei giardini per ottenere forme stravaganti che dovrebbero colpire l'immaginazione? E anche: perché coltivare le lattughe, gli ortaggi e i cereali per mangiarli?
Da qui l'etica e la politica delle piante, aree di pensiero assai necessarie oggigiorno, se pure tutt'altro che evidenti e pacifiche. Se da un lato infatti sembra ragionevole dotare i vegetali di loro valori e loro diritti, dall'altro va detto che le categorie di valore e di diritto sono istanze propriamente umane che noi, in modo del tutto estrinseco, applichiamo a esseri che non è detto vogliano accettarle. La natura è il luogo delle peggiori nefandezze e delle più atroci violenze: ci si uccide e ci si mangia a vicenda. Tutti prede e tutti predatori, vegetali compresi. Insinuare in essa una qualche morale è quindi una forma di addomesticamento, ossia ancora una volta di assoggettamento all'uomo. Inoltre, come se non bastasse: se decidiamo di non mangiare più le piante, così come s'è fatto per gli animali, che cosa mettiamo nello stomaco? Dotare di valore gli altri esseri viventi significherà, paradossalmente, ridurre quello della specie umana? Antropocentrismo alla rovescia?
Le questioni, si vede, sono tutt'altro che banali. E il libro in questione le discute con intelligenza, conservandone tutta la problematicità. Quel che è certo è che la questione ecologica e ambientale non può essere affrontata in termini, per così dire, kantiani, dove l'uomo è il fine d'ogni azione morale e tutto il resto il mezzo. Il pianeta è una casa comune: allontanare da essa chi non ci piace – uomo, animale o pianta – è soltanto arroganza da stolidi.

Tuttolibri La Stampa 20 luglio 2019

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