5.8.19

La morte di Savonarola (Dino Baldi)


Dalle Vite efferate di papi di Dino Baldi (Quodlibet 2015) recupero quello che nel libro è intitolato l'Ottavo Intermezzo, uno dei frammenti di storia ecclesiastica che l'autore ha posto tra la morte di papa e l'investitura di un altro. Codesti intermezzi, come del resto le vite, redatti alla maniera delle storie antiche, sono costruiti rigorosamente su fonti coeve o vicine nel tempo. I testi di riferimento sono, in questo caso, la Storia d'Italia del Guicciardini, i Vulnera diligentis di Benedetto Luschino, un domenicano che con il protagonista della storia visse a stretto contato, la Vita di Girolamo Savonarola di fra' Pacifico Burlamacchi, anche lui domenicano e priore a Viterbo e Lucca, la Vita di fra' Bartolomeo nelle Vite del Vasari. (S.L.L.)

Girolamo Savonarola nel ritratto di fra' Bartolomeo


Di come papa Alessandro scomunicò Savonarola dopo aver cercato inutilmente di farlo riconciliare con la Chiesa. Col resoconto del falò delle vanità nel quale si bruciarono le cose più belle di Firenze.

Quando Girolamo Savonarola cominciò a scagliare infamie contro il papa e contro tutta la curia per i costumi dissoluti e la vergogna della religione calpestata e offesa, e alimentò il fuoco delle prediche col vento di profezie terribili e spaventose, Alessandro Borgia lo invitò a Roma perché, gli scrisse, «ci aiuti a far meglio quello che piace a Dio, che tu conosci per grazia sua»; ma il priore di San Marco, vedendo l’inganno, replicò che non si sentiva bene e preferiva non viaggiare, e in cambio gli mandò il suo Compendio delle rivelazioni, dove il papa avrebbe potuto trovare i suoi migliori consigli per riformare la Chiesa. Alessandro accusò allora il frate di eresia e di false predizioni, poi gli proibì di parlare al popolo e di somministrare la comunione, e infine, a maggio del 1497, lo scomunicò. Sembra però che in segreto gli avesse proposto il cappello da cardinale, purché si astenesse dall’annunciare l’imminente rovina della Chiesa; ma anche questo fu inutile, perché Savonarola disse che l’unico cappello rosso che gli piaceva era quello del martirio. Il frate continuava a predicare, e nelle sue prediche diceva che la Chiesa era un mostro abominevole, e che la scomunica del papa non valeva niente, perché non si deve obbedire a un ordine dei superiori quando è contrario ai comandamenti di Dio.
All’inizio di febbraio del 1497 sulla piazza della Signoria venne innalzato un albero di carnevale, e tutto intorno furono ammassati moltissimi oggetti preziosi che i bambini e i ragazzi di Firenze avevano raccolto per tutta la città, esposti come in un museo della frivolezza umana. C’erano stoffe piene di figure senza veli, ritratti di donne per mano di artisti eccellenti, busti antichi in marmo e statue di uomini nudi, carte da gioco, dadi, scacchiere d’alabastro, libri di musica, arpe, liuti, clavicembali, cornette e ogni altro genere di strumento musicale. In un altro lato della pira erano esposte le vanità delle donne: ciuffi di capelli per estendere quelli naturali, ampolle e profumi, polvere di cipria, specchi e cappelliere; e poi opere di poeti latini e volgari, Morganti, libri di battaglie e canzonieri, un Petrarca miniato e decorato in oro che da solo valeva cinquanta scudi, Decameroni; e ancora maschere, livree, barbe e altri capricci per camuffarsi durante il carnevale. Fra’ Bartolomeo portò in piazza tutti i suoi disegni di nudo, e lo stesso fecero Lorenzo di Credi e molti altri pittori, tanto che il Vasari disse che quel pentimento collettivo fu un danno grandissimo per l’arte di Firenze. Un mercante veneziano, vedendo quel ben di Dio, si offrì di comprare tutto per ventimila scudi, e in quel modo si guadagnò l’onore di essere rappresentato al naturale in cima alla pira come principe delle vanità, accanto a una figura di Carnevale deforme e mostruosa.
Migliaia di persone presero la comunione per mano del frate davanti alla macchina da ardere, dopodiché fu dato fuoco alle fascine, mentre le campane del palazzo suonavano a distesa e ovunque si vedeva far festa e cantare il Te Deum Laudamus in onore di quella distruzione. Savonarola guardava tutto e ne godeva, e il giorno seguente in una sua predica fece molti complimenti al popolo di Firenze, per essersi finalmente lasciato alle spalle i beni materiali che rendono l’uomo la più spregevole fra le creature del Signore.

Di come Savonarola venne preso e condannato a morte.
Non passò molto tempo che i fiorentini, delusi di non vedere nessuna delle profezie del frate farsi vera, e preoccupati che il papa lanciasse l’anatema contro la loro città, con la scusa di una rivolta popolare assediarono Savonarola nel convento di San Marco, lo presero e lo rinchiusero nel bargello. Alessandro Borgia quando lo seppe ne fu molto contento, e tolse la scomunica a tutti quelli che avevano ascoltato le prediche del domenicano. Tuttavia non riuscì ad ottenere che lo consegnassero a lui, e dunque mandò da Roma due commissari papali, perché esaminassero le sue colpe e consigliassero i giusti provvedimenti.
Il frate prima fu interrogato, poi fu torturato ed ebbe tre tratti e mezzo di fune che gli slogarono le ossa. Non mostrò quasi mai la forza d’animo che diceva di avere a parole. Gli fu dato da scrivere, confessò, pianse, fu di nuovo interrogato e confermò quanto aveva scritto. Ammise che tutte le profezie con le quali spaventava il popolo e scandalizzava la Chiesa non gli erano state rivelate dal cielo, ma erano idee sue basate sullo studio delle sacre scritture. Aggiunse però che tutto quello che aveva fatto non era per un fine malvagio o perché desiderava qualche carica ecclesiastica, ma perché voleva che la Chiesa di Dio tornasse ad essere il più possibile pura e vicina a quella degli apostoli. Disse ancora che per lui questo valeva molto di più che diventare papa, perché per fare il bene occorrono dottrina e virtù e amore degli uomini, mentre per fare il papa bastano spesso i maneggi o la fortuna.
Gli inviati di Alessandro Borgia sentenziarono che Savonarola, insieme ai frati Domenico e Silvestro presi insieme a lui, erano da considerarsi eretici e scismatici, e li affidarono alle cure del braccio secolare. Non era infatti compito della Chiesa eseguire le sentenze, perché Ecclesia abhorret a sangune. Domenico sembrava meno colpevole degli altri, e c’era chi avrebbe voluto salvarlo; ma uno dei commissari tagliò corto dicendo che un frate in più o in meno importava poco, e che per non sbagliare era meglio condannarli tutti e tre.

Del modo in cui venne eseguita la sentenza.
Il 23 maggio del 1498, alla vigilia dell’Ascensione, i tre frati furono condotti in piazza della Signoria, dove sarebbero stati impiccati e poi bruciati. Per ordine di Alessandro vennero degradati, gli fu tolto ogni segno di tonsura e gli venne raschiato il pollice e l’indice che avevano toccato l’olio santo. Quindi un uomo del papa si fece avanti e disse: «Piace alla santità di Alessandro VI liberarvi dalle pene del purgatorio offrendovi la plenaria indulgenza dei vostri peccati e restituendovi alla prima innocenza. Accettate questa grazia?»; e loro, chinando il capo, dissero che accettavano.
Nella piazza era stato costruito un grande palco, riempito sotto e tutto intorno di legna da ardere, pece e polvere di bombarda. Mentre i condannati passavano, i bambini da sotto infilavano bastoncini appuntiti tra le assi per ferirgli i piedi, che erano nudi. Silvestro fu il primo a salire la scala che portava alla forca; non parlava, ma aveva le lacrime agli occhi. Gli fu messo il capestro e il collare di ferro con la catena legata al patibolo, e il carnefice dette la spinta; poi fu il turno di Domenico, e per ultimo di Girolamo. Il frate saliva e recitava il Credo, e quando arrivò in cima voltò la faccia verso la gran massa di fiorentini che fino a pochi mesi prima gli baciavano i piedi e si accalcavano pei ascoltare le sue prediche. Qualcuno gridò: «Savonarola, fallo adesso il miracolo!».
Subito dopo, erano le dieci del mattino, fu dato fuoco alla pira. Inizialmente si levò del vento che allontano le fiamme. Tra la folla si cominciò a gridare al miracolo, e in moltissimi scapparono spaventati dalla piazza. Poi il venni si calmò, il fuoco avvolse i corpi, tutti si tranquillizzarono e la piazza tornò piena. I bambini si divertivano a lanciare lassi a quel che restava dei cadaveri per tirarli giù e giocare un poco, ma erano troppo in alto e le fiamme ancora fitte. Quando l’incendio ebbe consumato tutto, le ceneri furono raccolte con cura e buttate in Arno dal Ponte Vecchio, perché non rimanesse nessuna reliquia da venerare.

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