11.9.09

Peppino Impastato. Memoria di un ribelle (micropolis febbraio 2001)

Il nuovo sindaco leghista di Ponteranica, in provincia di Bergamo, ha fatto rimuovere ieri la targa voluta un anno e mezzo fa dal suo precedessore di centrosinistra per dedicare la biblioteca civica a Peppino Impastato, giovane siciliano ucciso dalla mafia nel 1978. "Meglio onorare personalità locali". Non trovo parole per commentare questa vergogna. Ripubblico un personale ricordo di Peppino scritto per "micropolis" nel 2002 in occasione di un dibattito sul film "I cento passi".
Memoria di un ribelle
Ho condiviso il grido di dolore “il dibattito no!” lanciato a suo tempo da Nanni Moretti. Il chiacchiericcio infarcito di “cioè” che seguiva tanti spettacoli nei tardi Settanta, era diventato, nella sua ritualità e sciatteria, il pendant dell’impotenza. Oggi però bisognerebbe urlare “il dibattito sì!”, approfittare di ogni situazione per riprendere la parola ed elaborare un vocabolario comune tra quanti non si riconoscono nell’ordine esistente ma, ad onta dei fasti della “rete”, non sempre trovano canali di comunicazione e si sentono condannati all’afasia.
Sembra muoversi su questa linea l’associazione culturale primomaggio. Animata da compagni di antica militanza DP promuove dibattiti soprattutto nell’area di Assisi e Bastia. Una delle ultime iniziative, la proiezione de I cento passi di Marco Tullio Giordana, ha ottenuto un successo forse imprevisto: la sala del Cinema Esperia di Bastia era stracolma. Il dibattito che seguiva era dedicato alla figura del militante di cui il film racconta la storia: Peppino Impastato, assassinato dalla mafia a Cinisi, un paese del Palermitano, nel maggio 1978, lo stesso giorno dell’uccisione di Moro da parte delle Brigate Rosse.
Ho visto più volte il film, ma sul momento non sono mai riuscito ad organizzare razionalmente un giudizio critico. La mia confusione nasce di certo dall’antica amicizia con Impastato. L’attore protagonista non presenta alcuna somiglianza con Peppino, se non quella che accomuna molte fisionomie meridionali; eppure nel modo di gesticolare, nell’espressione del volto, nell’inflessione della voce, sembra lui. Né si tratta di un’impressione affatto soggettiva: una compagna di Sessantotto, mia e di Peppino, con la quale ho visto il film appena uscito, ne ha ricavata una identica.
A Bastia non ero però il solo ad avere le lacrime agli occhi. La piena emozionale sommergeva molti spettatori, non solo quelli attempati, che potevano scorgere nelle immagini un barlume della giovinezza perduta, ma anche ragazze e ragazzi che degli anni Sessanta e Settanta hanno una conoscenza sempre indiretta e spesso assai imperfetta. Ha ragione Umberto Eco: esiste una chimica delle emozioni e perciò certi racconti, letterari o cinematografici, fanno piangere, sono fatti per far piangere. Resta valida a questo proposito la ricetta di Aristotele, spesso inconsapevolmente rispettata da tanti prodotti drammatici o narrativi: un intreccio ben costruito, che tenda all’estremo le situazioni, fa sì che il lettore lo spettatore provi insieme pietà e terrore. Si può anche comprendere perché si piange, ma non si può evitare di farlo, come quando si taglia una cipolla. Nel film di Giordana all’effetto coopera un ritmo serrato, “americano”. Una vicenda complessa è condensata in sequenze di grande concentrazione “realistica”, che nella loro tipicità sembrano cogliere intero il senso di un’esperienza umana.
Il film aspira a una ricostruzione documentata, in qualche modo veridica, dei fatti, ma è comunque un’interpretazione, inevitabilmente legata al clima ideologico e culturale del tempo in cui è stato girato. Gli sceneggiatori, lo stesso Giordana e Claudio Fava, rivendicando la ricerca puntigliosa di testimonianze scritte ed orali, dei concittadini, dei compagni, dei familiari di Peppino (è forse questa la ragione delle impressionanti somiglianze), hanno dedicato a Felicia Impastato, la madre dell’eroe, considerata coautrice del film, il premio ottenuto a Venezia. Ciò nonostante, essi leggono la storia alla luce di una ideologia in voga oggi, “democratica” e “americana”.
Giordana ha affermato che il suo non è un film sulla mafia o sul Sessantotto, ma su un uomo. Invero, come nei film democratici americani dal New Deal in poi, l’attenzione si concentra sull’eroe, sui suoi conflitti, sul suo coraggio. Il contesto è sfondo, attendibile e ben curato quanto si vuole, ma inessenziale. Il mafioso del film potrebbe essere qualsiasi altra figura sociale capace di esprimere un potere arbitrario, violento e predatorio; il protagonista, un comunista sessantottino, potrebbe benissimo essere un carabiniere o un magistrato. Lo stesso titolo, ispirato da una frase di Impastato sui cento passi che separavano la sua casa da quella del boss, ricorda, forse inconsapevolmente, un altro film d’ambientazione sicula, i Cento giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara, meno riuscito, ma ugualmente centrato sulla figura dell’eroe, il generale Dalla Chiesa. Si comprende perché il conflitto a cui il film dà più risalto sia quello col padre mafioso, che assume risvolti edipici.
Un messaggio esplicitamente politico, ai margini del film, c’è comunque. Sul finire, Peppino visita un dirigente locale del PCI, un pittore con cui conserva un’amicizia non priva di tensioni. Gli comunica, cercandone l’assenso, la decisione di candidarsi al Consiglio Comunale, in Democrazia Proletaria. Il suo interlocutore, stigmatizzando ironicamente il masochismo delle sinistre, grosso modo replica: “Noi non vogliamo vincere. Per questo ci dividiamo sempre”. Giovanni Impastato, fratello di Peppino, e Giovanni Russo Spena, senatore dell’Antimafia, al dibattito di Bastia, hanno giudicato del tutto inverosimile il colloquio per ragioni politiche e fattuali. La scena, peraltro, non è innocente, non ha solo motivazioni estetico-spettacolari, ma è una sorta di richiamo sentimentale all’unità, una morale attuale che si sovrappone alla favola. L’incontro è stato ricco di spunti interessanti. Sollecitato da interventi brevi e sugosi, Russo Spena, che ha steso la relazione finale (poi votata all’unanimità) sui depistaggi istituzionali nelle indagini sul delitto, ha ricordato i silenzi e le omissioni che hanno ostacolato gli accertamenti: alcuni dei “devianti” hanno poi fatto luminose carriere, promossi generali o giudici di Cassazione. Ha inoltre rievocato il clima della primavera 78. La caccia alle streghe, cominciata nei primi giorni del sequestro Moro, aveva isolato Peppino. Perfino i consiglieri comunali del PCI a Cinisi avevano votato un ordine del giorno che condannava come calunnie le sue accuse sui traffici di droga, le speculazioni edilizie, le collusioni politiche. Non casualmente gli assassini scelsero una modalità insolita: lo fecero saltare in aria su un binario, quasi si trattasse di un terrorista incauto. La stampa, in quei giorni convulsi, diede alla notizia scarsissimo risalto. Non tutta accreditò l’ipotesi dell’attentato, ma lo fece “L’Unità”, che scrisse così una delle pagine più ingloriose della sua storia gloriosa. Caduta quasi subito questa lettura, gli inquirenti montarono un altrettanto improbabile suicidio.
Giustamente Giovanni Impastato ha dichiarato che il coraggioso film di Giordana, come la relazione dell’Antimafia, come il processo che si svolgerà contro i probabili assassini, rappresentano quel tardivo risarcimento, che a tutt’oggi gli organi di governo negano, rifiutando a Peppino la qualifica di “vittima della mafia” ed alla madre il modesto indennizzo che la legge prevede.
Forse anche a noi tocca un risarcimento. Dei movimenti politici e sociali degli anni Settanta abbiamo rilevato ambiguità, incertezze, contraddizioni, che non esitiamo a riconoscere anche come nostre. Tuttavia, in un clima in cui, senza reazioni a sinistra, Montanelli si permette di invocare una epurazione della scuola da tutti gli insegnanti sessantottini come unica efficace misura di riforma, qualche precisazione, fondata sulla privata memoria, mi pare necessaria.
Nel 1968 Peppino ed io militavamo nello stesso gruppetto, la Lega dei Comunisti marxisti-leninisti, che si caratterizzava per il sostegno alla cosiddetta sinistra maoista. Ci entusiasmava nei discorsi di Chang Ching e di Lin Piao la guerra dichiarata ai “quattro vecchi” (la vecchia ideologia, la vecchia cultura, i vecchi costumi, le vecchie abitudini), ci esaltavano i loro slogan preferiti “Ribellarsi è giusto”, “Osare pensare, parlare, agire”. Erano certamente falsi idoli, ma esprimevano una ribellione, se si vuole piccolo borghese, che coinvolgeva tutto il vecchio ordine, dal livello familiare a quello politico, a quello sociale. Peppino era appassionato di Marcuse, insisteva sul fatto che la contestazione o era globale o non era. Lo contraddistingueva una volontà di incidere sulla realtà, anche nel suo paesino arretrato e mafioso, mentre io preferivo il movimento universitario, i dibattiti ideologici. Più tardi entrammo di comune accordo nel PCd’I “linea rossa”, un gruppo che a Palermo più degli altri cercava un rapporto con gli operai ed in provincia otteneva simpatie tra i braccianti. La comune militanza e la pratica amicale durarono fino all’autunno del 1971, quando cambiai città. Dopo ci perdemmo di vista e le nostre scelte si divaricarono: io ritornai nel PCI, lui si avvicinò a Lotta Continua. Non sono dunque in grado di dar testimonianza sul più diretto impegno antimafia espresso negli anni successivi attraverso la radio, né sui dibattiti sulla droga, la liberazione del corpo e simili, di cui il film racconta. Posso raccontare di un nostro lungo colloquio, alla stazione di Palermo, nella primavera del 71.
Nella città agiva da poco, legato al Manifesto, il Centro di Iniziativa Comunista della Sicilia, guidato da Mario Mineo, nei confronti del quale nutrivamo entrambi tanto ammirazione quanto diffidenza. Nella riunione di gruppo avevamo discusso il documento di quell’organizzazione sulle elezioni regionali che si sarebbero svolte a giugno. S’era discusso soprattutto delle originali tesi di Mineo sulla borghesia mafiosa come forma specifica del capitalismo in Sicilia e sulle proposte di lotta che ne faceva derivare. I più rozzi dicevano che la mafia sarebbe scomparsa con l’arrivo del socialismo, come la droga e la prostituzione, i più raffinati definivano quella impostazione di retroguardia, sostenevano che il nemico principale non era più la mafia, neanche in Sicilia. Nella nostra privata conversazione Peppino tentò di convincermi che, almeno su quel punto, Mineo aveva ragione, che la lotta contro la borghesia, la mentalità, l’omertà mafiose, era immediatamente lotta per il socialismo: mi parlò della grande ricchezza mafiosa, della capacità di condizionamento, della speculazione edilizia. Non mi convinse, mi convinsi più tardi da solo.
Torniamo al film. Non ha il torto di tagliare per ragioni spettacolari i noiosi dibattiti ideologici di cui era infarcita la vita di Peppino, ma quello di censurare in lui ed in altri che, per fortuna loro e nostra, non furono uccisi, il nesso inscindibile tra la lotta alla mafia e la lotta anticapitalistica, tra la ribellione etica ed estetica e la scelta comunista rivoluzionaria.

Il film è comunque bello ed utile, anche a noi. Nel finale un parente americano degli Impastato chiede a Felicia un’autorizzazione alla vendetta, perché Peppino è “della famiglia”, uno dei “nostri”. All’orgogliosa risposta “non è dei vostri” il boss replica: “Dove sono i suoi compagni?”. In quello stesso momento si vede per strada una folla di giovani che, tra bandiere rosse, inni e pianti, gridano: “Peppino è vivo e lotta insieme a noi”. Eco lo direbbe un finale consolatorio. Consoliamoci pure, accettiamo come risarcimento questo “lieto” fine che dà senso alla vita e alla morte del nostro eroe. Godiamoci pure il piacere delle lacrime. Ma dopo andiamo a scavare tra le nostre vecchie carte degli anni Settanta, tra le cose che leggevamo e scrivevamo, tra i nostri stessi privati ricordi. Sono certo che tra tanto ciarpame troveremo anche la perla, troveremo anche qualche indicazione critica, qualche analisi, qualche indicazione di metodo illuminante, tale da dare ragione e ragioni alla nostra refrattarietà, alla nostra impenitenza e impunità. (S.L.L.)

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