15.8.19

La Guerra civile Usa fuori dal mito. «Non fu una crociata per la libertà» (Antonio Carioti)


La resa del generale Lee al generale Grant in un film USA degli anni 20 del Novecento

L'Unità d'Italia e l'inizio della Guerra di secessione americana portano la stessa data: 1861. Ma non è solo il 150° anniversario ad accomunare i due eventi. Secondo Raimondo Luraghi, autore di una fondamentale Storia della guerra civile americana (Bur), l'analogia è ben più profonda: «Il conflitto tra Nord e Sud fu una vera rivoluzione nazionale e Abraham Lincoln si può considerare il Cavour o il Bismarck degli Stati Uniti. È lui a lanciare e imporre l'idea della grande Repubblica americana, mentre fino allora l'Unione era vissuta come un insieme di Stati gelosi della loro sovranità». Luraghi, che dopodomani compie novant'anni, è in piena attività. Ha pubblicato nel 2007 da Donzelli un bel saggio sulla cultura del Sud degli Usa, La spada e le magnolie , e sta lavorando per la Bur a un libro di sintesi interpretativa, nel quale intende tirare le fila di oltre mezzo secolo di studi sulla Guerra civile. «Alle origini del conflitto - spiega - c'è l'impetuoso sviluppo industriale del Nord, dal quale emergono nuove classi, imprenditori e operai, che professano un'ideologia nazionalista e vogliono scalzare l'egemonia esercitata fino allora dall'aristocrazia agraria del Sud». Ma quanto incise la questione della schiavitù dei neri, essenziale per l'economia degli Stati meridionali, fondata sulle grandi piantagioni? «Ebbe un peso notevole, anche se il vecchio racconto moralistico della lotta tra i liberatori del Nord e gli schiavisti del Sud non ha fondamento. Purtroppo ora quel mito è tornato di moda sull'onda della battaglia contro il razzismo. Ma così gli studi vanno indietro di decenni. Quando la politica s'infiltra nella storiografia, è come un'iniezione di cianuro: finisce per ucciderla».
Raimondo Luraghi (1921 - 2012)
In realtà, nota Luraghi, per conservare la schiavitù ai sudisti conveniva rimanere nell'Unione: «L'abolizionismo era debole e il Sud aveva un solido potere di veto. Lo stesso Lincoln negava di voler sopprimere la schiavitù là dove già esisteva. Semmai voleva arrivare a superarla gradualmente, indennizzando i proprietari di schiavi». Del resto il problema non appariva urgente neanche sotto il profilo umanitario: «Per quanto la schiavitù fosse un'istituzione sciagurata e indegna, criticata anche da molti sudisti, in genere i neri erano trattati in modo paternalistico e si ribellavano di rado. Alcuni ricevevano incarichi di fiducia: il presidente della Confederazione, Jefferson Davis, aveva messo i suoi affari nelle mani di un segretario che era uno schiavo, mentre il più grande generale del Sud, Robert Lee, aveva due attendenti neri». Si arrivò alla guerra per altre ragioni: «I grandi piantatori sudisti erano una vera classe dirigente, non un semplice ceto dominante. Tutelavano anche gli interessi dei bianchi poveri del Sud e avevano stretto un'alleanza con gli agricoltori del Midwest nel Partito democratico. I primi presidenti degli Usa venivano di solito dagli Stati meridionali o erano condizionati dal blocco a guida sudista». Fu lo sviluppo industriale a cambiare le carte in tavola: «Il Nord cresceva in popolazione e ricchezza, grazie anche alla valvola di sfogo del selvaggio West, dove potevano recarsi i lavoratori che restavano disoccupati. Ma ciò significava che i nuovi Stati non avrebbero ammesso la schiavitù e quelli che la praticavano si sarebbero presto trovati in minoranza nell'Unione. Allora i sudisti chiesero di permetterla nel West, ma era una pretesa assurda, perché quei territori erano inadatti alle piantagioni e i bianchi che vi si recavano non volevano certo la concorrenza della manodopera schiava».
Lincoln
Così si ruppe il blocco agrario. E nel 1860 fu eletto presidente Lincoln, deciso a escludere l'introduzione della schiavitù nei nuovi Stati: «Il Sud - racconta Luraghi - cadde in preda a un'enorme frustrazione, che è pessima consigliera. I latifondisti si sentivano sfuggire il potere dalle mani. Uomini raffinati e colti, abituati a una vita agiata dai ritmi rilassati, fedeli a valori cavallereschi, guardavano con sospetto la borghesia industriale, dedita alla ricerca del profitto, e le masse lavoratrici, da loro ritenute rozze e ignoranti, del Nord. Non sopportavano inoltre di essere dipinti come barbari per via della schiavitù. Così uscirono dagli Stati Uniti e fondarono la Confederazione, pur sapendo che ciò avrebbe portato alla guerra: vedevano i nordisti come bottegai inetti al combattimento». Inizialmente parve che avessero ragione: «La sproporzione demografica era schiacciante: 5 milioni e mezzo di bianchi sudisti contro 22 milioni di nordisti. Sul piano economico il vantaggio dell'Unione era ancora più netto. Ma la Confederazione fece prodigi, improvvisò un'industria bellica dal nulla e dimostrò sul campo il valore dei suoi militari. La guerra divenne uno scontro gigantesco, sanguinosissimo. Lincoln capì che per indurre il Nord a sopportare uno sforzo così intenso ci voleva uno di quelli che Adolfo Omodeo chiamava miti apocalittici, capaci di cambiare il mondo. Quindi proclamò l'emancipazione dei neri, a partire dal 1° gennaio 1863, in modo da trasformare la guerra in una crociata antischiavista. E arrivò a forgiare "con il ferro e con il sangue", come diceva Bismarck a proposito della Germania, la nuova identità nazionale, in una sorta di seconda rivoluzione americana dopo quella contro gli inglesi».
Invece non nacque mai, secondo Luraghi, un vero nazionalismo sudista: «La Confederazione rimase un insieme di Stati, i cui governatori strepitavano di continuo contro Jefferson Davis. Il generale Lee considerava la sua patria la Virginia, non il Sud, tanto è vero che in una fase decisiva della guerra rifiutò di spostare truppe a Ovest per contrastare l'avanzata nemica lungo il Mississippi. L'esercito del Sud mancò di una visione strategica e sparpagliò le forze proprio perché gli Stati tenevano alla loro autonomia». Per giunta Lee fu un genio in battaglia, ma non capì la nuova guerra industriale: «La potenza di fuoco era aumentata in modo esponenziale, non era più tempo di manovre e assalti alla baionetta. Su oltre 600 mila caduti (metà del Nord e metà del Sud) pochissimi furono uccisi da armi bianche. Furono inoltre decisive invenzioni come la ferrovia, il telegrafo, ma anche la carne in scatola e il latte condensato, che aumentarono autonomia e mobilità delle truppe. E poi tende, stivali e mantelli impermeabili, che consentirono di proseguire le operazioni sotto le intemperie. Tutti fattori favorevoli al Nord». 
Così la rivoluzione di Lincoln trionfò, ma lui non poté gestire la vittoria, poiché fu assassinato nell'aprile 1865, alla fine della guerra: «Fu una iattura, perché aveva pronto un piano di riconciliazione saggio e generoso. Morto Lincoln, non se ne fece nulla, anzi il Sud fu considerato terra di conquista e sottoposto a condizioni durissime, che cessarono solo nel 1877. Poi il conto fu pagato dai neri. In un primo tempo tornò al potere la vecchia aristocrazia sudista, che riesumò un paternalismo abbastanza benevolo verso la gente di colore. Ma poi i notabili furono rovesciati da un movimento di base, espressione dei ceti popolari che avvertivano molto di più l' urto razziale. Furono così i bianchi poveri a imporre nel Sud un regime di rigida segregazione dei neri, che sarebbe durato molto a lungo».


Corriere della sera 14/08/2011

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