C'era una svolta
Tavola rotonda con Fausto Bertinotti, Maria Luisa boccia, Sergio Garavini, Pietro Ingrao, Valentino Parlato, Aldo Tortorella
Guido Moltedo
Il decennale dell'89, offre un'occasione al riguardo.
Certo, per sua natura, quell'evento impone una riflessione, storica e teorica, sull'intero ciclo del movimento comunista, anzi sull'intera vicenda del secolo. È evidente infatti che la crisi e lo scioglimento del Pci non sono stati il prodotto delle scelte di Achille Occhetto, tanto meno dei ritardi o degli errori di quanti le hanno contrastate. Sono state il frutto del crollo di un campo mondiale dal quale il Pci si era distinto, ma con il quale la sua storia si era intrecciata; e di una radicale trasformazione vittoriosa della società capitalistica. Processi che il Pci non aveva saputo capire a fondo per offrire risposte adeguate. In questo senso quell'evento rinvia a momenti precedenti e a fattori storici sovrastanti: dunque obbliga a un lavoro di ricerca storica e teorica, rifondativa, al quale questa rivista, nel suo insieme vuole contribuire.
La tavola rotonda che qui pubblichiamo ha però un obiettivo più modesto, ma importante.
Abbiamo riunito alcuni dei protagonisti della battaglia dell'89, che con noi collaborano e allora si sono schierati contro la svolta della Bolognina. Anzitutto per ricostruire, con la loro testimonianza, fatti non ancora ben conosciuti. In secondo luogo per chiedere loro se - pur nel quadro dato - quella crisi non potesse avere itinerari e esiti diversi. Dunque, anche una riflessione sulle scelte allora compiute, con il distacco che il tempo consente e con lo spirito critico e autocritico che le vicende successive suggeriscono.
C'è in questo una scelta di metodo generale e forse feconda. La storia reale deve essere indagata e capita per il suo corso effettivo. E tuttavia, in ogni momento, non è un processo univoco e necessitato, né può essere appiattita ai suoi esiti finali. C'è in ogni vicenda, più o meno grande, un margine nel quale intervengono le scelte soggettive, e le cose possono prendere direzioni in parte diverse. È questo lo spazio della politica, per chi della politica ha una visione degna: idee, progetti, bisogni e sentimenti che unendo e animando molti uomini e donne diventano un movimento reale, una forza materiale che può cambiare le cose esistenti. Senza di questo non si capisce il passato, né si può trarne lezioni per il presente.
la rivista: Occhetto propose il cambiamento del nome del Pci senza consultare gli organi dirigenti collettivi e mettendo il partito di fronte a un fatto compiuto. Ma non sentì pareri, non diede un'informazione preventiva, neppure informalmente e individualmente al gruppo dirigente ristretto? Voi che ne facevate parte come e quando avete saputo, come avete reagito e cosa sapete per quanto riguarda gli altri?
Tortorella: Poco prima della Bolognina, ebbi casualmente e tardivamente notizia di una consultazione, che si era svolta in precedenza nei giorni della strage di Tien An Men, sull'ipotesi di riconvocare il congresso (si era tenuto poco tempo prima, c'erano ancora tutti i delegati) per cambiare il nome del partito. Non feci neppure in tempo a saperne di più che due o tre giorni dopo ci fu l'annuncio alla Bolognina. La sera prima della direzione, fui chiamato da Occhetto nel suo studio, e lì gli dissi che, naturalmente, una svolta era necessaria ma che il modo in cui era stata annunciata era drammatico. Gli dissi quello che dissi poi il giorno dopo nella direzione e successivamente nel comitato centrale: il problema non poteva essere soltanto quello del nome, riguardava i fondamenti.
Bertinotti: Partecipavo a una riunione sindacale, a Firenze, quando arrivò la notizia. Reazioni? Sorpresa e sconcerto, anzi difficoltà a percepire il senso e la portata della cosa che stava accadendo, tanto che prevalse, nel gruppo dirigente della Cgil, la scelta del silenzio. Pressato dai giornalisti io espressi la mia radicale opposizione. Ma la cosa interessante è un'altra. Era la pressione, dopo la dichiarazione di dissenso di una parte della sinistra sindacale, di chi diceva "perché tanta precipitazione? abbiamo bisogno di riflettere, e poi Pietro Ingrao non è qui e si dice che sia in una sospensione di giudizio". Insomma, la svolta viene colta in modo ambiguo, indeterminato: vi si coglie, per un verso, il dramma della rottura, per un altro la necessità di un'innovazione adeguata.
Parlato: La sera prima della Bolognina Luigi Pintor e io eravamo a cena da Alfredo Reichlin. A un certo punto arriva improvvisamente inaspettato Claudio Petruccioli, il quale dice: "Che ne direste se cambiassimo il nome del partito?". Io e Luigi rimanemmo un po' sorpresi, sembrava una battuta a cena. L'indomani mattina leggiamo i giornali e diciamo: "Caspita, non avevamo capito niente". Aveva fatto un sondaggio. Alfredo, ricordo bene, era sorpreso, contrariato, e lanciava occhiatacce a Luigi, come a dire: "Ma cosa è venuto a raccontarci, questo Petruccioli?".
Garavini: Allora facevo parte del cosiddetto governo ombra e, in quella sede, non ci fu nessun segnale di alcun tipo sulla dichiarazione che poi avrebbe fatto Occhetto. Quel giorno mi trovavo a Bolzano, per una riunione. Ricordo che i compagni erano tutti molto riluttanti a pronunciarsi. Finita la riunione il corrispondente del “manifesto” mi fa: "Tu naturalmente sarai d'accordo con Occhetto". E io: "Naturalmente sono in totale disaccordo con Occhetto".
Boccia: Seppi della Bolognina per telefono. Quel giorno fu un accavallarsi di telefonate. E, come ha detto Fausto, era evidente l'ambivalenza, l'ambiguità in diversi compagni che, in sostanza, dicevano: è la rottura che aspettavamo, che cercavamo, anche se non ci piace il modo. Per me, il modo era tutto. E poi c'è l'altro aspetto che riguarda le donne. Livia Turco, che era in segreteria, si pronunciò immediatamente a favore dell'iniziativa del segretario, e questo aprì subito il problema della messa in mora, per non dire della rottura, di una pratica politica di autonomia.
Ingrao: Mi trovavo in Spagna, dove ero andato per un viaggio che era insieme di svago e di presa di contatto con i compagni e gli amici di Izquierda Unida. Avvenne proprio in quei giorni l'evento che tutti voi ricorderete, cioè la morte di Dolores Ibarruri, e io ero arrivato a Madrid proprio il giorno in cui avvenivano i funerali. Naturalmente anch'io mi recai a salutare la salma. Ci vedemmo brevemente con Anguita e ci dicemmo che ci saremmo rivisti a pranzo per scambiarci un po' le idee: era la fine dell'89, con tutti i grandi eventi che c'erano stati. Ci vedemmo dunque a colazione con Anguita, ci scambiammo brevemente le idee, ma non sulla Bolognina, di cui non sapevo nulla. Rientrai in albergo e lì trovai una chiamata da Roma. La telefonata veniva dall'Unità. Qualche istante dopo anche Occhetto mi chiamò personalmente, e mi disse: "Penso che saprai già la notizia, io ti chiedo solo una cosa: non pronunciarti, non esporre un'opinione, prima che ci siamo parlati". Avevo un aereo l'indomani, e quindi ci demmo appuntamento per il dopodomani mattina. Andai a letto presto, presi l'aereo di ritorno per Roma e a bordo lessi sui giornali italiani una prima informazione di una certa consistenza dei fatti. All'arrivo trovai all'aeroporto due compagni, evidentemente scelti ad hoc: erano Reichlin e Bassolino. Mi ripeterono un po' l'informazione sull'accaduto e cercarono di capire la mia opinione. Dissi che avevo un impegno con Occhetto a non pronunciarmi fino a che non l'avessi visto. Ebbi l'impressione di compagni preoccupati - non dico smarriti, non è esatto - mi sembrava, però, che inclinassero chiaramente a non respingere la proposta che era stata messa in campo. La mattina dopo andai a Botteghe Oscure, c'incontrammo nella stanza del segretario. Mi fece un'esposizione che non aggiungeva granché alle cose che dicevano i giornali, e mi chiese un'opinione. Gli dissi che stavo per andare alla Camera per fare una dichiarazione pubblica in cui mi pronunciavo contro la decisione in atto. Il colloquio fu molto breve; Occhetto insistette ancora, mi chiese di procrastinare questa risposta e io gli manifestai tutta la mia sorpresa, visto che lui aveva messo addirittura l'intero partito di fronte a un fatto compiuto: ero sbalordito che mi chiedesse adesso di stare zitto.
la rivista: Una così radicale rottura delle regole di un partito, in particolare di quelle del Pci, caratterizzò la svolta. Ebbe notevoli conseguenze nel creare un trauma alla base, lacerazioni al vertice e nell'ostacolare una discussione seria sia sulla storia passata sia sulla prospettiva futura. Come spiegate e interpretate questa scelta di metodo? Era solo dovuta alla volontà di un'accelerazione, al timore che essa venisse frenata da una discussione collettiva e dall'esito non predeterminato? Oppure era legata a una scelta di merito: cioè alla volontà di connettere subito al cambiamento del nome una precisa identità per il "nuovo partito" (partito "democratico", post comunista e post socialista), e a un'operazione a breve (il cosiddetto "sblocco del sistema politico" cioè l'ingresso nell'area di governo)?
Ingrao: Credo che il metodo seguito, senza dubbio profondamente traumatico, fosse legato a due fatti: uno più generale, il crollo del muro di Berlino alla fine di un anno sconvolgente, e questo pesava senza dubbio su tutte le persone, e avrà premuto anche su Occhetto. Io però ritengo che quella svolta già fosse stata discussa fuori del partito, con chi non lo so. Credo anche che ci fu un elemento di accelerazione in rapporto a un soggetto particolare che era il Partito socialista e Craxi. Buona parte della svolta è fatta anche per cercare di trovare lì un esito e un punto di spostamento della situazione politica italiana.
Bertinotti: Lo sblocco del sistema politico è un punto assolutamente visibile dell'operazione di Occhetto. Vorrei però richiamare l'attenzione sul carattere simbolico interno al partito che riguarda proprio la natura del Pci. Alludo al rovesciamento dell'uso della tradizione ai fini della rottura. L'operazione smonta il rapporto con il gruppo dirigente, ma usa la sacralità del segretario portandola sul terreno della "modernità" del leader. Ed è quello che accade anche sul terreno della fedeltà al partito: viene usata come elemento che gioca a favore della dissoluzione del partito medesimo. Anche in questo senso il metodo ha già in sé un forte contenuto implicito.
la rivista: La prima reazione del partito fu molto drammatica, il dissenso molto forte e diffuso. Ma l'opposizione nel gruppo dirigente prese forma solo gradualmente e con motivazioni diverse. Apparve all'inizio, e fu presentata, come una critica al metodo e una resistenza alla svolta, più che una diversa e opposta proposta di innovazione. Come si spiega questa difficoltà e quanto pesarono gli anni precedenti e le perduranti differenze culturali e politiche fra di voi?
Tortorella: Io ero dell'idea di guadagnare tempo e spazio per una posizione diversa, per una posizione innovatrice di segno diverso, opposto. Ritenevo che non bisognasse andare subito al congresso. Il convegno su Longo ad Alessandria - in quei giorni - lo passai attaccato al telefono, insieme con Pajetta, che in quelle ore era di questa medesima opinione, parlando con Occhetto perché non si arrivasse nella direzione a una formulazione drastica. Quelle conversazioni telefoniche non sortirono nessun risultato. Come dissi allora al comitato centrale, abbastanza isolato, ritengo che la svolta fosse assolutamente indispensabile, che c'era da rifare un discorso sui fondamenti. La pura e semplice abolizione del nome diventava un'altra cosa.
Bertinotti: Qui emerge un dato della cultura della sinistra comunista, sul terreno politico come sul terreno sociale. Nella svolta, come in diversi altri casi, c'è una disintonia tra l'opinione colta della direzione politica della sinistra e un moto di popolo, pur con le sue ambiguità, elementarità, parzialità. Una parte grande del popolo comunista reagisce contro una espropriazione di sé, e dice non ci sto. Questo non ci sto naturalmente porta dentro di sé molti elementi, non tutti riconducibili ad un'opzione politica, a una strategia, a una cultura politica, perché appunto hanno a che fare con il moto delle emozioni, con il sentimento, hanno a che fare con una cosa che riguarda la vita politica prima ancora che la direzione di marcia e la linea. E, a noi, e non solo in questo caso, è mancata quella che Gramsci chiamerebbe la connessione sentimentale. Diversamente da Tortorella, penso che non bisognasse diluire, caso mai concentrare. Bisognava organizzare la rivolta. Ma c'è un altro punto: il disorientamento che attraversa alcune aree del partito. Il connotato "di destra" della svolta che risulta a noi così evidente, si presenta invece oscurando la coppia destra-sinistra e mettendo in luce del tutto arbitrariamente e mistificatoriamente la coppia nuovo-vecchio.
Ingrao: Io invece tendo a dare una risposta diversa. Credo che si possa fare abbastanza facilmente il punto e il calcolo degli errori che abbiamo commesso sia nella vicenda, diciamo così, più larga sia in quella più ravvicinata. Il punto vero è che succede qualcosa che anche ci scavalca e, non lo dico per salvarmi l'anima. Se non afferriamo questo, non afferriamo nemmeno la profondità dei problemi che abbiamo davanti adesso. La storia di quei giorni è parte di una sconfitta del comunismo, che avviene alla fine del secolo in modo clamoroso. Ha, nella vicenda dell'Urss, una sua faccia, ma poi si accompagna a una crisi profonda persino del keynesismo, delle socialdemocrazie, del terzomondismo. Insomma, c'è innanzitutto un limite sul terreno della dimensione internazionale. Certo, il Partito comunista italiano è stata quella formazione che è stata perché si è mosso dentro una dimensione nazionale. Ma anche internazionalista, che gli dava una prospettiva. E anche quando criticavamo l'Urss, l'Urss c'era e c'era la prospettiva di uno schieramento mondiale che faceva da spalla alle proposte che noi avanzavamo. In quel momento tutto questo crolla rovinosamente. Noi un tentativo serio di darci un'altra dimesione internazionale, l'avevamo fatto - l'eurocomunismo - ed è fallito, anche se su quel terreno avevamo vinto battaglie, certo con tante contraddizioni, ma le avevamo vinte. Insisto a dire che avevamo fatto degli sforzi anche abbastanza intelligenti di differenziazione da Mosca. Tuttavia stavamo sempre dentro una cornice, che va in frantumi e lascia noi comunisti italiani disorientati. E poi è un momento in cui si pongono problemi enormi di riassetto del mondo, sia dal punto di vista dell'economia - basti pensare all'avvento del post-fordismo - sia dal punto di vista dei sistemi internazionali sia dal punto di vista del balzo enorme che fanno le tecnologie militari , i saperi. Su tutto questo siamo sconfitti. Infine la crisi delle forme della politica su cui ci siamo retti. Sono pronto a riconoscere tutti gli errori che abbiamo commesso in quegli anni, ma, insomma, dietro la Bolognina c'è anche l'inizio della crisi del partito politico di massa, un connotato caratteristico della vita politica italiana, che ci aveva fornito tutta una serie di armi di intervento nell'agire politico. La vicenda interna di partito? Sì, potevamo fare certe cose, c'è stato un forte errore soggettivo. C'erano divisioni tra noi e non abbiamo saputo affrontare queste divisioni, me compreso.
Tortorella: Sono d'accordo con Ingrao: non si può prescindere assolutamente dal quadro che traccia. E proprio perché non si poteva prescindere da questo quadro - e per stare alla discussione specifica di merito - forse era più giusto accettare le esigenze di una svolta e definirla diversamente. Di fronte al fatto di dire di sì o di no, abbiamo scelto di dire di no, ma restava il problema: una svolta era necessaria, era giusta.
Bertinotti: Ma una svolta implica una direzione di marcia....
Tortorella: Appunto, bisognava cambiare direzione di marcia.
Garavini: Sono d'accordo con Pietro, ma fino a un certo punto. Sono d'accordo con lui quando dice che parliamo degli esiti di una crisi mondiale, epocale. Parliamo però anche del fatto che, di fronte a questa crisi, non c'era stata una sinistra comunista, prima della Bolognina, capace di dare battaglia. Non avevamo consapevolezza sufficiente della gravità della crisi, del fatto che bisognava impostare una piattaforma di profondo rinnovamento. Ed è in assenza di una replica da sinistra che il popolo comunista, dopo i primi giorni, si è profondamente diviso. Si è diviso tra chi pensava che in qualche modo bisognava tener duro, tenersi l'identità come fatto decisivo della propria esistenza politica, e chi riconosceva la necessità di una svolta e vedeva nell'indicazione di Occhetto in qualche modo uno sbocco.
Boccia: Sì, questa è la questione decisiva. Bisognerebbe chiedersi perché il no è stato visto come difesa di continuità. C'è un primo problema, grandissimo, mai analizzato da noi: la composizione del no, non quella sociologicamente piatta, ma generazionale, di sesso. Ci sono posizioni conservatrici - non penso a chi si vuole tenere stretta l'identità (secondo me, è la minoranza delle minoranze) - ma conservatrici proprio nel senso di un certo modo di far politica, di una certa concezione della politica, del partito, dei ruoli e delle funzioni. Abbiamo difeso il Pci, abbiamo difeso una storia, la democrazia, e il rapporto con una vicenda nazionale, abbiamo difeso una certa idea di rappresentanza, abbiamo difeso una certa idea di radicamento sociale, tutte grandi cose ma che erano in crisi e che erano già oggetto di una revisione profonda di una parte del no, non di tutto, di una parte di quelli che erano contrari alla svolta. Però non siamo riusciti a rendere forte, a dare il segno che, in questo, c'è una radicalità, anche. Secondo punto fondamentale: la svolta nasce sul terreno simbolico dell'identità, agendo sulla semplificazione fallimento dell'est – fallimento e liquidazione del Pci - liquidazione del comunismo. Questo incide non poco. Crea una scollatura, e noi abbiamo accettato questo terreno. È un errore che potevamo non fare. Potevamo fare uno sforzo più grande e più forte di quello che abbiamo fatto e stare sull'altro terreno. E poi c'è il capitolo del modo in cui si sono organizzate le forme di questa battaglia. C'è stata pochissima azione in libertà tra di noi. L'esigenza dell'unità per resistere e contrastare prevalse sulla libertà che ognuno di noi poteva prendersi. Poca ricerca, poca curiosità verso l'esterno, diffidenze per le contaminazioni, le pluralità tra noi, e questo, per esempio, ha inciso moltissimo su come sono state le donne nella svolta.
la rivista: Malgrado tutto ciò, il XIX Congresso fu una battaglia grande e partecipata. La mozione del NO assume via via un carattere più coeso e su posizioni non solo di resistenza. I risultati furono notevolissimi, inattesi. Ma dopo il Congresso si aprì una fase più difficile. Più difficile per la maggioranza, perché la svolta non produceva i frutti promessi. Ma anche per il No, perché il Congresso aveva ormai preso una decisione, si andava verso un altro Congresso che doveva discutere caratteri e linee di un "nuovo partito": con quale piattaforma affrontarlo, e proponendosi quali sbocchi? Su questo già ad Ariccia, nella primavera del '90 cominciò ad emergere una divergenza, anche tra voi. Riproporre la questione del nome o spostare l'accento sui contenuti e sui programmi? Quale fu la vostra posizione allora e cosa ne pensate ora?
Ingrao: Ad Ariccia noi avemmo l'impressione che si potesse - credo fosse D'Alema l'interlocutore - trovare dei punti di raccordo, spostando il terreno sui contenuti. E se io ripenso ai vari interventi che facevamo nelle grandi, tumultuose assemblee di quei giorni, vedo una spinta, una pressione, un po' disperata, a portare il dibattito sui contenuti, anche guardando a ciò che succedeva intorno a noi in quel periodo, specie in Europa. E c'era di che: la questione del disarmo, l'ipotesi di Germania neutrale... Ma poi, nelle assemblee, il clima era di lutto. E avevi la netta sensazione di non avere interlocutori, eri continuamente scavalcato dal tema che più pesava, la questione dell'identità. Ricordo anche la fatica nelle riunioni di direzione - o come altro si chiamava l'organismo - io, Tortorella, altri compagni che cercavamo di riprendere una discussione politica. E avevi la sensazione netta di risposte finte. Quello che premeva era solo che andasse avanti quel determinato processo.
Garavini: È vero, facemmo un grande sforzo per riportare il discorso, dopo il congresso di Bologna, sui contenuti. Ma penso che questo sia stato un errore. Perché, dopo Bologna, si delineava con chiarezza un partito di carattere democratico "all'americana", una formazione senza alcun riferimento al socialismo. Questo era il senso del "nuovo inizio" di Occhetto. I nostri discorsi di contenuto erano facilmente digeribili da parte di chi si poneva un problema ben più alto: trasformare la natura del partito e, dentro questa trasformazione, poi trovare l'eventuale soluzione dei problemi di contenuto che fossero stati posti. Noi considerammo un successo la partecipazione di Occhetto all'assemblea di Ariccia, pensando che fosse il segno dell'apertura di un dialogo, mentre era un segno del tutto opposto: Occhetto poteva tranquillamente venire da noi perché non ci considerava come interlocutori, rispetto al tema fondamentale.
Parlato: Mi convince abbastanza quello che ha detto ora Sergio Garavini. Occhetto apre un grande cambiamento e apre un cambiamento sul nome, sull'identità. E la parte che vi si oppone appare impacciata. Da un certo momento ha paura di fare una battaglia sul nome, teme che appaia una battaglia puramente nominalistica. Dice "parliamo della sostanza", "parliamo dei contenuti", ma così appare subalterna.
Bertinotti: Un'offensiva programmatica poteva avere un senso se era in grado di aprire delle contraddizioni e stabilire un rapporto col paese. Certo, coniungandola con un'analoga offensiva anche sul piano dell'identità. È che forse avveniva troppo tardi. C'erano stati gli anni 80, il decennio delle grandi sconfitte, e quindi noi tentavamo una ricerca programmatica interessante sul futuro, che però non aveva le basi materiali per diventare mutamento nei rapporti sociali e politici del paese. A quel punto, e mi avvicino alla tesi di Garavini, la questione dell'identità non pesava in astratto ma come riflesso di un'asimmetria nei rapporti di forza sociali e culturali tra noi e chi voleva la svolta, e che connotava dunque il carattere della svolta stessa. Il problema del nome era simbolico, ma si tratta di una simbologia molto densa di significato per il presente e per il futuro.
Ingrao: Capisco il ragionamento di Fausto... Be', prima di tutto l'accento sui contenuti veniva da una nostra educazione, dalla storia del partito. Ci avevano abituati a dire: dimmi che politica fai e ti dirò chi sei. E poi avevamo bisogno di stabilire un flusso, un collegamento con la massa dei nostri, indicare loro una via attraverso cui cercare di smontare l'operazione che veniva fatta, e cercavamo di farlo spostandoci sui contenuti.
la rivista: In effetti separare identità e programma era difficile in sé, particolarmente alla base del partito, per le passioni ormai evocate. E comunque la maggioranza non accettò minimamente di riaprire un dialogo, neppure sul terreno più circoscritto. Ma voi come pensaste di affrontare e superare il dissenso affiorato? Ad Arco, in settembre, tentaste di elaborare una posizione comune, e di evitare il dilemma secco tra accettazione e rottura. Ma quel tentativo fallì: anzi, emerse una rottura tra chi sarebbe rimasto comunque come minoranza comunista nel "nuovo partrito" e chi pensava che comunque una forza comunista autonoma doveva restare in campo. Credete che una tale scelta fosse, a quel punto, inevitabile? Che non fosse possibile proporre e imporre condizioni precise per la permanenza (un partito federativo e con connotati almeno di sinistra socialdemocratica), oppure, se venissero rifiutate, tentare con forze più ampie un'impresa rifondatrice?
Ingrao: Arco segna chiaramente, secondo me, la divisione della sinistra comunista. Già lì si andavano coagulando quelle forze che avevano in mente, non la volontà, ma l'obbligatorietà della scissione e del passaggio al nuovo partito. Io feci un intervento che ostinatamente tentava di riportare al centro una serie di contenuti che mi sembrava dovessero stare in campo. E che indubbiamente contenevano una lettura dell'ipotesi comunista, che richiedeva anche un'innovazione di fondo nella politica, nella strategia della sinistra. Ricordo l'insistenza su temi come l'ecologismo, il femminismo, la pace, con l'intenzione di dire: guardate, noi combattiamo contro questi, ma lo facciamo da questa piattaforma. Non ebbi la sensazione di una risposta anzi ebbi la sensazione netta - questo lo devo dire con schiettezza ai compagni - che erano già precipitate, erano state assunte delle decisioni che, non a caso, poi portarono a quell'epilogo...
la rivista: Alla fine dell'intervento tu hai concluso dicendo: io comunque "nel gorgo" ci resterò, intendendo per gorgo il partito che stava nascendo.
Ingrao: Era più fantasiosa, la cosa, credetemi.
Garavini: La situazione, quando arrivammo ad Arco, se non era cambiata, era per lo meno molto più chiara dal punto di vista delle prospettive del partito che si andava formando. Un partito democratico, non un partito che si ponesse il problema del socialismo. E io andai ad Arco assolutamente convinto che la nostra battaglia, nei suoi due caratteri - identità e contenuti - non potesse semplicemente approdare alla formazione di una sinistra di un partito democratico.
la rivista: Questo vuol dire che, invece, se la svolta non avesse avuto quel carattere, una minoranza comunista avrebbe avuto uno spazio e una funzione da assolvere?
Garavini: Se fosse stato delineato un partito che si fosse definito socialdemocratico, che si fosse posto in un modo o nell'altro il problema del socialismo, allora evidentemente la partecipazione di una componente comunista ad un partito di questo tipo avrebbe avuto un senso. Trattandosi però di un altro progetto politico, io pensavo che non fosse possibile restare in quei limiti, che non si potesse costituire semplicemente una sinistra nel partito democratico, che bisognasse ripresentare un elemento di identità. Per questo pensavo che la formula organizzativa potesse essere quella di una federazione che desse il massimo di autonomia possibile, il massimo di identità possibile alla minoranza comunista. Pensavo fosse la proposta su cui ci si dovesse muovere, ripresentando con forza, a questo punto, i contenuti. Sapendo che questa era però l'ultima spiaggia. Se nemmeno questo tipo di riconoscimento parziale fosse stato possibile, pensavo che fosse giusto riproporsi il problema della formazione di un nuovo partito. Devo aggiungere che questa era una posizione assolutamente personale. Prima di Arco, non ne avevo parlato con i compagni che poi hanno costituito il gruppo promotore di Rifondazione Comunista né con i compagni della mozione due. Dopo sì. Voglio anche ricordare che, prima del congresso, ci fu un'assemblea all'Eliseo a Roma, il giorno dell'Epifania, in cui fu ripresentata la proposta della Federazione. L'ultimo tentativo fatto prima del congresso. Naturalmente, nel momento stesso in cui delineavo questa posizione, non soltanto il termine formale, ma la sostanza della rifondazione era assolutamente decisiva: nel senso che non aveva senso proporre, anche se fosse stata accolta la proposta della Federazione (quindi anche come componente non come partito autonomo), non bastava assolutamente il termine comunista, e nemmeno poteva essere riproposto esattamente la dizione Partito comunista italiano.
Tortorella: Poiché mi trovai ad avere qualche responsabilità tra i due congressi debbo ricordare che il fallimento di ogni tentativo di trovare una mediazione sulla linea federativa fallì in realtà per responsabilità comune dell'ala più intransigente della maggioranza e dell'ala più intransigente della nostra parte. Avevo lavorato, come presidente del CC espresso dalla minoranza congressuale, per un incontro dei vari gruppi interni di maggioranza e di minoranza alle Frattocchie, compreso - naturalmente - il segretario di allora. Per quel che ricordo, mi pare che vi fossero, per quanto cautissime e blandissime, aperture di Occhetto verso una seppur vaga idea di una nuova forma del Partito, ma essa fu certamente sepolta dall'intervento di Cossutta e di alcuni membri della segreteria di allora.
Bertinotti: Ad Arco ebbi una posizione molto netta. Ritenevo, sostanzialmente, che la battaglia contro la scelta della Bolognina fosse persa. E che si poteva cominciare a trarre le somme di quella sconfitta, per dar vita a un'altra battaglia: dentro il partito che si andava costruendo, nella convinzione, soprattutto, che i lavoratori e la classe operaia sarebbero rimasti essenzialmente legati allo sviluppo di quella vicenda. Oggi - ma non da oggi, da un po' - penso di essermi sbagliato. E non solo per aver sottovalutato l'elemento simbolico identitario, cosa che anche spiega, secondo me, il successo di consenso, anche di partenza, a Rifondazione Comunista. Ma per altre due ragioni: la prima, ancora una volta, concerne il tema della resistenza. Rileggendo la storia della fine degli anni '70 e degli anni '80, l'errore principale commesso nella sinistra, ad ogni tornante cruciale, è stato quello di non assumere fino in fondo il movimento di resistenza sociale e politico che in quel momento si proponeva. In quello sconvolgimento generale, che adesso chiamiano modernizzazione, era possibile ricavare una indicazione politicamente opposta a quella scelta da Occhetto, appunto quella che chiamiamo Rifondazione Comunista. Certo, non era in grado di proporsi come un modello compiuto di progetto di società, di partito, di organizzazione del movimento. Ma proprio in nome di quell'incompiutezza bisognava esaltare la resistenza. In nome di un elemento prevalentemente simbolico e identitario, su una scelta risoluta di difesa di quel patrimonio si sarebbe poi potuto innestare l'elemento innovativo. Non averlo fatto secondo me è stato un errore che ha diviso la sinistra comunista. Peraltro - e vengo alla seconda ragione - se si osservava la composizione delle culture dei ceti dirigenti del Pci era possibile individuare lo sbocco ultimo da terza via della svolta. Erano presenti nel Pci gli elementi di ispirazione compatibilista, gli elementi fortemente legati alla cultura produttivistica, industrialistica, dell'impresa.
la rivista: Tutti sottolineavano, nel fronte del no, l'esigenza dell'incontro con altri soggetti, con altre esperienze, con altre culture ma non siamo riusciti realmente ad interessarle e a coinvolgerle Pensiamo a una parte dei movimenti come quello femminista e quello ambientalista, o anche a forze e ambienti intellettuali come il manifesto.
Parlato: Il manifesto segue quella vicenda con grande coinvolgimento e partecipazione. E anche dividendoci al nostro interno. Riflettendo anche il tipo di divisione che attraversa il Pci, tra chi considera la svolta una decisione sconsiderata e carica di conseguenze terribili e chi la giudica un trauma necessario per un partito fermo e "conservatore". Ma c'è un'altra divisione: tra chi, come me, Luigi, ritiene cruciale entrare nel vivo dello scontro all'interno del Pci, schierandoci apertamente e organicamente con il no, e chi osteggia un rapporto "interno" con i compagni del no in nome dell'autonomia del giornale. Arco? Ricordo che Luigi ed io eravamo critici rispetto alla posizione assunta da Pietro. La storia del gorgo la interpretavamo come la scelta di restare nel "nuovo" partito occhettiano. Conta anche il fatto - dal punto di vista del manifesto - che tra i rifondatori ci sia Cossutta....
Boccia: Dentro la mozione del no, dentro quel nucleo dirigente, la differenza, la soggettività femminile, era presente ed era anche autorevole. Non c'ero solo io. Noi abbiamo fatto una mozione autonoma e collegata. Abbiamo mantenuto uno scambio, una comunicazione anche con donne che si erano schierate per il sì, interne al partito e dei luoghi politici femministi. Tutto questo, nella nostra mozione, è stato vissuto come assolutamente marginale. Come qualcosa che, se mai, era importante soltanto per poter presentare l'etichetta: le donne, le abbiamo pure noi, e ne abbiamo anche alcune autorevoli. C'è, non a caso, un restringimento via via più marcato delle decisioni al gruppo dirigente, un punto emerso con molto evidenza anche ad Arco. Noi diciamo: guardate, le condizioni sono quelle che ci dobbiamo garantire noi stessi, dobbiamo saper garantire la nostra autonomia, non in termini di accordo sulla forma che il partito va ad assumere, ma su due aspetti fondamentali, che sono quelli della pratica politica, della capacità di proiettarci fuori.
la rivista: Conclusivamente, dieci anni dopo, siete veramente convinti che, sia pure in quel quadro storico (per responsabilità della maggioranza o in parte anche per nostre insufficienze) la crisi del PCI non potesse, se non essere evitata, almeno avere un decorso politico e degli esiti organizzativi diversi?
Parlato: Io una volta ho scritto su Rinascita che la storia non si fa con i se, e Cesare Luporini mi mandò una lettera di rimbrotti e rimproveri dicendo che ero quasi un analfabeta, e aveva ragione: la storia si fa anche con i se. E questi se si estendono più lontano nel tempo: c'è una storia più grande, dietro la svolta e il suo esito. C'è una storia internazionale, c'è la storia stessa del Pci. E poi c'è il '68, un empito di trasformazione che non trova risposta nel partito, si abbatte malamente sul Pci.
Garavini: Quando abbiamo iniziato la vicenda di Rifondazione, l'abbiamo fatto in una condizione di isolamento terribile. Nelle prime settimane vi era una preponderante corrente cossuttiana da un lato, e dall'altro quattro o cinque compagni. E basta. Allora, si può naturalmente dire: avete fatto male perché da solo Cossutta non avrebbe dato vita a Rifondazione, sarebbe rimasto nel partito. Quando poi nel '93 Rifondazione ebbe a Torino e Milano più voti del Pds, quando apparve chiaro che una speranza era aperta e possibile e chi guidava Rifondazione si lanciò nell'impresa della Convenzione per l'alternativa, cioè il tentativo di allargare il fronte e i contenuti, quell'iniziativa fu bloccata. Siccome il partito è già bell'e fatto e ha già tanti voti, ti vien detto: ma perché devi metterlo in discussione per fare un'altra cosa? Confesso che comincio a dubitare nel profondo della capacità di questa sinistra italiana di decidersi, di muoversi... e dire che noi eravamo orgogliosi di essere una parte avanzata del movimento operaio e socialista nel mondo, e adesso siamo ridotti, frantumati, divisi. C'è abbondantemente di che riflettere.
Ingrao: Come Luporini, vedo una grande fecondità nei se; i se sono il modo con cui cerchiamo di capire quello che è successo, e anche di prepararci meglio per quello che ancora deve succedere. Nel merito: insisto su un punto chiave, cioè su una nostra lettura, inadeguata, sbagliata e insufficiente della ristrutturazione capitalistica, a partire dagli anni 70...
la rivista: ...Certo, ma rimaneva sempre aperto un problema di scelte politiche, di forme organizzative, di che cosa fare anche in concreto. ..
Ingrao: ...non si trattava di modalità, c'era un'inadeguatezza soggettiva nostra, che ancora pesa.
Bertinotti: Dal punto di vista strutturale non mi pare contestabile che siamo all'indomani di una rivoluzione del capitale, una rivoluzione gigantesca che innova pressocché tutte le relazioni, tutti i rapporti. Siamo di fronte a un ordine mondiale diverso, che in qualche misura è anticipato dal crollo dell'est, dal disfacimento di quei regimi e che oggi, specie dopo la guerra balcanica, diventa governo del mondo. E in questo riordino del governo del mondo, che è militare, culturale, sociale, statuale, vien meno la nozione di stato come l'avevamo conosciuta, di stato-nazionale. In un contesto così avviene la fine del ciclo politico italiano di cui è scandalosamente emblema l'attuale vicenda del Kgb e del modo come ci si reagisce, con strappi ulteriori e miserevoli. Ora, quanto era possibile attivare negli anni 80, e ancora nella fase della svolta, oggi ha ben altri ostacoli di fronte. Una diversa dislocazione delle forze, al momento conclusivo della svolta della Bolognina, avrebbe consentito un diverso corso, specie della sinistra alternativa e di Rifondazione.
la rivista: Stai dicendo che, se anche solo in termini di forza, questa sinistra rifondata avesse raggiunto risultati quantitativi e qualitativi diversi, questo avrebbe avuto un'incidenza sull' evoluzione e sul corso complessivo delle vicende italiane...
Bertinotti: Penso che sì, avrebbe determinato una diversa condizione nella costruzione di Rifondazione comunista e della sinistra alternativa e, quindi, forse avrebbe influito anche su certi passaggi della storia del paese. Oggi, anche sulla base delle esperienze fatte prima col fronte del no, poi con Rifondazione comunista, più tutte le altre esperienze, va accettata e valorizzata, specie in una fase di crisi e di transizione, una compresenza di culture politiche diverse nella sinistra di alternativa. Insomma, accettare di vivere insieme pur essendo diversamente articolati non solo nelle culture, ma anche nelle forme di organizzazione politiche. Io fondo un partito però non pretendo che, per fare la sinistra di alternativa, tutti debbano scegliere la via del partito. Possono scegliere altre forme organizzate, altre modalità, altre pratiche e io credo che bisogna accettare la coesistenza non solo di culture diverse ma di modalità e organizzazione della politica diversa, anche sperimentali, solo costituendo una capacità di lavorare insieme.
Boccia: Io resto convinta che, se anche fossimo usciti tutti quanti insieme, non sarebbe andata molto diversamente. La vicenda di questo decennio ha cambiato tutti noi, la sinistra che si è più riconosciuta nel Pds, poi nei Ds e nell'approdo di governo - non parlo solo dei gruppi dirigenti - noi, quelli che sono finiti nella diaspora già da Bologna, quelli che sono usciti in modi diversi, che hanno fatto Rifondazione, che sono andati in tappe successive in Rifondazione. La crisi delle forme di coesistenza è il dato della società, della ristrutturazione in atto, della modernizzazione, delle modificazioni dei poteri oltre che delle strutture e delle culture, delle forme di comunicazione. È la questione che sottolinea Ingrao: l'inadeguatezza del soggetto rispetto ai processi. Ma, poi, noi riteniamo che dobbiamo avere il soggetto compiuto, il soggetto della trasformazione, dell'alternativa e poi su questo costruire tutto il resto oppure riteniamo l'incompiuto una funzione della politica?
Tortorella: A me parve - ma lo dissi nel lontano passato in modo assolutamente ermetico - e pare ancora più oggi che, e su questo ho cercato di lavorare per Critica marxista nel corso di questi ultimi anni, che il problema fosse molto più di fondo. Fosse, cioè, nella cultura costitutiva del gruppo dirigente che pur aveva contribuito a salvarci dal peggiore dogmatismo e a radicarlo profondamente in Italia. Quella cultura, ispirata allo storicismo particolarmente forte in Italia attraverso la lezione di Benedetto Croce, univa alla capacità critica una forte fragilità sul terreno dei principi essenziali per una azione politica e si esponeva, cioè, a un fortissimo relativismo etico. Fu anche questo uno dei motivi della debolezza che generò poi il declino e infine la crisi del Pci. E fu, contemporaneamente, la fragilità di una cultura della realtà determinata anche dalla dura battaglia che quella versione dello storicismo imponeva, come era stato per Croce, una lontananza o addirittura un disprezzo per le scienze umane che avevano segnato di se tutta la prima parte del Novecento. Perciò non di errori o ritardi si deve parlare, a mio avviso, ma di qualcosa di molto più profondo. Senza risolvere i nodi teorici era fatale che le nuove generazioni fossero esposte, come è accaduto, all'influenza del pensiero dominante.
la rivista: In questa tavola rotonda sono stati precisati da alcuni protagonisti diretti elementi di fatto poco conosciuti e interessanti. Sono emerse anche posizioni diverse, che in parte riproducono, ma in parte correggono quelle di allora. Una cosa però appare comune tra tutti, e non scontata: la consapevolezza che quella vicenda era oggettivamente dominata da grandi tendenze e soggettivamente da un lungo itinerario precedente, ma non era però del tutto predeterminata nel suo svolgimento e nel suo esito. In questo margine si possono e debbono collocare le pesanti responsabilità della svolta occhettiana (che non era la sola possibile) e anche responsabilità nostre per il ritardo e il limite nel definire in modo adeguato e convincente una proposta di svolta del tutto diversa, ma non meno innovativa. Il che ci stimola a risalire, con lo stesso metodo problematico, la stessa apertura all'autocritica, più lontano nel passato, nella storia del Pci, a riflettere anche sulle scelte successive al suo scioglimento e a indagare più a fondo nei processi sociali, culturali e internazionali di cui quella storia lontana e recente è stata riflesso ma con i quali poteva interagire. Proprio perché lasciamo ad altri l'abiura impudica e che non si ferma mai, non intendiamo dire "io non c'ero" : dobbiamo spiegare perché c'eravamo, perché siamo ancora fieri di esserci stati, e spiegare a noi stessi ciò che, essendoci, si poteva fare di diverso e di meglio.
(a cura di Guido Moltedo)
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