14.7.19

1945-1953. Cinema e Resistenza, un bilancio (Nicola Badalucco, Mondo Operaio 1954)



Osserva Roberto Battaglia che la cultura italiana, che non può avere il ritmo rapido della cronaca, maturava una risposta al fascismo dell’8 settembre, risposta «altrettanto chiarificatrice e decisiva per il futuro, quanto quella fornita dalla classe operaia nell’urto diretto ed esplicito degli scioperi invernali». «... Nel momento in cui era in gioco la vita del paese, sembrò a molti, forse alla maggior parte degli uomini di cultura, di avere perduta la propria funzione, di non avere più nulla da dire finché non fosse tornata la pace... ». È naturale che, in questo stato di cose, gli intellettuali e gli artisti non avrebbero potuto precorrere la rivoluzione armata del proletariato. «Ma non c’è da sorprendersi per ciò, della quasi totale mancanza, ad esempio, d’una vera e propria Poesia della Resistenza... Solo nel futuro, e ancor più nel dopoguerra, potrà maturarsi una diversa e più larga posizione » (Storia della Resistenza Italiana, pag. 174 e segg., Einaudi, II ed.).
Anche limitate al solo campo del cinema, le osservazioni del Battaglia si rivelano esatte. Il cinema evidentemente non avrebbe potuto dare un contributo alla Resistenza, nel tempo in cui questa era nel suo pieno sviluppo, poiché il controllo sulla produzione e le serie deficenze organizzative costituivano limiti insormontabili per un cinema rivoluzionario. L’opera del cinema avrebbe potuto sopraggiungere dopo la fine delle ostilità, e così infatti è accaduto. Ora è però da vedere se quest’opera è stata sufficiente e idonea a restituire alle grandi lotte popolari quanto ha potuto da esse attingere, di forza e di verità.
Non solo la Resistenza ha preceduto e superato il rinnovamento della cultura, ma ancora oggi essa non è stata interamente raggiunta dagli intellettuali democratici e non è stata tradotta in opere consapevolmente e sufficientemente destinate a renderla alla storia e all’arte nazionale, in tutta la sua grandezza.
Riguardo al cinema, si riconosce ad alcuni artisti il merito di avere, per primi e con migliori risultati, raccolto i benefici delle lotte popolari di liberazione. Anzi in questo senso il cinema ha sopravanzato le altre arti che, con ritardo e con minor vigore, hanno appreso la lezione degli ultimi avvenimenti. Le opere cinematografiche del primo dopoguerra hanno raggiunto un livello artistico eccezionale ed hanno assicurato un prezioso patrimonio alla cultura italiana, offrendo alla stessa letteratura ì temi e il modo per operare un radicale rinnovamento.
I primi motivi che mossero alcuni tra i maggiori film furono l’occupazione nazista e la guerra partigiana.
Roberto Rossellini, con Roma, città aperta (1945) si rivelò come il primo uomo di cinema che, il giorno dopo la liberazione, era già in grado di esprimere una ribellione — pure confusa e immatura — sorta come diretta conseguenza dei recenti fatti rivoluzionari.
Rossellini non si era trovato, a differenza di molti altri, influenzato e limitato dalla cultura tradizionale; egli poteva quindi, con libertà e spregiudicatezza, scavalcare tutti i confini della retorica ed esprimersi con sincerità e immediatezza. Posto dinanzi ad una realtà, che aveva generato in lui un moto spontaneo di reazione, Rossellini ha saputo dare un quadro della vita di allora, che ancora oggi — dopo quasi dieci anni — conserva freschezza e drammaticità. E anche in alcuni episodi di Paisà (1946), quando già non s'intravedono ricerche di stile e tendenze spirituali, è possibile oggi riconoscere ambienti, situazioni, atmosfera, drammaticità, che segnarono la vita italiana di quel momento.
Le indicazioni di Rossellini non hanno avuto il seguito che meritavano; lo stesso Rossellini, distaccatosi dalla realtà, che aveva protetto il suo estro da tentazioni di stile e da presunzioni concettuali, ha trascurato l’approfondimento dei suoi film maggiori.
Gli esempi di film realizzati sotto la spinta della rivolta popolare, oltre a quelli di Rossellini, sono pochi. Nel 1946 l’ANPI affidava ad Aldo Vergano la direzione di Il sole sorge ancora. Questo film, pur essendo a volte schematico (specialmente in alcune situazioni di carattere personale) e pur non proseguendo su una condotta unitaria di stile e di intenti, riesce tuttavia a rappresentare una realtà artistica e soprattutto storica — la guerra partigiana — in modo vivo e sentito.
Anche Blasetti aveva avvertito il bisogno dì accostarsi agli insegnamenti della recente storia e, con Un giorno nella vita (1946), affrontava il tema della lotta di liberazione, nel tentativo di lanciare un atto di accusa contro la barbarie nazista, che aveva travolto perfino le suore di clausura nella più grande tragedia di ogni tempo. Ma le esigenze di Blasetti non erano sufficientemente chiare e il suo accostamento alla realtà si era mostrato incerto, così che il film sciupava un’occasione per rappresentare con convinzione un momento drammaticissimo della nostra storia.
Qualche altro film costituisce solo un tentativo di presentare un quadro di certe situazioni, con molta approssimazione e con non pochi equivoci.
Il cinema italiano del dopoguerra si è mosso dunque, con notevole slancio, verso gli episodi dell’occupazione nazista e della lotta partigiana, ma in un momento in cui i suoi orientamenti erano ancora confusi e la sua capacità di giudizio storico era scarsa è immatura. Le sue prove migliori costituivano, al più, un generoso tentativo di partecipare del rinnovamento che aveva operato la lotta sostenuta dal popolo ed un bisogno di commemorarne, le grandezza. Questo cinema si fermava quindi ad una cronaca o, qualche volta, ad una documentazione degli avvenimenti che lo hanno promosso e rinnovato, senza riuscire a prendere coscienza dei fatti accaduti e di raccontarli criticamente.
In sostanza, i primi film del dopoguerra non tanto sono una valida rievocazione della Resistenza, quanto invece una conseguenza della Resistenza.
Dopo qualche anno, il cinema neorealista si è spinto verso l’indagine sui più importanti problemi del Paese e, qualche volta, ci ha dato opere notevoli per impegno e per qualità, nelle quali «l’uomo del dopoguerra» viene rappresentato, come « tipo » della società contemporanea. Una nuova poesia si è maturata con la ricerca de da realtà, che ha raggiunto livelli eccezionali con film come Ladri di biciclette e La terra trema. In questo momento, il nostro cinema comincia a perdere le sue caratteristiche di immediatezza e acriticità e acquista una più chiara coscienza della vita e dell’umanità. L’attuale involuzione politica ha impedito lo sviluppo di questa seconda fase del realismo, tuttavia, qualche buon risultato si è avuto. E di questo secondo momento la esigenza di riprendere i temi degli ultimi avvenimenti e di rappresentarli con quel tanto di distacco, che permetta la formulazione di giudizi e di rievocazioni storiche.
Da questa esigenza non è scaturito che un tentativo, Achtung! Banditi!, di Lizzani (1951). A questo regista è stato più volte rimproverato l’eccessivo distacco con cui ha trattato il tema (i tedeschi, per esempio, sono più umani nel film che non nella realtà, come ha scritto Abele Saba su « Cinema », numero 80).
E il distacco, effettivamente, c’è; si manifesta come pregio — quando permette a Lizzani di passare dal tono della cronaca a quello più largo della storia — e anche come difetto — quando una certa freddezza nella narrazione schematizza i fatti e i personaggi.
Tuttavia la strada scelta da Lizzani è quella giusta, perché tenta di raccontare, in termini più obiettivi, gli episodi più significativi della nostra storia recente e gli avvenimenti dell’ultima guerra.
Ma Achtung! Banditi! non può da solo assolvere i compiti che spettano al cinema riguardo alla Resistenza. Questo grande capitolo della nostra storia, nonostante sia stato oggetto di validi studi, è stato rapidamente allontanato, quale problema da approfondire, dalla classe dirigente italiana, e non avrebbe ancora un suo documento critico, vasto e chiaro, se Battaglia non avesse scritto la sua Storia della Resistenza Italiana.
Da parte sua il cinema, dopo i primi tentativi non certo notevoli per meriti storicistici, ha dato un solo esempio di «film storico sulla lotta popolare di liberazione». Gli uomini di cinema, che prima hanno cercato di scoprire l’umanità e i suoi problemi, si sono fermati dinanzi ai limiti posti dalle classi dominanti ed hanno ripiegato su posizioni di comodo e assolutamente opposte ai motivi del neorealismo. La via della storia e rimasta quasi intentata e lasciata alle equivoche e sfacciate produzioni dei millantatori di patriottismo (La pattuglia dell’Amba Alagi, Mizar ecc.).
E oggi, le manifestazioni per il decimo anniversario della Resistenza non vedono l’apporto di un cinema nazionale e democratico, seriamente orientato verso la storia più vicina e più bella del nostro popolo.
È chiaro che non si chiede di tornare indietro; oggi sarebbe fuori posto un cinema che ripetesse le esperienze dell’immediato dopoguerra e che ripercorresse la strada — allora valida — di Paisà o di Il sole sorge ancora. Il cinema italiano è ormai abbastanza maturo, per operare «con obiettività e distacco» sui fatti dell’ultima guerra; purché si interpreti questo «distacco» come possibilità di giudicare storicamente un avvenimento, oltre che raccontarlo, e non come un comodo alibi morale, per giustificare eventuali remore, imparzialità politiche e freddi accademismi, che sarebbero troppo precoci e ipocriti, in confronto all’attualità dei significali della Resistenza.
Sarà presto iniziata la lavorazione di un film tratto da L’Agnese va a morire, di Renata Viganò. E’ significativo che lo stesso regista e la stessa Cooperativa che hanno realizzato Achtung! Banditi! e Cronache di poveri amanti (che per molti motivi va considerato tra i film sulla Resistenza) si siano impegnati in un secondo film, che tratta della guerra partigiana. Quest’opera, nonostante la sua derivazione letteraria (la quale potrebbe privarlo del merito che aveva il precedente film, cioè un’esigenza propria del cinema di ritornare sul tema della lotta di liberazione, con «chiari intenti storicistici»), può essere idoneo ad indirizzare nuovamente il cinema neorealista verso la sua stessa origine morale ed artistica.
E precisiamo che non deve trattarsi di un ritorno di maniera, oggi insufficiente ed artificioso, ma di una rivalutazione critica di quello che è stato il momento più felice e più rivoluzionario del cinema italiano. 
Mondo Operaio, n. 7, 1954

Postilla
A riprova della difficoltà, nell'Italia del centrismo clericale, di produrre film sulla Resistenza giova dire che il film di cui si anticipa l'imminente realizzazione, L'Agnese va a morire con la regia di Lizzani, non si girò. Un film con quel titolo, tratto dal romanzo di Renata Viganò per la regia di Giuliano Montaldo, andò nelle sale, in tutt'altra temperie politica, nel 1976. Il principale sceneggiatore fu l'autore di questo articolo, Nicola Badalucco. (S.L.L.)

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