31.10.09

Memoria e identità nella storia romana (un progetto inedito)


Pubblico qui un progetto di ricerca ritrovato tra le mie carte dal titolo Memoria e identità nella storia romana e dal sottotitolo (credo fosse un'indicazione di metodo e nulla più) Gli storici antichi da monumento a documento, risalente ai primi anni 90.
Le ipotesi di lavoro fondamentali, come le direzioni della ricerca mi sembrano tuttora valide, ma ora come allora non mi sento in grado di procedere da solo. Lo posto nel blog come il naufrago nel mare la bottiglia, nella speranza (assurda) che qualche appassionato faccia di questo scheletro materia di discussione con me e nella fede che qualche giovane studioso si proponga per un lavoro comune. ("Credo quia absurdum" - disse qualcuno). La prima parte dell'appunto è lo schema della ricerca con scarne indicazioni tematiche e bibliografiche, la seconda una noterella sul tema dell'identità dei Romani.

Parte prima. Memoria e identità nella storia romana. Schema di ricerca
I. Un'interpretazione della storia antica.
Dalla molteplicità all'unità, alla disgregazione.
  • Primo periodo (IV millennio - VI secolo a.C.) - Si sviluppano nel Mediderraneo e nel vicino Oriente varie culture e civiltà.
  • Secondo periodo (VI secolo a.C. - IV secolo d.C.) - Lungo e tortuoso processo di unificazione (risultato è UNITA', NON UNIFORMITA', con una grande varietà di situazioni regionali) - Gli apporti fondamentali sono: a) La cultura scientifica, filosofica e letteraria ellenica ed ellenistica; b) Sistema politico giuridico romano (Impero); c) Il monoteismo giudaico cristiano (ma non mancano altri importanti contributi).
  • Terzo periodo (IV secolo - VIII secolo d.C.) - Destrutturazione: l'uno si divide in tre. Dalla crisi del mondo antico progressivamente nascono Bisanzio, l'Islam, l'Europa. - Il Mediterraneo non unisce, divide.

II. Ebrei - Greci - Romani
I tre gruppi che danno il contributo maggiore sono i tre popoli (???) con la STORIA (non solo memoria o cronaca, ma investigazione sul passato, interpretazione degli eventi, giudizio).
III. Il caso degli Ebrei
Piena identificazione della storia nazionale con la storia sacra: Storia d'Israele come storia del popolo di Dio.
(Materiali: Libro dei Re - Capitoli 15 e 16)
IV. La storiografia dei Greci
Storia e filosofia nascono da una analoga critica alla Tradizione. - Le tre tendenze:
  • Erodoto - mimetica - Luoghi - Costumi - Prima identificazione "nazionale": Greci versus Barbari. - "Gioia del racconto"
  • Tucidide e poi Polibio - pragmatico-apodittica Ricerca e critica delle fonti (approccio scientifico) - Primato della politica: la Storia è in primo luogo storia degli Stati.
  • Isocrate - moralistico-retorica - Il passato come fonte di insegnamenti morali e come repertorio di exempla, di paradigmi interpretativi.
V. La storiografia romana
L'influenza greca e l'apporto delle diverse tendenze - Breve storia della storiografia romana (periodi - generi - autori - opere)
(Materiali: Brani d'autore sulla storia - Cicerone, Sallustio, Tacito)
VI. Gli storici romani come fonte storica
Monumento/documento - Per gli elementi fattuali uso prudente (manca sovente la possibilità di confronto con altre fonti) - Buona fonte per storia mentalità - ideologia - religione - costume - istituzionale.

VII. L'identità dei Romani
Per l'impianto generale vedi nota a parte.
Materiali:
  • NEVIO - Bellum poenicum (Traglia frr.46- 47)
  • CATONE - Carmen de moribus frr.1-3, Liber ad filium Marcum fr.1-9, De re rustica Praefactio e cap.XCII (Gentili p.72-79); Origines (da Gellio) (Ronconi p.216 -217)
  • VARRONE - De re rustica capp. XLI - XLIII
  • SALLUSTIO - De coniuratione Catilinae capp. VI-XIV (il XIV parla in effetti dei seguaci di Catilina, ma è utilissimo per esplicitare il nesso tra corruzione morale e crisi politica)
  • CORNELIO NEPOTE - Cato, capp.I-III
  • VIRGILIO (Brani dalle Georgiche e dall'Eneide, da scegliere9
  • ORAZIO Odi, III, 6
  • LIVIO Ab urbe condita Proemio; V,cap IX, 17-19; XIX, fr.12; XLII, fr.13. Religione, XXVII, fr.37.

VIII. Aree tematiche
  • Crisi e transizioni (La nascita della Repubblica, Livio; La congiura di Catilina, Cicerone e Sallustio; La guerra civile, Cesare ed epistole di Cicerone; l'autobiografia di Augusto)
  • I Romani e gli altri (Greci, Galli e Germani, Catone, Cesare, Tacito, Giovenale)
  • La religione
  • La famiglia e il ruolo della donna




Parte seconda. L'identità dei Romani (nota)
Quando nel III secolo a.C. i Romani, sul modello dei Greci, cominciarono a cercare, studiare, tramandare la propria storia, una questione più di altre li appassionò. Come erano riusciti gli abitanti di un oscuro villaggio del Lazio a sottomettere, l'una dopo l'altra, genti più numerose e potenti, a costituire un impero sempre più esteso ed inclusivo? Con la guerra, certo. Ma nella Roma che aveva sconfitto Cartagine ed era ormai al centro di un impero mediterraneo si tendevano ad attribuire le vittorie militari più che a una superiorità negli armamenti, nelle strategie o nelle tattiche di combattimento, alle singolari doti morali dei primi Romani, al sistema istituzionale e legislativo che si erano dati e alla protezione divina. L'identità dei Romani, insomma, si definisce in termini a) morali; b)giuridici; c) religiosi; e la loro "superiorità" viene fatta discendere da un "modello di comportamente" e/o dal diritto e/o da una missione provvidenziale.
Come gli Ebrei i Romani si considerano dunque un popolo eletto; ma questa "elezione" è sempre provvisoria e condizionata: l'impero può corrompersi e decadere se i discendenti si allontaneranno dai costumi degli antenati. Già dai tempi di Catone il presente è letto in termini di decadenza morale, cui bisogna opporsi perchè non ne consegua la decadenza politico-militare. Il presentimento è ancora più forte in Sallustio, che vive il turbolento trapasso al Principato e nelle vicende di guerre civili e colpi di stato legge il diffondersi del vizio, l'allontanarsi delle nuove generazioni dai modelli delle origini.
La nostalgia per i costumi dei Romani vetero-repubblicani è presente anche in Tito Livio, lo storico dell'età augustea. La sua ideologia repubblicana è solo apparentemente in contrasto con il nuovo regime politico. Ottaviano Augusto, che scrive una sorta di autobiografia politica, propaganda e fa propagandare un'immagine di se stesso come restauratore dei costumi tradizionali e insiste sulla Romanità di un impero che romano e latino ormai non lo è più neanche nella classe dirigente, contro le tendenze, giudicate corruttrici, all'ellenizzazione e all'orientalizzazione.
Gli stessi temi si possono cogliere nei due grandi poemi dell'età Augustea, le Georgiche e l'Eneide di Virgilio, opere di grande poesia, ma anche strumento di diffusione del "messaggio" augusteo.
Negli storici di età imperiale di lingua latina si può ancora riconoscere il tema della Romanità repubblicana, ormai trasformato in mito privo di una concreta operatività. L'impero è sempre più autocratico e sempre meno repubblicano, sempre più universale e sempre meno romano; i modelli prevalenti di cultura e di moralità sono di origine greca ed orientale, non italica. Di tutto ciò si può avvertire lo sconforto non solo in uno storico come Tacito, il più grande scrittore di storia dell'età imperiale, ma anche in un poeta satirico come Giovenale.
Il mito della Romanità si conserverà anche nel Basso Impero. Nel IV e V secolo il Cristianesimo è la religione degli imperatori e della maggioranza dei cittadini, proprio mentre l'Occidente è scosso dalle invasioni "barbariche". Simmaco scriverà nel 381 una supplica all'imperatore contro l'abolizione del culto pagano, ma in essa più che il rimpianto dell'antica religione si può leggere la nostalgia per ogni tradizione propriamente "romana". Lo stesso Agostino, che scrive "La città di Dio" proprio per reagire alle accuse contro il Cristianesimo, indicato come matrice della decadenza, deve affermare che l'impero non fu elargito ai Romani dagli dei tradizionali per il loro culto superstizioso, ma dall'unico vero Dio come premio delle loro virtù naturali. Insomma il mito della superiorità morale dei Romani antichi resiste perfino nel più innovativo e anticonformista dei capi della nuova religione.

Dai "Mimi siciliani" di Francesco Lanza.

Il pietraperzese

Al pietraperzese era morto il pa’; e tutti lo piangevano a gran voce. Lo vestirono, lo misero nel cataletto, e diedero al pierzese da tenere la candela; e lui guardava con la bocca aperta e gli occhi asciutti, senza ài né bai.

Uno lo tirò per la manica:

- Perché non piangi? Non vedi ch’è morto tuo pa’?

E lui:

- O come posso piangere, che ho la candela in mano?

Il prizzitano

II prizzitano, non sapendo come sbarcare il lunario a casa sua, se n'andò fuori via, di là dal mare; ma vedendo ch'era peggio di prima, pensò di tornare, e per pietà s'ebbe un posto sur un naviglio.

Il viaggio era lungo, e il tempo nemico; e lui poveretto all'acqua e al vento intirizziva come una foglia. Or finalmente una notte che il freddo era più crudo, avvistarono la costa, e la lanterna del molo lungi ardeva come un braciere.

- Ah - esclamò egli allora, stendendo le mani di là per scaldarsi - ora sì che a questo fuoco mi sento ricreare!

Le gambe dei lercaresi

I lercaresi, essendo in festa, se ne andarono in campagna a prendersi spasso; e buttatisi a frotta su di un prato, mangiarono, bevvero e si sdraiarono alla rinfusa come loro meglio piacque.

Ma al punto d’alzarsi, al vedere tutte quelle gambe mischiate, di maschi e femmine, ognuno nella confusione non conosceva più le proprie, e facevano a gara:

- O quali sono le mie? E le tue? E cotesta di chi è? Ahi, che a me ne manca una!

E sono ancora là che se le cercano.

La luna e il piazzese

Due mazzarinesi, 'mbriachi fino alle nasche come scimmie, uscirono dalla taverna ch'era notte; e per ragionarla meglio se n'andavano a braccetto a piacere dei piedi, un passo

avanti e due indietro, che parevano a mare.

A un punto, sul campanile della chiesa si levò la luna, tonda come una ruota e tutta raggiante; e quelli, che gli pesava il vino, restarono allucinati a mirarla.

Uno della partita, ch'era il più cotto, gli parve il sole, e mostrandola al compagno faceva:

- Guardate, compare mio, che ci è spuntato il sole tra' piedi, e noi non ce ne siamo accorti.

E l'altro, per non dargliela vinta:

- 'Gnornò, che non è il sole, ma la luna, che i galli non cantano.

E quello:

- E io vi dico che è il sole.

- E io, che è la luna.

È il sole, è la luna, nessuno se la voleva dar persa, e se non era che non stavano dritti finiva a zuffa. Finalmente, si trovava a passare di là il piazzese, che iva a Mazzarino, pei fatti suoi; e quelli vedendolo si volsero a lui, che dicesse la sua:

- O voi, messere, è quello il sole, o la luna?

E il piazzese:

- Ahbo' io forestiero sono!

Il castrjannese

Come il castrjannese fu grande e grosso, suo pa' gli disse:

- Ora ti devi sposare, ch'è tempo e sei in potere.

E lui, che badava alle faccende in campagna:

- E voi sposatemi come piace a voi, ch'i' non so nulla e voglio farmi i fatti miei.

Il pa' gli trovò subito la zita con le gambe dritte come una giumenta, e sincera come il pane ogni altra cosa; e gli fece:

- Ora la zita te l'ho trovata, ch'è bianca e bionda come lo zibibbo; e sali tosto al paese

che tu sarai il gallo della casa

e tu cavalcherai sopra la botte

le butterai il ciuco fra la sulla!

E lui, grattandosi la zucca:

- O che, devo esserci anch'i'?

La riccia

Una volta il siciliano, non sapendo più come sbarcare la vita in Sicilia, lasciata la moglie, passò lo stretto e se ne andò in Calabria da un suo compare.

Il calabrese l'accolse a braccia aperte, e con lui divise casa e tavola, e gli trovò da lavorare con l'accetta e con la vanga.

- Compare mio - gli diceva sempre – non dovete aver soggezione con noi, e tutto quello che volete, domandatemelo; che da noi si usa spartire fin il letto con il proprio compare.

Il siciliano lavorava, mangiava e dormiva; ma molto non passò che si fece venire la malinconia, e quando vedeva il compare voltava gli occhi dall'altra parte e si tappava la bocca per non parlargli.

Il calabrese non sapeva più che domandargli, e che inventare per farlo contento:

- Compare mio, o che avete? Perché non me lo dite, ch'io ve lo fo?

Il siciliano si voltava dall'altra parte senza ri-spondergli nulla, e poi masticava per conto suo.

E il calabrese:

- Compare, o che vi ho fatto, per la grazia di Dio?

Tanto glielo disse: - che vi ho fatto, che vi ho fatto? - che il siciliano gliela cantò:

- Bel ricetto che mi avete dato, compare mio! Vi ringrazio davvero! Se foste venuto voi in Sicilia, io sì che l'avrei fatto il mio dovere; e tutto avrei diviso con voi, senza lasciarvi a digiuno di nulla. Questo non me l'aspettavo da voi, che mi dite sempre: - da noi si usa spartire fin il letto col proprio compare! - e intanto vostra moglie ch'è bella e fresca ve la tenete tutta per voi, e per me non ne serbate neppure una parte e una briciola. Bella cortesia che m'avete fatta! Se foste venuto laggiù, prima del pane avrei diviso con voi mia moglie, che soltanto così si fa onore al proprio compare.

E il calabrese:

- E perché non me l'avete detto prima, compare mio? Io non sapevo che così si usa dalle parti vostre, e mi dovete scusare per la grazia di Dio! Se ho diviso il pane con voi, divido anche mia moglie che è più dolce del pane. E poiché da voi si usa così, verrò anch'io in Sicilia per gustare la vostra.

- 'Gnorsì, compare mio; ma prima cominciamo di qua, che soltanto si rende ciò che si riceve.

La notte il calabrese uscì fuori, e il siciliano entrò nel letto ch'era tutto caldo e soffice, e non perdette un solo minuto di tempo, e la donna andava facendo:

- Se in Sicilia si usa così, sia lodato mio marito che me l'ha detto! Compare mio, datemi abento, per la grazia di Dio!

Cosi stettero tutt'e tre felici e contenti, ma il calabrese ogni tanto si lamentava che non trovava mai largo nel letto, e il compare non gli lasciava più niente di sua moglie.

- Non ci pensate - faceva il siciliano - quando verrete voi a casa mia, farete lo stesso con me, e nel mio letto ci starete voi.

Il calabrese dunque lasciava fare di buon animo, pensando di rifarsene con la moglie del compare; ma passa ora passa poi, perdette la pazienza, che il siciliano lo portava per le lunghe e non voleva mai passare lo stretto.

- Sentite, compare mio - gli disse un giorno - non è questo il modo dì mancare ai patti. Andiamo a casa vostra, per la grazia di Dio! se no, non vi so dire come finisce.

E la moglie, anche lei:

- Giusto è che ve lo portiate; se avete gustato me, voi fategli gustare la vostra, e poi tornate ancora, ch'io ne ho sempre

per tutt'e due.

Così il siciliano non poté più farne a meno, e partì col compare per il suo paese, e non so dirvi come gli facesse il cuore al pensare ciò che avrebbe detto sua moglie. Come giunsero, sì chiamò quella in disparte, che non sapeva

più che feste fare, e buttandosele ai piedi le narrò il fatto e il patto; come il compare era venuto con lui per avere la sua parte, e che quindi pensasse lei a trarsi d'impaccio.

Quella non si spaurì, che modi non le erano mai mancati per gabbare i santi, e lieto viso fece al calabrese, e lo cibava e gli girava intorno come un fuso. Come fu notte, prese che

aveva una riccia, la scuoiò e se ne mise la pelle davanti, e col calabrese se ne andò a letto, tutto vezzeggiandolo.

Al buio, quegli partì infuriato, ma saltò dieci palmi in aria, gridando:

- O che avete che voi pugnete?

- Nulla, compare mio, che tutte cosi siamo noi siciliane - e lo tirava a sé perché ritentasse la prova.

Ma quegli scappò via, ed era già in Calabria, che gridava ancora:

- Me', come pugne la siciliana!

Il licatese

Un dì il licatese, colta a tradimento la vicina, la buttò sul letto, e partì per il fatto suo.

Quella se la prese a rispetto, e gli andava facendo:

- O che malcreanza è questa con mia signoria?

Non lo sapete che alla porta chiusa si bussa e alla casa d'altri si domanda permesso?

E lui: :

- O non vedete che per entrarci mi sberretto?

Il piazzese

Andandosene a Piazza un tale, incontrò il piazzese.

O voi - gli fece - siete cristiano?

E quello:

- 'Gnornò: piazzese.

La capaciota

Il capacioto diceva sempre alla moglie:

– Moglie mia, non mi fate le corna, che mi spuntano in fronte come un becco, e la vergogna è vostra.

Quella a battersi il petto che non era cosa sua, e il pane l'aveva in casa: ma a lungo andare per sospetto che non fosse una burla e per la curiosità insieme, volle tuttavia provare, e ogni volta gli guardava zitta la fronte.

Ma prova e riprova, cotesta gli restava più liscia di prima; e gli fece stizzita:

– O che mi contavate dunque di corna e non corna, marito mio? Ve ne ho fatte che non ne posso più, e ancora non vi spunta manco il bozzo.

« Lu ma »

Il castrjannese dava marito alla figliola; e la mattina andandosene in campagna sulla mula lo annunciava a chi prima incontrava:

- Lo sapete? do sposa la figliola.

Tutti si rallegravano; ma al sentire il nome del giovane scrollavano il capo:

- Il partito è buono, ma c'è lu ma.

Ma c'è lu ma, ma c'è lu ma, il castrjannese non sapeva più che pensare: e messo finalmente uno alle strette volle sapere che fosse; e glielo dissero:

- Il giovane è buono, ma gli manca la cucca.

Il castrjannese voltò la mula e volò a casa come il vento; e li trovò che sonavano e bal lavano per festeggiare il fatto; e lui:

- Basta la musica, che la cucca non c'è.

Il festino cessò e i balli restarono in aria; e la zita cominciò a piangere disperata, dandosi pugni sulle cosce:

- Ahi, amara me, che il mio damo non ha cucca per uccellarmi la notte!

Ma quello si chiamò in disparte il castrjannese e gliela fece vedere; e allora:

- Avanti la musica, che la cucca c'è.

Le minchie

Un giorno trovandosi San Pietro a passare di qua, vide il piazzese che arato il suo campo lo andava seminando:

- O che semini? - gli domandò.

E quello:

- Mínchie, per chi non ne ha.

- E minchie sieno - disse San Pietro, facendoci sopra la benedizione.

E alla stagione infatti il campo produsse in abbondanza grandi minchie e rigogliose; e fu lo spasso delle vedove, delle vergini e delle maritate, cui una sola non bastava più.

I tredici sindaci di San Cataldo

A San Cataldo dovevano fare il sindaco. Misero la bandiera al balcone, e la sera i tredici consiglieri si radunarono al municipio. Ma, giunti al fatto, non potevano mettersi d'accordo. Chi voleva questo chi quello, e quando l'uno era pronto l'altro spuntava, e ci trovavano subito i difetti, e i se e i ma. Tutt'e tredici, ognuno diceva la sua, perché così e così il popolo voleva un sindaco e non un càntaro con la

sciarpa. Consumarono tutta la saliva che avevano in bocca, e a mezzanotte non avevano ancora concluso nulla. Finalmente la folla, che assisteva pigiandosi come le sardelle in un barile, stanca gridò:

– Votazione, votazione!

I tredici si sedettero; e sputacchiando e spurgandosi per darsi dignità, ognuno scriveva il proprio nome nella polizza, e con sussiego andava a deporla nell'urna,

dicendo verso la folla, con una mano sul petto:

– Questo lo faccio per il bene del popolo. E quelli battevan le mani.

Così, a scrutinio finito, i sancataldesi si ebbero tredici sindaci.

Freddo come un marmo. Una paginetta di Casanova.


In una pagina delle sue memorie Casanova racconta che trovandosi a Berna, fece una sosta nei pubblici bagni. Lo servì una ragazza che egli, secondo gli usi del tempo, aveva selezionato tra le inservienti dello stabilimento. La ragazza lo denudò e poi spogliò se stessa, lo accompagnò nella vasca e lo massaggiò non rinunciando ad una espressione seria e in assoluto silenzio. A leggere Casanova la ragazza si aspettava una qualche iniziativa, ma rimase delusa. (S.L.L.)

Pur senza soffermare a lungo lo sguardo sulle forme della fanciulla, ne avevo visto abbastanza per convincermi che essa aveva tutto ciò che un uomo desidera trovare in una donna: un volto aggraziato, occhi allungati e splendenti, bocca dai denti perfetti, colorito sano, seno tondo e colmo, reni perfettamente arcuate, e il resto in proporzione.
E' vero, e lo avevo sperimentato, che le sue mani avrebbero potuto essere un tantino più morbide, ma potevo attribuirne la ruvidezza al lavoro. Inoltre la mia svizzeretta non aveva che diciotto anni, e tuttavia io ero rimasto freddo come un marmo.
A che cosa attribuirne la causa? Tale era la domanda che ponevo a me stesso.

Dalle Memorie 

Prima di tutto la Sicilia? (S.L.L.)


Uno slogan sbagliato, la borghesia mafiosa e la questione meridionale
Leggo che i risultati delle primarie in Sicilia non permettono ancora l'individuazione certa del segretario regionale del Pd. Il più votato, Lupo, franceschiniano, ha ottenuto circa il 40% dei voti, ma non ha ancora trovato un accordo con Lumia (secondo con poco più del 30%) o con Mattarella (circa il 29%), che fanno entrambi riferimento a Bersani.
Secondo un articolo de "il manifesto" di qualche giorno fa il confronto tra i primi due riguarda soprattutto le alleanze. Lupo, infatti, intratterrebbe un rapporto speciale con l'Udc di Cuffaro Vasavasa, il che renderebbe più facile la costruzione di un fronte antiberlusconi e antilombardo. Lumia invece, con un passato di antimafia militante e più critico verso le oligarchie notabilari, ha benedetto nella sua città natale, Termini Imerese, un esperimento di giunta con il Pdl. Nel grosso centro del Palermitano il partito del Cav è nell'orbita del sottosegretario Miccichè, da tempo in guerra contro il "cuffarismo" ma molto amico di Marcello Dell'Utri.
Insomma da una parte e dall’altra tutto il contrario della radicale opposizione al sistema di potere clientelare e mafioso che di quando in quando viene annunciata e che sarebbe necessaria. Il conflitto interno finisce per cronicizzare il disagio di un partito perennemente in bilico, incapace di scegliere tra nostalgie consociative e propositi di alternatività e, anche per questo, sempre votato alla sconfitta.
Qui io vorrei ragionare dello slogan scelto da Lumia per la sua campagna e tuttora ampiamente presente sui muri isolani attraverso i poster formato doppio elefante: "Prima di tutto la Sicilia". E' una parola d'ordine che mi riporta indietro di 50 anni, alla mia infanzia, ai tempi del governo regionale guidato da Silvio Milazzo, che raggruppò intorno a sè una composita maggioranza (democristiani, socialisti, democristiani scissionisti, monarchici e missini) in opposizione alla Dc fanfaniana e ai suoi “proconsoli” in Sicilia (primo fra tutti Giuseppe La Loggia).
Che significa oggi quello slogan? Se vuol dire che il segretario del Pd siciliano, una volta eletto, dovrà occuparsi in primo luogo della Sicilia, si tratta di un'ovvietà. Se così non è cos'altro vuol dire? Quando Lumia parla di Sicilia intende l'intera popolazione? Compresa la mafia e la mafiosità clientelare? Compresa la burocrazia corrotta che soffoca la maggior parte dei siciliani? Compreso il politicantismo parassita?
Non amavo molto Achille Occhetto quando più di trent'anni fa era segretario regionale del Pci in Sicilia, ma ne condividevo e continuo a condividere l'idea che lo sviluppo civile e democratico dell'isola avesse ed abbia molti e potenti “nemici interni”.
Io credo che per la sinistra sia tempo di fare i conti una volta e per sempre con il "sicilianismo", con l'idea cioè che, siccome "la Sicilia è speciale", tutti i siciliani dovrebbero unirsi in un duro confronto con "il continente". Mario Mineo senza mezzi termini scrisse che "il sicilianismo è, in ultima analisi, l'ideologia della mafia, se per mafia si intende, come si deve intendere, la forma specifica, la genesi e il modo di essere specifico della borghesia siciliana". Sono parole del 1970, contenute nel documento redatto per il Centro di Iniziativa Comunista per la Sicilia, il primo approccio sistematico al tema della “borghesia mafiosa”. Mineo aggiungeva: "alla borghesia siciliana il sicilianismo è servito strumentalmente per rivendicare la propria autonomia - il proprio diritto cioè di esercitare nei modi tradizionali il potere locale, nei rapporti con il potere centrale, e nei rapporti con le masse soggette, per mantenere il proprio prestigio, scaricando sul potere centrale la responsabilità del malgoverno ed atteggiandosi a protettrice degli interessi e delle tradizioni isolane".
Da allora molti processi hanno attraversato la società isolana e una radicale modernizzazione ha investito culture, modi di vita, rapporti familiari e sociali. Dentro questa complicata e contraddittoria modernizzazione non è mancata una fase di grande mobilità sociale. Da un quindicennio il processo sembra essersi chiuso. Sono tornate le oligarchie. Nella cerchia della borghesia isolana sono entrati nuovi cognomi, ma in essa l'elemento mafioso è tuttora dominante ed è più di allora collegato alle organizzazioni criminali anche per il peso dell'enorme ricchezza proveniente dai traffici di stupefacenti. C'è un ampio ceto impiegatizio pubblico o semipubblico succubo o, talora, complice, nel quale molti giovani sognano invano di integrarsi per le residue tutele di cui gode. Ma il lavoro è di nuovo sotto, senza parola, senza rappresentanza, spesso senza diritti. Ed è di nuovo sotto la gioventù disperata e mantenuta dalle pensioni dei nonni. E’ tornata massiccia l'emigrazione. Rispetto a tutto ciò che mai può voler dire “prima di tutto la Sicilia”. Se significa “prima di tutto il lavoro, lo sviluppo, l’ambiente, la cultura in Sicilia” perché non dirlo in un altro modo? Perché alludere ad unità spurie e controproducenti?
C’è un'altra ragione per cui trovo quello slogan sbagliato. Esso non allude solo ad una unità, ma anche a una separazione. Esso di fatto mette in archivio la “questione meridionale” e accetta una idea di federalismo in cui ogni regione del Sud entra in competizione con le altre. E’ un errore ed un’illusione. Mineo nel suo prezioso documento del 70 scriveva: “Non ci sono differenze strutturali veramente rilevanti su cui fondare oggi l’esistenza di una specifica questione siciliana. Tutto quello che si è detto finora del Mezzogiorno, vale anche per la Sicilia”. Questa affermazione è ancora più vera oggi. Nei primi anni settanta le organizzazioni criminali del Sud Italia agivano ancora sotto traccia, oggi la loro presenza e potenza ha condotto ad una generalizzata “mafiosizzazione” della borghesia meridionale. Di sicuro esistono differenze tra regione e regione, ma differenze non meno profonde si possono scorgere nei diversi territori della medesima regione.
Per dirla facile e difficile insieme, compito di un grande partito di centrosinistra, che si candidi ad essere il “partito della nazione”, dovrebbe essere quello di declinare i caratteri fondamentali della nuova questione meridionale e su questa base riunificare le regioni del Sud contro la politica delle destre. E’ fin troppo ovvio che la forza della Lega è anche nell’aver trovato parole d’ordine e obiettivi comuni per il populismo di tutte le regioni del Nord. Il parlare a nome di “tutto il Nord” ha dato al movimento di Bossi un enorme potere contrattuale. Perché non fare una operazione analoga anche al Sud e a sinistra?
Mi si dice che un partito come il Pd non è in grado di fare niente del genere. Ci provino allora i democratici siciliani, nella loro “autonomia”. Organizzino un grande incontro di tutto il centrosinistra meridionale, chiamino a raccolta tutte le intelligenze, tutte le esperienze per un grande piano del lavoro.
Mi piacerebbe un grande manifesto che lanci il piano in tutta l’Italia meridionale. Lo slogan potrebbe essere: “A Sud, prima di tutto il lavoro”. Dovrebbe essere anche l’occasione per liberare il centrosinistra meridionale dal ceto politico degli inciuci, delle pastette e delle clientele. Quando ci sono i grandi obiettivi e le grandi lotte i piccoli opportunisti si acquattano.
Ma forse sogno ad occhi aperti.

30.10.09

Garibaldi a Perugia (da "micropolis" luglio 2007)


Giuseppe Garibaldi a Perugia arrivò la prima volta sul finire del 1848, quando raccoglieva forze per la costituenda Repubblica Romana. Pare che le sue parole, pronunciate nell’odierna Piazza della Repubblica, “fulminassero i tiranni”. Una seconda venuta fu preparata e annunziata nel settembre 1867. Cercherò di raccontarne la storia sulla scorta delle gazzette del tempo.
Già da qualche mese l’Eroe aveva riesumato per sé l’incarico di Generale conferitogli nel 49 dalla Repubblica Romana e aveva favorito la costituzione a Firenze, a quel tempo capitale del Regno, di un Centro dell’emigrazione romana per organizzare, con comitati in quasi tutte le città dell’Italia centrale, i liberali e i patrioti costretti all’esilio dalla reazione di Pio IX. L’obiettivo, reso possibile dal ritiro dell’esercito francese, era la liberazione di Roma attraverso un’insurrezione popolare nell’Urbe e l’azione esterna di un esercito di volontari. Garibaldi contava sulla complice solidarietà di settori dell’esercito e dello stesso governo, che dal canto suo sperava di usarlo senza pagare dazio nei rapporti con la Francia di Napoleone III.
Già nel giugno a Terni s’era radunato un centinaio di volontari a recuperare le armi lì nascoste nel 1862. Avevano tentato di varcare il confine, ma il governo di Rattazzi li aveva fermati e ne aveva fatto arrestare un buon numero. Mazzini dall’Inghilterra criticava le imprudenze, ma l’Eroe non demordeva e nelle case le patriote cucivano camicie rosse a tutto spiano.
Ai primi di settembre l’Eroe, muovendosi tra Firenze, Orvieto, Arezzo e Siena, coordina l’agitazione. A Perugia sia il Comitato locale dell’emigrazione romana che l’Associazione Democratica decidono di inviare delegazioni per invitare il Generale nel capoluogo umbro. Il giornale democratico del Trasimeno, “La Frusta”, che si stampa a Città di Castello, in una corrispondenza da Perugia, del 5 settembre, lascia intravedere contrasti e spaccature. “La Nuova Sveglia”, il giornale dei “democratici” perugini, pubblica un’indignata risposta: “La Democrazia Perugina si sente così forte e autonoma nel pensiero, e nell’azione da respingere qualunque sospetto che Altri la possa padroneggiare”. Si aggiungono le proteste degli esuli romani, ancora più vibrate. “La Frusta” è costretta a mettere in sonno “il giovane corrispondente da Perugia”, probabilmente un mazziniano.
Intanto Garibaldi è partito per la Svizzera, partecipa tra l’8 e il 9 al Congresso internazionale della Lega per la libertà e per la pace. Sulla sua presenza a Ginevra, sui contatti con gli emissari di Marx, sul suo paradossale intervento il più bel resoconto è nel Mazzini e Bakunin di Nello Rosselli. La cosa che più gli interessa, in verità, è raccogliere solidarietà nel suo attacco al Papato, baluardo del dispotismo. A metà mese è di nuovo in Toscana, attivissimo.


Lunedì 23 sul quotidiano semiufficiale di Perugia, la “Gazzetta dell’Umbria”, una “breve” informa di un telegramma del sindaco di Arezzo: Garibaldi sarebbe arrivato nel capoluogo umbro martedì 24, verso sera. Che i perugini lo accogliessero mostrando “sentimenti di italianità”.
La Società di Mutuo soccorso tra operai e artisti, in via dei Priori a Perugia, conserva alcuni documenti riguardanti i preparativi per l’imminente visita. Una lettera dell’Associazione Democratica, datata 22, invita la società mutualistica ad indicare i nominativi per il comitato d’accoglienza; dello stesso giorno (domenica) è la delibera che li individua in Rosso, Bavicchi, Zanetti e Omicini. Il giorno 23 all’Associazione Democratica giunge la lettera di Garibaldi: “Cari amici, vedrò con piacere Perugia questa patriottica città sulla quale i mercenari del Papa fecero fino all’ultimo istante, crudelmente, sentire il peso del dominio del loro padrone”.
Si provvede intanto, il 22, alla stampa di un manifesto di accoglienza, con gli slogan “Roma degli Italiani, Roma all’Italia”, ma, spiega il giornale democratico, “le autorità erano in reazione e fu sequestrato senza che si possa in buona fede comprenderne la ragione”. L’indomani la Società di Mutuo Soccorso solennemente elegge Giuseppe Garibaldi suo Presidente Onorario e fa richiesta scritta al Sindaco per l’illuminazione del Corso e dei pubblici edifici durante la visita. Nella mattinata del 24 settembre si compila la comunicazione al Generale della sua nomina a Presidente dell’Associazione mutualistica. Ma non la si potrà consegnare.
Il perché lo spiega “La Nuova Sveglia” del 28 settembre in una sua anonima cronaca. Stranamente, fin dalle prime ore del mattino del 24, alcune Guardie di Sicurezza vigilano davanti alla porta della tipografia ove si stampa il giornale (la Martini, nel convento di San Severo di via Raffaello, più o meno ove oggi è la sede di “micropolis”). Alle 10 portano all’Associazione democratica un telegramma: per “un caso inaudito” il Generale non arriverà all’ora stabilita, un nuovo dispaccio fornirà ulteriori ragguagli. Scrive il giornale: “Come di leggieri si comprende i commenti furono infiniti, ma tutti previdero una sventura che non tardò a verificarsi al giungere del treno in cui doveva trovarsi l’illustre Viaggiatore. Masse di popolo si diressero verso le stazioni prossime quasi non prestando fede alle voci che prima si erano sparse. Il resto della popolazione dapprima fu minaccioso e si credette per un momento che si facesse una dimostrazione ostile al governo in sull’imbrunire della sera. Ma molti sconsigliarono di non aggiungere al lutto nazionale disgrazie cittadine”.
Qual era il caso inaudito? Lo spiega, sullo stesso giornale, una corrispondenza firmata Pietro Del Vecchio. Costui, lunedì 23, aveva di persona accompagnato a Sinalunga Garibaldi, ove questi aveva passato “la sera nella gioia più cordiale” ma, “martedì 24, alle 5 del mattino, in sull’albeggiare una compagnia del 37° fanteria circuiva la casa”. Riassumo i concitati accadimenti: un luogotenente dei Carabinieri mostra un ordine d’arresto a Garibaldi che è ancora a letto. Il Generale chiede di poter fare un bagno: gli concedono mezz’ora. Adeguatamente scortato il detenuto partirà dalla vicina stazione di Lucignano intorno alle 6 verso il Nord.
Nell’affollatissima adunanza del 25 settembre la Società democratica perugina protesterà “per l’atto codardo e illegale iniquamente consumato”.
Il resto lo si trova nei libri di storia: condotto e rinchiuso nella fortezza di Alessandria e poi confinato a Caprera, Garibaldi ne evaderà astutamente per guidare la sfortunata spedizione nei territori del Papa conclusasi con la sconfitta di Mentana. A Perugia non avrà più modo di tornare.

29.10.09

Macchinista rosso. Walter Cremonte commenta "Stalinista" di Giovanni Giudici.


Il testo qui postato è stato pubblicato su “micropolis” dell’ottobre 2004 e poi inserito nel volume a margine, Giada, Perugia 2005.
Un approfondimento dialogico dell’analisi si trova nella conversazione con Brunella Bruschi pubblicata nel volume collettivo Femminil/mente, Edizioni Era Nuova Perugia, ottobre 2008. (S.L.L.)

Macchinista rosso
di Walter Cremonte
Mentre si commentava così, alla buona, l’ultimo numero di “micropolis” con Salvatore Lo Leggio, il mio amico mi faceva notare la stranezza (stranezza peraltro foriera di possibili buone riflessioni, di possibili buoni dibattiti) della pagina 6: in questa pagina c’è, da una parte, un ricordo di Maurizio Mori del caro compagno da poco scomparso Livio Maitan, trozkista; e la parola trozkista è messa in forte evidenza nel titolo. Dall’altra parte, in posizione simmetrica, c’è la dichiarazione dell’adesione di “micropolis” all’appello dell’Anpi contro la decisione del governo di destra di tagliare il contributo statale alle attività delle associazioni partigiane.
Chiacchierando con Salvatore, si pensava alla sorpresa che forse avrebbe colto i vecchi comandanti partigiani interpellati, la cui formazione risale agli anni di Stalin e dell’ammirazione senza riserve per le capacità politico-militari dei comandi sovietici nella comune guerra al nazifascismo, nel vedersi, lì accanto, esaltare la memoria di un compagno trozkista. Ad un certo punto, quasi all’unisono, ci è tornata alla mente la poesia di Giovanni Giudici, Stalinista, di cui ricordavamo esattamente la chiusa. Siccome credo che non sia una poesia molto conosciuta, non appartenendo ai libri maggiori del nostro grande poeta, ho pensato di proporla per intero (da Prove del teatro, Einaudi, 1989):
Stalinista
Morivo come Tolstoj - scappato via
In una stazioncina
Ma non tra sarmatiche nevi
Bensì a un grazioso clivo d’Appennino
Tra monte e mare dov’era
La ricchezza dei miei prima che uno
La furasse a Giannino:
Tra affettuosi ferrovieri però io pure
E tuttavia volendo non morire
Per un qualcosa di telefonato
O mandato piuttosto a dire:
Non mia ma figlia pare d’un mio figlio
Avevano lasciato una bambina
Assai più addentro Italia assai più giù
Per me ad altra sperduta stazioncina


Morivo e non volevo non morire
Ero là come sono
Qui adesso coi miei nervi-ragnatela
Il mio tasso-a-sant’anna le ossa rotte
E non so quale di preciso ora
Fosse del giorno o della notte
Là dove un po’ scherzando disvoleva
Colui che mi rispose
D’un fiochissimo filo all’altro estremo
Darmi l’infante che con sé teneva-
Chi parla? - E disse: il capo macchinista
Ma di quale mai macchina sa Dio
Tu sei un compagno? - dal mio cuore pieno
Gli chiedo e ride: sì, ma stalinista
E per averti a me rispondo: anch’io
-
C’è dunque una situazione di ansia, non sappiamo se determinata da un fatto reale o, come spesso in Giudici, da una condizione sospesa tra realtà e sogno; uno di quei sogni che rendono inquiete le nostre notti e, a volte, si sciolgono in un modo perfino rassicurante. Qui l’ansia di un nonno per la nipotina a lui affidata e il senso di colpa - per un errore forse, una dimenticanza o confusione, o forse per il suo volere/non volere morire (sottrarsi o affrontare le proprie responsabilità?) - si stemperano nell’affetto dei ferrovieri della stazioncina: la loro premura così umana apre una possibile via d’uscita dall’angoscia.E c’è il capo macchinista, dall’altra parte del telefono, che scherza, fingendo di volersi tenere la bambina: certo che è uno scherzo, vuole solo farlo stare ancora un po’ sulle spine questo nonno che forse un po’ colpevole lo è. Però l’ansia riaffiora e sta tutta in quella parola, “macchina”, evocatrice di oscure minacce. Allora la domanda, che vuole una risposta rassicurante: “Tu sei un compagno?”. E qui il colpo di genio, lo straordinario punto di svolta della poesia: il capo macchinista, forse per rivendicare una peculiare “purezza e durezza” della classe operaia di fronte all’interlocutore borghese e intellettuale (perfino poeta!), conferma che sì, è un compagno, ma stalinista. E lo dice ridendo, continuando lo scherzo di prima; ma il punto è che il poeta, che stalinista non è, risponde: “anch’io”. Lo dice “per averti a me”: a chi si riferisce quel pronome complemento oggetto? E’ molto probabile, anzi, certo che sia riferito idealmente alla nipotina, che grazie alla professione di stalinismo ora potrà tornare sicuramente dal nonno. Ma mi è parso sempre che, nell’ambiguità della formulazione, quell’”averti a me” contenesse anche il capo macchinista, prolungando nel -ti il tu dell’interlocuzione. E che quindi “anch’io” significasse qualcosa di più della semplice captatio benevolentiae.
Sono stato da giovane nella Quarta Internazionale, non perché ne sapessi poi molto di Trotzki, ma perché volevo essere comunista senza dover condividere l’orrore staliniano e l’ortodossia (come anche Mori, nel suo articolo, giustamente riconosce a tanti compagni di quell’esperienza). Ed ora sostengo con convinzione la posizione di Bertinotti e di Ingrao che tracciano un solco profondo fino allo strappo rispetto allo stalinismo e, con esso, a buona parte della storia del movimento operaio. Senza se a senza ma. E però mi commuove e mi persuade sempre l’anch’io di Giudici, quel sentimento dell’appartenenza che ci fa meno soli. Contro ogni ragione, con il senso dell’animo di cui ci ha detto Leopardi.

Quando muore un operaio. Una poesia di Enrico Cerquiglini.


Nel sito di Enrico Cerquiglini ( http://enricocerquiglini.splinder.com/ ) la genesi della poesia è collegata a una pagina di cronaca.

mercoledì, 11 giugno 2008

Riporta il Corriere della Sera di oggi:

“Un faticoso compromesso tra i 27 Paesi dell'Unione europea ha permesso di dare il via libera a Lussemburgo alla direttiva sull'orario di lavoro, dopo anni di tentativi falliti. Ora la battaglia, tuttavia, sembra spostarsi al Parlamento europeo, dopo le critiche già avanzate dai sindacati che hanno giudicato la norma «inaccettabile», e le riserve dei partiti della sinistra. L'intesa lascia il limite massimo di lavoro settimanale a 48 ore a meno che lo stesso lavoratore scelga altrimenti (opt out). In questo caso, comunque, la durata massima del lavoro settimanale potrà raggiungere le 60 o al massimo 65 ore, se il periodo inattivo dei turni di guardia viene considerato orario di lavoro. Le norme sono applicabili a quei contratti che superano le dieci settimane. I ministri si sono trovati d'accordo anche sulla normativa per le agenzie di lavoro temporaneo, stabilendo, tra l'altro, parità di trattamento per retribuzione, congedo e maternità”

Quando muore un operaio
Quando muore un operaio non muore nessuno,
apre il telegiornale la strage e la commozione
internazionale del Presidente del Consiglio.
Quando muore un operaio pochi sempre meno
ricordano che sotto la tuta c’era carne di uomo
carne non pregiata non curata spesso non quotata.
Quando muore un operaio meglio cambiare canale
guardare una partita di calcio un thriller americano
almeno lì muoiono dando spettacolo e si vede tutto.
Quando muore un operaio lascia figli che vedranno
sul comodino la foto del padre e madri tre volte
martirizzate e genitori che appassiranno di lavoro.
Quando muore un operaio non c’è lutto nazionale
non c’è politico che non pianga e mostri indignazione

scatarrando propositi e promettendo resurrezioni.
Quando muore un operaio si assume un altro
al suo posto lieto di avere un lavoro dopo il funerale
e le condoglianze di rito per la morte di un marito

di un figlio di un parente di un padre di un amico.
Quando muore un operaio qualcuno ride felice
tanto a morire sono loro e sono miliardi senza nome
e lavorano e comprano e continuano a non capire
e a morire e a lasciare vedove e posti vaganti.
Enrico Cerquiglini (Montefalco 1961)







28.10.09

Quale socialismo per il futuro? (di Michael Walzer).



Il filosofo americano Michael Walzer, direttore della rivista "Dissent" è tra i più prestigiosi esponenti del socialismo democratico americano. Quello sotto è il testo del suo intervento del convegno torinese dedicato nei giorni scorsi a Norberto Bobbio nel centenario della nascita e pubblicato su "La Stampa" del 18 ottobre. La lettura pone interrogativi importanti. Già da tempo molti di noi pensano, sulla base delle lezioni che vengono dal comunismo del 900, che nessun fine giustifica i mezzi e che i mezzi sbagliati possono guastare i fini. Ma non avevo mai letto espressa con tanta chiarezza e coerenza l'idea che il socialismo è essenzialmente nei mezzi, nella partecipazione collettiva, nelle ribellioni che costruiscono l'uguaglianza. Molto "marxiana" poi mi pare l'equivalenza che qui si instaura tra libertà e liberazione.


Sono i mezzi che giustificano il fine socialista


Esistono aspirazioni socialiste e socialdemocratiche. Ciò che però distingue gli uomini e le donne di sinistra da tutti gli altri non sono solo quelle aspirazioni ma anche, e forse soprattutto, il modo di realizzarle. Si ricordi l’antica massima della sinistra: «La liberazione della classe operaia dev’essere opera della classe operaia stessa». Se la liberazione non è auto-liberazione, non conta. L’importante, allora, non è la realizzazione ultima degli obiettivi socialisti, ma il processo attraverso il quale vengono realizzati. Intendo adottare qui l’ottica del grande revisionista Eduard Bernstein. Noi pensiamo il socialismo come un fine alla vista, ma ciò su cui ci concentriamo, su cui ci impegniamo davvero, sono i mezzi per raggiungerlo. Qui è la nostra ambizione più intima e reale. A essere sinceri, le persone che più vorremmo essere non sono i cittadini di un futuro Stato socialista, ma gli attivisti e i militanti che lottano per realizzarlo. Così la domanda «Quale socialismo?» andrebbe intesa in termini temporali: socialismo-in-corso-di-realizzazione o socialismo-realizzato? Dovremmo scegliere socialismo-in-corso-di-realizzazione per indicare che abbiamo capito che potremmo non vedere mai la realizzazione.
Il nostro è un socialismo «partecipativo» e ciò che abbiamo da dire riguarda partiti, unioni, movimenti e associazioni di vari tipi e i loro attivisti e militanti politicamente impegnati «a sinistra». Ma riguarda anche il mondo politico in cui siamo immersi. Attualmente in Occidente la democrazia, le regole e lo Stato assistenziale sono la norma. Ma questo significa altresì che sono sottoposti a un certo tipo di pressione contraria, che è un fatto «naturale». In ogni organizzazione politica, in ogni Stato, in ogni società, esiste una tendenza continua all’autoritarismo e alla gerarchia. In assenza di forze di compensazione, il potente diventa più potente, il ricco più ricco. E questo accade sempre e ovunque. La spiegazione di questa tendenza «naturale» è facilmente intuibile: chi possiede potere e ricchezza, possiede anche i mezzi per difenderli e incrementarli.
La mia tesi richiede però una spiegazione più generale della tendenza «naturale». Consideriamo la sua forma più comune: il potere politico. Quelli che lo detengono lo usano per rafforzare la loro posizione e il benessere di amici e alleati, reprimendo o escludendo gruppi che potrebbero fornire una base sociale per l’opposizione – minoranze religiose o etniche, subordinati di ogni tipo, lavoratori, donne, immigrati – e costringendo l’intellighenzia a adeguarsi o emarginandola. Per esercitare il loro controllo, cercano di accumulare «potere su potere», come scriveva Hobbes, rafforzando l’esecutivo, potenziando l’esercito, creando una polizia segreta, corrompendo la funzione pubblica, ponendo vincoli alla libertà di stampa. Scoraggiano o cooptano i capi dell’opposizione o adottano mezzi di repressione più o meno legali. Premiano i loro finanziatori con licenze, immunità, monopoli, contratti governativi e l’assistenza di enti statali per vincere la competizione, resistere ai sindacati, evitare l’applicazione delle norme ambientali o di sicurezza e così via. A volte lo fanno nel contesto di uno stato di emergenza dichiarato, più spesso entro i limiti della Costituzione. Lo fanno in un lasso di tempo breve o, se sono astuti, a poco a poco, in modo che appaia come un processo naturale.
La tendenza è «naturale» nel senso che, almeno in parte, è imperturbabile ai meccanismi e al dettato della Costituzione; può essere contenuta, ma non del tutto bloccata. Anche contrastarla è naturale ma, mentre la tendenza è continua, l’opposizione è sporadica. Possiamo pensare all’attività di militanti contro l’autorità e la gerarchia come a un «lavoro fisso», ma il lavoro funziona solo quando produce lampi di militanza di massa – mobilitazioni, sollevazioni, insurrezioni. La crescita di potere e ricchezza può essere arrestata o, più realisticamente, interrotta e in parte ribaltata solo con una opposizione di massa. Le vittorie democratiche sono possibili, ma devono essere reiterate, perché la crescita di potere e ricchezza è continua. La mia tesi trova paralleli in quella dei rivoluzionari del ‘700, che scrivevano: «Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza». Io invece dico: «Il prezzo dell’uguaglianza è la ribellione reiterata».
Uso il termine «ribellione» per descrivere cose come il movimento operaio degli Anni 30, che si opponeva all’autorità del capitale, il movimento per i diritti civili degli Anni 60, che sfidava la gerarchia razziale, e il femminismo degli Anni 70, che sfidava la gerarchia dei generi. Questi movimenti, pur non avendo realizzato fino in fondo le alte ambizioni dei loro militanti, sono però riusciti a cambiare la distribuzione del potere e della ricchezza negli Stati Uniti. Hanno contrastato la tendenza al «potere su potere» e spostato l’equilibrio delle forze in modi piccoli ma significativi. E, sindacalizzando i lavoratori e inscrivendo in leggi i diritti civili e l’uguaglianza tra i sessi, hanno creato ostacoli alla ripresa della tendenza naturale.
Sospetto che il secondo gruppo di questi ostacoli si rivelerà più efficace del primo – già ce ne sono i segni. In una società capitalistica, le disuguaglianze di razza e di genere probabilmente non sono necessarie all’esistenza di un ordine gerarchico, ma lo è certamente il dominio del capitale sul lavoro – di qui la sua chiara riaffermazione negli ultimi tre decenni. Dunque, quanto era vero negli Anni 30 lo è di nuovo oggi: le diseguaglianze della società americana non troveranno un rimedio senza una nuova ribellione. Questa verità fondamentale si è già manifestata nell’incerta battaglia dell’amministrazione Obama per rafforzare lo Stato assistenziale e fermare la deriva verso una sempre maggiore diseguaglianza. Senza un movimento popolare che li sostenga, ci sono grossi limiti a ciò che il Presidente e i suoi consiglieri possono realizzare.