27.4.10

Comunista patentato (da "micropolis" aprile 2010).

L’annuale festival perugino del giornalismo è stato, quest’anno, preceduto da un’anteprima. Nell’assolato pomeriggio del 20 aprile, in uno spazio reso più ampio dall’affascinante panorama, i giardini del Pincetto, per iniziativa del Comune e della segreteria del Festival e con il concorso della Scuola di giornalismo, è stato impiantato un ulivo ed è stata scoperta una targa che lo dedica “A Peppino Impastato e a tutti i giornalisti uccisi dalla mafia”.

Cerimonia suggestiva, a tratti commovente. C’era il sindaco, c’era Libera con le sue bandiere, c’erano decine di cittadini, molti giovani. Arianna Ciccone ha raccontato l’origine dell’iniziativa, nata come reazione alla notizia che in un paesino del Bergamasco l’ottusità leghista, dopo aver rimosso la targa che intitolava a Impastato una sala della civica biblioteca, aveva ispirato anche il taglio dell’ulivo piantato in suo onore. Poi gli allievi della Scuola hanno ricordato uno per uno, compitandone i nomi, i giornalisti uccisi dalla criminalità organizzata: Siani, De Mauro, Spampinato eccetera eccetera. E’ consolante che a questi esempi di moralità professionale e civile si ispirino gli aspiranti giornalisti e non al servile e interessato carrierismo oggi in voga. Ed è importante che tra i loro maestri riconoscano Peppino Impastato, che si distinse non solo per il coraggio, ma per l’uso competente, estroso ed efficace delle nuove forme di comunicazione e di linguaggio.

Eppure in tutto ciò c’è qualcosa che stona, sebbene non imputabile a chi ha promosso l’iniziativa. L’ho avvertito, più che durante la cerimonia, nella mattinata, durante il convegno sui beni confiscati alle mafie, in cui il Sindaco Boccali ha per ben tre volte, citando l’iniziativa, ripetuto come giaculatoria “a tutti i giornalisti uccisi dalla mafia”.

Ma Peppino era un “giornalista”? Di sicuro aveva il genio della comunicazione e, quasi obbligato dalla legislazione ordinistica (se non corporativa), aveva voluto il patentino di pubblicista per potere responsabilmente compilare fogli di agitazione politica e animare la sua “radio libera”. Di certo però non era quella di giornalista la sua “missione” e, meno che mai, la sua vocazione. E neanche la sua professione.

Peppino si sentiva (ed era) un “rivoluzionario”, uno che mette tutte le energie, al limite la stessa vita, al servizio di una causa. Era di quelli che non si contentavano di cambiare governo, ma pretendeva di rovesciare un ordinamento economico e sociale, il capitalismo, che a suoi occhi produceva sfruttamento ed emarginazione e voleva sovvertirne il sistema di valori: “contestazione globale del sistema” - soleva dire con l’amato Marcuse. La mafia pertanto non era per lui solo un cancro da estirpare, ma la manifestazione estrema e, al tempo stesso, più significativa di un potere, quello borghese, che sistematicamente violava gli stessi principi che proclamava. Peppino si serviva del giornalismo come mezzo e allo stesso modo avrebbe usato, se i sicari di Badalamenti glielo avessero consentito, la tribuna del consiglio comunale. Ma il mestiere che aveva scelto non era di giornalista o di politico, ma di “comunista”. Questa cosa è oggi difficile da dire e per i giovani quasi impossibile da capire, ma così era.

Del tutto improprio mi pare poi definire Peppino eroe della “legalità”. Di sicuro voleva in galera gli assassini, i mafiosi e i loro complici, ma non pensava affatto che forze di polizia e magistrati (per di più in uno Stato “borghese”) potessero da soli sconfiggere la mafia e si richiamava, nel suo originale marxismo, ai Fasci siciliani, ai movimenti contadini e operai dell’isola. “Contro la mafia lotta di classe” - gridava ancora ventenne alle manifestazioni.

Una volta o l’altra bisognerà trovare il coraggio di proclamarlo: il comunismo del ventesimo secolo non fu solo un potere ferreo e criminoso, ma anche un poderoso strumento di riscatto delle moltitudini, fu speranza, fede che si testimonia fino al martirio. E lo fu anche di più in comunisti come Peppino, eretici che contestavano la “Chiesa”.

In una recente bella poesia di Walter Cremonte leggo: “C’è stato un tempo/ spiegò il professore/ che “giacobino” diventò un insulto/ come oggi, per fare un esempio,/ succede alla parola “comunista”. E’ così. Ma verrà prima o poi il tempo in cui, oltre a ripiantare gli olivi troncati e riappostare le targhe rimosse, potremo liberamente restituire a Peppino l’onore e l’orgoglio di comunista.
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Nota
Questo articolo è stato pubblicato su "micropolis" oggi in edicola in Umbria insieme a "il manifesto".

Su Peppino Impastato ho proposto su questo blog un altro vecchio pezzo dal mensile umbro, Memoria di un ribelle,

http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/09/memoria-di-un-ribelle-micropolis.html

e un ricordo personale all'interno del post Io lo conoscevo bene. http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/12/io-lo-conoscevo-bene-gianni-giovanni.html

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