14.7.19

Valentino Gerratana: il filosofo militante che ci ha ridato Gramsci (Antonio Floridia)



“L’uomo che ci ha ridato Gramsci”, così Guido Liguori, presidente della International Gramsci Society, nell’intervento conclusivo del convegno che ha ricordato, nel centenario della nascita, la figura di Valentino Gerratana, e che si è tenuto a Modica, città di origine dello studioso, il 15 e il 16 giugno.

Il convegno modicano, organizzato da una “scuola di formazione politica” intitolata alla memoria di Virgilio Failla (storico leader e a lungo deputato del Pci nel ragusano, in quella che a lungo è stata la “provincia rossa” della Sicilia), in collaborazione con l’Istituto Gramsci siciliano e quello nazionale, nonché con la Gramsci International Society, ha avuto il merito di collocare la figura di Gerratana nel contesto della sue radici (a partire dalla relazione di Giancarlo Poidomani, storico dell’università di Catania, su “la costruzione del Partito nuovo nella provincia iblea”) e di illuminare passaggi della biografia di Gerratana che sono rimasti a lungo poco conosciuti, quasi oscurati dall’imponente lavoro per l’edizione critica dei Quaderni di Gramsci, a cui il nome di Gerratana rimarrà indubbiamente legato.
Un momento culminante, e anche molto toccante, del convegno si è avuto con una lunga video-intervista di Emanuele Macaluso. Lo storico leader del PCI ha ricordato i suoi rapporti con Valentino Gerratana, conosciuto in Sicilia nei primi anni del Dopoguerra, quando Macaluso era segretario della Cgil siciliana e Valentino – inviato in Sicilia dal partito per affiancare Girolamo Li Causi – era il direttore, di fatto, de “La voce della Sicilia”, il quotidiano voluto dal Pci per sostenere la battaglia politica durissima di quegli anni per la democrazia e la “terra ai contadini”. La testimonianza di Macaluso ha sottolineato, tra l’altro, la grande stima che Togliatti aveva maturato nei confronti del giovane intellettuale siciliano.

L’amicizia con Giaime Pintor
La relazione generale introduttiva del sen. Concetto Scivoletto ha ricostruito l’intero percorso biografico di Gerratana.
Nato il 14 febbraio del 1919, da una famiglia di piccola borghesia impiegatizia (il padre era un agente delle imposte, la madre viene ricordata negli atti anagrafici come “possidente”), secondo di quattro figli, Gerratana perde il padre ad appena 13 anni, e si impegna fortemente nello studio, conseguendo la maturità classica a 17 anni nel liceo classico di Modica.
Segue poi il trasferimento a Roma, iscrivendosi a Giurisprudenza e laureandosi poi nel 1941. Risalgono a quegli anni, le prime testimonianze del suo impegno critico sul terreno filosofico, pubblicando Gerratana, sul Bollettino dell’Istituto di Studi Filosofici dell’Università di Roma, tre saggi di polemica con Benedetto Croce. Ma la “grande storia” incombe: e Gerratana, frequentando la scuola allievi ufficiali di Salerno, incontra nel 1939 due figure che segneranno la sua vita: Giaime Pintor e Carlo Salinari.
L’amicizia con Giaime, e la sua tragica morte, non possono che dargli una forte motivazione politica e morale e spingerlo all’impegno politico: Carlo Salinari diviene il tramite per l’ingresso nel Pci clandestino e nella Resistenza romana: Gerratana sarà uno dei capi militari dei Gruppi di Azione Patriottica romani (con il nome di battaglia “Santo”). Anni di duro impegno e di dolore, che imponevano rigorose scelte morali, come lo stesso Gerratana ricorderà poi nella sua introduzione al testo di Giaime Pintor, Sangue d’Europa, pubblicato da Einaudi. E anni che segnano dolorosamente anche la sua vita familiare: nel 1941 muore in Grecia il fratello maggiore di Gerratana, ufficiale medico.
A Gerratana sarà poi conferita una medaglia d’argento al valor militare; ma, come è stato ricordato da molti nel corso del convegno modicano, egli rifuggirà sempre da ogni enfasi celebrativa su questi sui trascorsi: un costume di riservatezza che sarà uno dei tratti costitutivi della sua personalità, e ricordati anche dalla testimonianza dell’avv. Carmelo Ruta, già sindaco di Modica, che conferì negli anni Novanta a Gerratana un riconoscimento a nome della città.

La “Voce della Sicilia” e l’Unità
Nel dopoguerra, Gerratana si ritrova a vivere pienamente l’esperienza straordinaria di quel “nucleo romano” del Pci che tanta parte avrà nella storia del partito e nella costruzione del rapporto tra Pci e intellettuali: e si ritrova a gravitare e lavorare nell’ambito della commissione “stampa e propaganda” della direzione del partito. Una prima svolta matura già nel 1946: Togliatti “invia” in Sicilia, a costruire il Pci, Girolamo Li Causi e gli affianca Gerratana, per dirigere la “La Voce della Sicilia”, il quotidiano del comitato regionale del Pci: Michele Figurelli, nella sua relazione, ha ricostruito la linea politica e editoriale del giornale, e il contributo che vi diede Gerratana. E anche da queste pagine emerge la forza con cui il Pci affrontò la drammatica condizione sociale dell’isola, le lotte contadine, il movimento separatista, la costruzione di un partito che aveva radici deboli e che pure, in pochi mesi, ottenne risultati elettorali straordinari, fino al successo delle elezioni regionali del ’47, con la successiva, violenta reazione degli apparati statali, degli agrari e della mafia.
Gerratana rimane nella sua Sicilia fino al ’48: da qui passa all’altro capo della penisola, va a lavorare a Torino, presso la casa editrice Einaudi e nella redazione torinese de “L’Unità” dove conosce – restandogli legato da una lunga amicizia – Paolo Spriano e Italo Calvino. Le relazioni di Delia Miceli e Gregorio Sorgonà, archivisti e ricercatori della Fondazione Gramsci, hanno dato conto dei “fondi” documentari che sono oggi conservati dalla Fondazione e che testimoniano della lunga attività di Gerratana come protagonista della politica culturale del Pci.
Dai primi anni Cinquanta inizia la collaborazione con le Edizioni Rinascita; partecipa poi alla fondazione degli Editori Riuniti di cui dirige la collana “Classici del Marxismo”; collabora con l’Istituto Gramsci, divenendo prima membro del consiglio direttivo e dal 1957 direttore della sezione Filosofia. E svolge anche un’intensa attività pubblicistica su tutta la stampa di partito, anche quella “collaterale” dalle più dirette finalità pedagogiche (ad esempio, “Il calendario del popolo”: una comunicazione del giornalista Pinuccio Calabrese ha analizzato la collaborazione di Gerratana sul tema “religione e politica”).

L’edizione critica dei Quaderni dal carcere di Gramsci
Nel 1972 Gerratana ottiene la cattedra di Storia della filosofia all’Università di Salerno, dove rimarrà fino al 1994 (con una breve parentesi a Siena): un riconoscimento per la sua ricchissima produzione scientifica, che ha visto Gerratana curare e introdurre opere di Rousseau, Antonio Labriola, Marx ed Engels, Lenin. Nel 1966, su proposta dell’allora segretario generale dell’Istituto Gramsci, Franco Ferri, e su decisione della segreteria del Pci, a Gerratana viene affidato l’incarico di lavorare all’edizione critica dei Quaderni dal carcere, conclusa nel 1975.
In un’intervista rilasciata nel 1987 al giornalista dell’Unità Eugenio Manca, Valentino Gerratana, a proposito della prima edizione dei “Quaderni”, affermava che in quel caso “di Gramsci si offrì una rappresentazione vera ma parziale, non priva di forzature o di omissioni”. In effetti, Gerratana, come ha ricordato Guido Liguori, riconosceva questi limiti, ma anche i meriti, della vera e propria “operazione egemonica”, con cui Togliatti introdusse Gramsci nella cultura italiana, organizzando – com’è noto – i Quaderni su base tematica: il merito di aver fatto conoscere il pensiero gramsciano forse nel solo modo, e nel modo più rapido, con cui allora era possibile; ma il limite di averlo fatto con qualche forzatura e censura nei testi, facendo perdere il legame critico che Gramsci continuava a intessere – sebbene chiuso nelle carceri fasciste – con le vicende del movimento comunista internazionale, e trasformando la stessa immagine di Gramsci: non un politico e un teorico rivoluzionario, che rifletteva sulle ragioni della sconfitta del movimento operaio in Occidente, ma un grande intellettuale che lavorava sulla base delle tradizioni partizioni disciplinari: la filosofia, la critica letteraria, la storiografia… Un’immagine parziale, che tuttavia permise al pensiero gramsciano di entrare prepotentemente nella cultura italiana e che permise anche, almeno in parte, di stemperare – nella cultura del Pci – gli effetti della grigia stagione staliniana.

Quello straordinario rapporto tra intellettuali e Pci
Valentino Gerratana, con il suo lavoro e quello di tutto il gruppo dei suoi collaboratori – tra cui va ricordato Antonio Santucci, prematuramente scomparso – ci ha restituito un Gramsci che si arrovella, pensa, riflette, scrive e riscrive i suoi appunti: un pensiero vivente che costituisce uno straordinario patrimonio, come testimonia la crescita esponenziale dell’interesse critico verso la sua opera, specie negli Stati Uniti e in America Latina (la stessa nascita della International Gramsci Society, di cui Gerratana sarà primo presidente, si deve – lo ha ricordato Liguori – all’iniziativa di alcuni intellettuali nordamericani).
Insomma, la figura di Gerratana è emersa dal convegno modicano in tutta la sua ricchezza: “filosofo militante”, si dice, nel titolo stesso del convegno. Chi scrive ha voluto offrire, nel suo intervento, qualche riflessione su una stagione straordinaria del rapporto tra la cultura e la politica, tra gli intellettuali e un partito come il Pci; e sui termini con cui oggi sia possibile ripensare il nesso tra ricerca teorica e intellettuale, cultura politica, partiti. Oggi, forse, non si riesce nemmeno più a capire bene il senso di un’espressione che, giustamente, può essere evocata anche a proposito di una figura come quella di Gerratana, l’essere egli un “intellettuale organico”. Anzi, questa definizione viene oramai spesso usata in modo dispregiativo, o abbandonata perché foriera di equivoci. Si stenta persino a comprendere, oggi, come una generazione di intellettuali comunisti, di cui Gerratana è stato una delle più alte espressioni, concepisse il proprio rapporto con la politica e – quel che conta – con un organismo collettivo quale era un partito di massa.

Il partito come intellettuale collettivo
Non erano intellettuali “prestati” alla politica, come si dice oggi: al contrario, erano intellettuali che sentivano profondamente l’intrinseca “politicità” del loro specifico lavoro teorico e scientifico, che proprio per questo – anzi, tanto più per questo – doveva essere svolto con il massimo del rigore intellettuale. Erano intellettuali che erano e si sentivano profondamente parte di un “gruppo dirigente”, anche senza avere specifici incarichi politici: e potevano farlo perché il Pci era un partito che agiva come un luogo collettivo in cui questo incontro tra ricerca, cultura politica diffusa e “senso comune”, poteva esprimere al meglio le sue potenzialità.
Uno straordinario testo di Gramsci ci ricorda come ogni uomo “è un filosofo”, portatore di una “filosofia spontanea”, di una concezione del mondo spesso assunta passivamente dall’esterno e non rielaborata criticamente. Compito degli intellettuali è appunto quello di elaborare questa “filosofia spontanea”, costruire una consapevolezza critica di quanto spesso rimane implicito o confuso. E il partito, ricorda Gramsci in un altro passaggio, può essere uno “sperimentatore” di queste concezioni del mondo: il luogo collettivo in cui si cerca di “tenere insieme” la “filosofia spontanea” e la riflessione critica. Per questo, gli “intellettuali organici” di quella stagione politica non vedevano il “partito” come un’entità a cui sacrificare la propria libertà intellettuale: anzi, il partito era lo strumento collettivo attraverso cui soltanto il pensiero di un singolo poteva trovare il modo migliore per esprimersi ed essere valorizzato: attraverso cui il lavoro intellettuale diveniva esso stesso prassi. Si superava così una visione astratta, individualistica, della propria libertà intellettuale. Se la propria riflessione teorica doveva essere parte della costruzione di una coscienza collettiva, livelli e forme di mediazione erano inevitabili. E servivano a poco fughe in avanti che magari potevano e gratificare una dimensione “narcisistica” individuale, ma che non entravano nella costruzione di una più ricca e matura cultura politica diffusa.

La costruzione mancata di una cultura comune
Si comprende bene, così, come anche Valentino Gerratana, al pari di altri intellettuali comunisti della sua generazione, abbia vissuto molto male la “svolta” della Bolognina e la fine del Pci: quel che soprattutto colpiva negativamente era lo scarso rigore intellettuale, la notevole dose di superficialità, con cui si affrontò il nodo storico della fine del “comunismo reale”: qualcosa che strideva fortemente con un’eredità critica che aveva segnato un’intera esistenza.
Oggi, i termini del rapporto tra cultura e politica si pongono in modo certamente diverso dal passato; ma ci dovrebbe essere (e spesso non c’è) una drammatica consapevolezza di quanto urgente sia – per il destino della sinistra e della stessa democrazia – ricostruire questo rapporto. Non mancano oggi, nella cultura contemporanea, contributi intellettuali di alto valore che offrono uno sguardo critico sul presente e si interrogano sulle potenzialità di liberazione ed emancipazione che possono essere aperte o anche solo intravviste. Quel che manca, drammaticamente, e specie in Italia, sono le sedi, i luoghi, i canali, attraverso cui riconnettere la ricerca teorica e la produzione scientifica, da un lato, e – dall’altro – la costruzione di una cultura politica diffusa, di una coscienza collettiva che possa rappresentare il “bagaglio culturale” con cui chi “fa politica” guarda alla realtà. Una sconnessione letale, a cui bisognerà pur tentare di reagire.
Strisciarossa, 9 luglio 2019

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