20.8.19

Dieci anni senza Fortini (Oreste Pivetta)



Franco Fortini ci lasciò dieci anni fa, mese di novembre, il 28. L’ultima immagine è di un uomo vigoroso, severo, diritto, il volto scavato, i capelli bianchi, morbidi all’indietro. Poi i funerali, nel gelo dell’inverno milanese. Aveva settantasette anni. Avrebbe potuto ancora aiutarci, perché era capace di intuire i cambiamenti, le novità. Avrebbe saputo leggere il decennio berlusconiano e avrebbe saputo proporci qualche spiegazione in più e probabilmente prima degli altri. Dire, dieci anni dopo, che ci manca è un’ovvietà. Ci manca Fortini e ci manca il pane di Fortini, la critica. Sarebbe stato bello (magari penoso per lui) sentirlo di questi giorni tra una riforma istituzionale, i comunicati di Tremaglia, il federalismo e le altre fanfaronate di governo e gli arzigogoli degli intellettuali di regime. Chissà. Magari avrebbe ancora avuto voglia di parlare o di scrivere. O di rispondere alle nostre telefonate.
Metteva apprensione una telefonata a Fortini, troppo bravo e difficile lui per reggere noi le domande di un’intervista. Poi tutto si faceva semplice, perché Franco Fortini era un maestro e, dopo tanti istituti tecnici dietro la cattedra, era un autentico educatore. Aveva la chiarezza delle idee profonde e nette e sapeva comunicarle. La dottrina era vasta: un intellettuale che catturava tutto e sapeva rendere con vivezza la trasversalità degli argomenti, dei problemi, delle interpretazioni. Lo riferivamo anche gli amici più “grandi”, come Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio, raccontando dei Quaderni piacentini e di come s’avviò quell’avventura nei primi anni sessanta. Loro avevano avuto l’idea, ma s’erano trovati sempre al fianco a spronarli e a consigliarsi quel signore burbero e colto che avevano invitato una volta a Piacenza, quando ancora i Quaderni non esistevano e viveva soltanto un circolo culturale di giovani, un poco assediati dentro una città di provincia con i suoi lati di bigottismo e di oscurantismo.
Fortini nutriva una certa passione per le riviste. Ai Quaderni piacentini si prestò con un aiuto importante. Ad altre riviste partecipò e collaborò: Comunità, Officina, Ragionamenti, Il menabò e poi Quaderni rossi (si sentiva molto vicino a Raniero Panzieri). Naturalmente Fortini scrisse sui giornali della sinistra e non solo della sinistra: Avanti, Unità, Manifesto, Messaggero, Corriere della Sera, Il Sole 24 ore. Era un intellettuale militante e pensava al “dovere” di comunicare. L’ultimo inter-vento pubblico lo aveva dedicato proprio al tema della comunicazione: il giorno dopo la prima guerra del golfo cercava di riflettere sull’imbarbarimento della televisione e dell’informazione, quelle stesse che ci avevano indotto ad assistere a quella tragedia come a un videogioco. Più avanti sarebbe andata peggio... Senza retorica Fortini inseguiva, come poteva, una verità e capiva che per tentare di raggiungerla compromessi non se ne facevano, neppure con le parole. Per questo s’era dato subito un vincolo: parlar chiaro e scrivere chiaro, un richiamo all’onestà e alla pulizia mentali tanto più generoso e necessario quanto più la sinistra degli anni difficili insiste nell’abitudine di costruirsi metalinguaggi consolatori per gruppi, clan, conventicole...
Parlar chiaro e scrivere chiaro erano nel suo religioso riguardo per la cultura, anche quella della nostra grande tradizione classica. Come disse una volta Sergio Bologna: «Fortini ci ha insegnato ad aver rispetto della lingua italiana e ha combattuto contro le forme di sciatteria e di volgarità dell’ultrasinistra, ha detestato il burocratese, il sindacalese, i gerghi del radicalismo con un rigore esemplare, ha detestato allo stessa maniera i linguaggi esoterici, chiusi degli intellettuali». Le parole devono circolare... Sulle sue parole potrebbe aver pesato persino l’esperienza all’Olivetti. Anche lui, come molti altri intellettuali italiani, passò di lì e ottenne una collaborazione come copywriter. Doveva inventare sigle, slogan per vendere le macchine, testi per spiegarne il funzionamento. Il lavoro gli impose la disciplina: una prosa scattante, brevità, semplicità e ancora idee chiare.
Ci sono un costume, un metodo, una morale in tutto questo. Nel segno della coerenza, che si riflette nella politica. Fortini era intransigente, indipendente e autonomo dai poteri, economici, accademici, politici, poteri forti o poteri arroganti delle piccole élite. Non li ha mai usati per fare carriera, per conquistare spazio su giornali e riviste, per una cattedra universitaria. All’università arrivò solo nel 1971 (insegnò fino al 1989 storia della critica letteraria a Siena). Visse la stagione della Resistenza e dell’antifascismo, seguì vicende della società industriale e della sua crisi, si sentì profondamente coinvolto nella rivoluzione postfordista (la sua partecipazione ai Quaderni rossi ne fu un segnale). Capì che il mondo cambiava e capì che in quel mondo nuovi diventavano i suoi interlocutori e che la sua “critica al capitalismo” era un esercizio ancora vitale, ma non immutabile. Fortini pensava nel futuro, per una radicale “critica al capitalismo” della società presente, con un programma preciso: «criticare l’immagine mistificata, ossia la forma illusoria, che la classe oppressa ha di se stessa». Fortini usò per questo la letteratura, la sua e quella degli altri, di Sartre e di Eluard, di Brecht, di Proust e di Goethe.
Ma considerava la letteratura come il luogo di un esame totale: c’è sempre il mondo da scoprire. Non è strano che Fortini fosse poeta. Lo sentiva ancora il suo scrivere versi, citando Adorno, nel senso, radicalmente, della negazione e contestazione di tutto ciò che sta e viene accettato nel «quotidiano ripetuto». Un tramonto di pace è un suggerimento di felicità che può avere nell’animo di chi lo ascolta un valore dirompente. Una volta spiegò: «La poesia parla di qualcosa e nello stesso tempo parla di se stessa. La voce della poesia dice questo o quello, ma lo dice in modo che un effetto d’eco ci ricorda sempre che non la si può prendere in parola. Naturalmente questo irrita coloro che vogliono opinioni, vogliono scelte, sentimenti immediati. Ebbene questa ambiguità è la sua lezione, una lezione fondamentale...».

“l'Unità”, 14 ottobre 2004

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