5.8.19

Colonialismo italiano. Etiopia 1936, la cattura di ras Immirù (Vittorio Gorresio)

Vittorio Gorresio

Ho tratto il brano che segue dall'autobiografia di Vittorio Gorresio, giornalista e scrittore molto piemontese, che – acquistata per un euro in una bancarella, al mercato di Pian del Massiano – mi è sembrata, oltre che interessante, davvero bella, perché il racconto è sostenuto da una scrittura elegante e fluida, da una lucida ironia, da una nostalgia distaccata che non esclude momenti di controllata commozione, ma non scade mai nel patetismo. Quello che qui si racconta è un episodio dell'avventura coloniale dell'Italia fascista: il progetto italiano, mai del tutto realizzato nonostante la solenne proclamazione dell'Impero, di eliminare ogni focolaio di resistenza. (S.L.L.)


Ras Immirù
Toccò anche me, in un pomeriggio del dicembre 1936, recitare la parte del leone. Ero un giornalista, ma in qualità di corrispondente di guerra ero stato richiamato col mio grado militare, sicché fungevo a volta a volta da cronista o da ufficiale, a seconda dei casi e delle necessità. «Lei sarà animale da uova e da latte», mi aveva predetto a Roma Mario Missiroli che amava le battute, e infatti a Gimma fui aggregato a una sezione di artiglieria someggiata — due obici da montagna calibro 65/13 — di accompagnamento a una colonna di ascari che andava all’inseguimento di ras Immirù.
Ne sarei stato lo storico ma anche il comandante perché quella sezione era rimasta senza ufficiale da quando il mio predecessore era morto a Mai Ceu, a mezza strada fra l'Amba Aradam e il lago Ascianghi. Si era comportato da valoroso, la sua memoria continuava ad essere onorata. Io raccoglievo quindi un’eredità impegnativa, ed in quel pomeriggio di dicembre dovetti fissarmene bene in mente l’idea, se non volevo sfigurare davanti agli ascari, al battaglione, al ricordo del morto, ed a me stesso. Ci sono momenti che il coraggio, anche se obbligato, è il solo possibile rifugio.
Eravamo arrivati sulla sponda del fiume Ghisciò, e appena le pattuglie della nostra avanguardia ne ebbero iniziato cautamente il guado, ecco dall’altra parte cadere su di noi la grande pioggia delle pallottole. Come esigevano gli ascari rimasi in piedi dopo aver fatto disporre i pezzi in batteria: «Apra il fuoco, tenente», mi fu ordinato. Sparammo non ricordo quanti colpi contro la riva opposta del Ghisciò che era coperta da un canneto molto fitto. Nemici non ne vedevamo, e cessò quasi subito la grande pioggia delle pallottole contro di noi, sicché nemmeno ci fu bisogno che i graduati della sezione mi coricassero per terra. Come se fossimo ad una esercitazione continuammo a sparare fino a quando non scese il buio: «Cessate il fuoco», mi fu trasmesso. Il mio battesimo di guerra non era stato molto emozionante, e tanto meno rischioso. Piuttosto in vena di scetticismo, andai a rapporto dai superiori e rispettosamente domandai: «Signor colonnello, abbiamo vinto?». «È quello che sapremo domani, alla luce del giorno» rise lui.
L’indomani, sull’altra sponda del fiume non trovammo nessuno, né vivi né morti, né alcuna traccia di uomini che si fossero impegnati in combattimento. Doveva essere stata una retroguardia leggera al comando di un astuto degiasmacc a spararci addosso al nostro primo tentativo di guado, subito poi dileguandosi paga di averci ritardato la marcia. Immirù era difatti ormai lontano, e noi lo raggiungemmo solo dopo che si era già arreso ad un altro reparto.
Un ufficiale del genio, il tenente colonnello Giuseppe Minniti che con una squadretta di ascari stava stendendo linee telefoniche verso l’Ovest, il 15 dicembre si imbattè casualmente nella banda di Immirù bloccata sulla riva del Gogeb. Il fiume era in piena, impossibile il guado. Sopraggiunse Minniti con i suoi guerrieri, che tuttavia erano pochi e rischiavano di essere sopraffatti. Minniti era un calabrese furbo e coraggioso; giocò d’astuzia e gli andò bene: «Ci sei cascato» disse a Immirù. «Colonne italiane sono qui da tutte le parti. Sei accerchiato senza scampo. Ti consiglio di arrenderti.»
La banda di Immirù era ridotta malissimo. Di militare non aveva più nulla, scarse le munizioni per le poche armi ancora in efficienza, equipaggiamento in pessimo stato, riserve di viveri e medicinali esaurite. Erano forse ottocento uomini, con cinque mitragliatrici in tutto, e meno di un fucile per ciascuno. Rassegnati, li consegnarono, e poi Minniti mi raccontò che ilsuo problema quella sera era stato di collocare sentinelle di guardia ai mucchi di armi e al soverchiante numero di prigionieri. Dovette sentirsi l’emulo di quel favoloso maggiore Randaccio del quale si racconta che nella prima guerra mondiale, solo con sette uomini, riuscì a catturare un intero battaglione di honvéd ungheresi.
Ma gli abissini presi da Minniti non erano nemmeno più in grado di scappare. Nostri aeroplani avevano bombardato ad iprite certe zone di bosco dove gli uomini di Immirù si erano in quei giorni infrascati in cerca di salvezza. Ipritati, piagati, accecati, erano stati messi fuori combattimento e ormai si trascinavano senza più speranza. Gli abitanti dei luoghi, o per paura di noi italiani che stavamo avanzando, o per le tribali inimicizie sempre pronte a riaccendersi fra le diverse popolazioni dell’Etiopia, non parteggiavano per i ribelli, anzi facevano il deserto attorno a loro conducendo lontano il bestiame, portandosi via le provviste. Se qualche gruppo di fuggiaschi non abbastanza grosso per imporsi con la forza capitava isolato in un villaggio, poteva anche accadere che i locali ne facessero giustizia in nome del nostro menghestì, il grande governo italiano che stava dimostrando la sua potenza con i bombardamenti sulla zona. Certi piccoli capi villaggio facevano legare agli alberi gli sfortunati in rotta, ed era un pubblico divertimento prenderli a bersaglio con escrementi di vacca, fino a che non ne fossero tutti coperti.
Erano queste le storie che si raccontavano durante la nostra avanzata, e ce le confermavano gli incontri con disgraziati che apparivano digiuni da settimane. Gettavano le armi, se ne avevano ancora, e ci guardavano con occhi di animali braccati.
I nostri ascari si inferocivano, ed era difficile trattenerli; a lasciarli fare li avrebbero sterminati. Per gli eritrei che noi conducevamo alla conquista dell’Ovest, come per gli abitanti del luogo che si consideravano estranei alla causa di Immirù, non esistevano problemi umanitari. A concepire la guerra come un fatto di natura, chi vince vince e chi perde paga.
Giovane e ingenuo, io non ero insensibile alla sorte del nemico sconfitto. Una sera mi trovai a mensa con Immirù presso il villaggio di Bonga dove finalmente eravamo arrivati anche noi a dare man forte a Minniti. Persona civilissima e di gran dignità, il ras a tavola ci raccontò la sua storia. Aveva avuto l’ordine dal negus di continuare a resistere perché a Ginevra, allora sede della Società delle nazioni, le potenze europee si erano accordate contro l’Italia, e gli avrebbero fatto arrivare armi e denari. Fosse stata un’illusione o un inganno, comunque la fortuna gli si era volta contro. Ora Immirù accettava il suo destino: «Riconosco la forza del governo italiano», ci disse a mensa nel correttissimo francese imparato nella scuola di Saint Cyr dove aveva fatto i suoi studi militari. Io fungevo da interprete perché non tutti i nostri ufficiali capivano la lingua che parlava il prigioniero. «Riconoscete anche i benefici che il governo italiano può arrecare in Etiopia?» gli domandò il colonnello Malta comandante dei battaglioni che lo avevano inseguito. «In questo caso il viceré maresciallo Graziani potrebbe chiedere al duce un trattamento di particolare favore per voi.» Tradussi, ed Immirù rispose con una specie di cantilena che pareva avesse imparata a memoria: «Accetterò qualsiasi punizione. Rinuncio ad ogni idea ambiziosa contro l’Italia che è potentissima e che non ha più niente da temere da chi la ha combattuta con onore ».
Sotto il tendone della mensa di Bonga l’atmosfera era abbastanza cavalleresca e lo sconfitto Immirù, piccolino, minuto, il volto tondo incorniciato da capelli crespi e da una breve barba, lo sguardo quieto, non mancava di qualche regalità. Intanto aspettavamo gli ordini di Roma sulla sorte da riservare all’importante prigioniero e ai suoi seguaci sottomessi ed innocui. L’ordine fu di concedere a tutti salva la vita e di spedire Immirù in Italia, dove lo assegnarono al confino nell’isola di Ponza. Mussolini avrebbe molto gradito che egli si dichiarasse formalmente sottomesso, e perciò il direttore della colonia penale andò più volte a far visita al ras per estorcergli una conveniente dichiarazione. «Ma che giudizio dareste voi» sbottò un giorno Immirù «di un italiano che durante il Risorgimento avesse fatto atto di sottomissione all’Austria?» E quindi fu lasciato in pace nella casetta che gli avevano assegnato sulla riva del porticciuolo di Santa Maria fino alla mattina del 28 luglio 1943, quando arrivò un maresciallo dei carabinieri a sfrattarlo di furia perché la casetta serviva per alloggiarvi Mussolini appena deposto. La storia ha di queste ironie. Per quanto poco abbia potuto conoscerlo, sono sicuro che il malizioso Immirù non mancò in quel momento di apprezzare il significato del proprio fulmineo trasloco.

La vita ingenua, Rizzoli 1980

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