22.8.19

Il boom del part-time (Salvatore Cannavò)



Quando si parla di occupazione e mercato del lavoro è bene fare attenzione ai numeri. Anche perché i dati influenzano scelte generali di politica economica e anche le scelte dei banchieri centrali, come dimostra l’ossessione Usa per il tasso di disoccupazione quando si tratta di fissare il livello dei tassi di interesse in chiave anti-inflazione. E la lotta all’inflazione, del resto, costituisce la mission centrale della Bce, contenuta nel suo mandato.
Fare attenzione significa però saper “pesare” i dati occupazionali perché ormai – questa è una caratteristica strutturale del mercato del lavoro – dire occupati non significa che tutti sono occupati allo stesso modo. E dire che i posti di lavoro aumentano non significa che aumenti il tasso di attività di quelli compresi tra i 18 e i 64 anni.
Un elemento disturbatore, ad esempio, è il part-time: formalmente designa un lavoratore o una lavoratrice occupati, ma la sua espansione corre accanto alla stagnazione dei salari complessivi e la sua incidenza sul monte ore lavorate è ovviamente importante. Tra le ragioni della riduzione progressiva dei contratti a tempo indeterminato – che viene ribadita anche dall’ultimo rapporto annuale dell’Inps – c’è il fatto che le altre tipologie contrattuali aumentano. “Infatti nel 2017 – scrive l’Inps – quasi il 20% delle giornate lavorate nel settore dipendente privato risulta afferente ai rapporti di lavoro diversi dal tempo indeterminato classico”. L’incidenza del tempo determinato sul totale “è passata dal 9,9% del 2016 all’11,8% del 2017, l’apprendistato dal 3% al 3,2%, il somministrato dal 2% al 2,4%, lo stagionale dall’1,1% all’1,2%, l’intermittente dallo 0,4% allo 0,6%”.
I dipendenti coinvolti in rapporti di lavoro a tempo determinato e di apprendistato, quindi, “sono aumentati significativamente, passando da 3,7 milioni a 4,6 milioni (quasi un milione di dipendenti in più, +24%)”. E poi c’è il part-time il cui peso è salito “dal 27,4% del 2016 al 28,1% del 2017”. Ma se “si restringe l’osservazione al contratto standard tempo indeterminato-full time verifichiamo che esso assorbe nel 2017 il 59,3% della quantità di lavoro contro il 61,4% del 2016”. Quindi il 40% delle giornate lavorate “è inquadrato con rapporti di lavoro a termine e/o a part-time”.
Nel suo rapporto, l’Inps elabora una misura omogenea del tasso di occupazione, prendendo come unità soltanto la giornata lavorativa e la tipologia di contratto. In tal modo, costruendo una tabella basata sugli “anni-uomo” permette di vedere esattamente l’andamento del mercato del lavoro tra il 2016 e il 2017. Il tempo indeterminato si riduce sia nel full time (-0,7%) che nel part-time (-0,6%), ma il tempo determinato cresce del 15,5% nel full time e, addirittura, del 35,5% nel part-time raggiungendo il 40% degli “anni-uomo” di quella categoria. Forte crescita anche nel settore stagionale dove il part-time cresce del 21% contro un +9,6% per il full time. Mentre solo il lavoro intermittente, che cresce del 49,8%, lo batte.
Si tratta di una rivoluzione lenta ma progressiva del mercato del lavoro e spiega chiaramente perché la curva dei salari sia stabile da almeno 25 anni a questa parte e perché nonostante la formale riduzione della disoccupazione – gli ultimi dati la stimano al 9% – non si verifichi un miglioramento percepibile delle condizioni di vita. Il fenomeno dell’emigrazione dei giovani italiani continua e l’ingresso nel mercato del lavoro continua ad avvenire in forme lentissime e con contratti, come abbiamo visto, sempre meno garantiti.
L’incidenza del part-time, spiega l’Inps, “non risulta tanto correlata al grado di terziarizzazione quanto a configurazioni territoriali dell’attività produttiva”.Così è Prato la provincia con la massima incidenza del part-time nel settore manifatturiero: “Il 40% contro un valore medio nazionale del 12,4%”. I livelli più bassi, invece, si riscontrano in alcune province piemontesi e lombarde: “Il minimo si raggiunge a Vercelli (meno del 7%) ma anche a Milano l’incidenza del part-time nel settore manifatturiero è molto contenuta (meno del 9%)”.
Secondo l’Inps, questa differenza così rilevante del grado di incidenza è indicativa sia di una “diversa vulnerabilità delle strutture produttive”, ma anche dei rischi di irregolarità: “Non di rado, infatti, il part-time è la formula preferita per organizzare il lavoro secondo modalità solo parzialmente regolari”. Tutto ciò, poi, si scarica sulle retribuzioni complessive. L’Inps indica quattro ragioni che spiegano la riduzione o il mancato incremento della retribuzione annua: la quantità di giornate lavorate; la retribuzione media giornaliera; le variazioni nell’orario di lavoro (passaggi da part-time a full time e viceversa); la continuità di prestazione con la medesima azienda. La causa principale delle riduzioni di retribuzione è la contrazione della retribuzione media giornaliera. Ma quasi un milione di lavoratori nel 2017 hanno lavorato meno e percepito una retribuzione media giornaliera inferiore a quella del 2014: “Tra essi il 51% ha cambiato azienda e poco meno della metà lavora a part-time”.
I dati sull’occupazione, scomposti e ricanalizzati alla luce delle effettive dinamiche, sono più che utili per cogliere le tendenze generali dell’economia. Negli Stati Uniti, ad esempio, la Borsa, la Fed e lo stesso governo, prendono la riduzione consistente della disoccupazione come un dato di grande forza economica. Ma se si guarda al tasso di attività, cioè delle persone che sono davvero al lavoro, si nota che il tasso americano, nel 2018 al 62,8%, è ancora più basso di quello del 2007 che era al 63%. Quindi ci sono meno persone al lavoro e ci sono più lavoretti, più situazioni frammentate, sacche di marginalità e di sottoccupazione.
La stessa cosa si può rilevare in Italia, dove l’occupazione sembra aumentare, ma succede con più lavoro parziale, più lavoro intermittente e meno contratti a tempo indeterminato. Poi dice che non si cresce.

Il Fatto Quotidiano 21 agosto 2019

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