Il nuovo sindaco leghista
di Ponteranica, in provincia di Bergamo, ha fatto rimuovere ieri la
targa voluta un anno e mezzo fa dal suo precedessore di
centrosinistra per dedicare la biblioteca civica a Peppino Impastato,
giovane siciliano ucciso dalla mafia nel 1978. "Meglio onorare
personalità locali". Non trovo parole per commentare questa
vergogna. Ripubblico un personale ricordo di Peppino scritto per
"micropolis" nel 2002 in occasione di un dibattito sul film
"I cento passi".
Memoria di un ribelle
Ho condiviso il grido di
dolore “il dibattito no!” lanciato a suo tempo da Nanni Moretti.
Il chiacchiericcio infarcito di “cioè” che seguiva tanti
spettacoli nei tardi Settanta, era diventato, nella sua ritualità e
sciatteria, il pendant dell’impotenza. Oggi però
bisognerebbe urlare “il dibattito sì!”, approfittare di ogni
situazione per riprendere la parola ed elaborare un vocabolario
comune tra quanti non si riconoscono nell’ordine esistente ma, ad
onta dei fasti della “rete”, non sempre trovano canali di
comunicazione e si sentono condannati all’afasia.
Sembra muoversi su questa
linea l’associazione culturale primomaggio. Animata da
compagni di antica militanza DP promuove dibattiti soprattutto
nell’area di Assisi e Bastia. Una delle ultime iniziative, la
proiezione de I cento passi di Marco Tullio Giordana, ha
ottenuto un successo forse imprevisto: la sala del Cinema Esperia di
Bastia era stracolma. Il dibattito che seguiva era dedicato alla
figura del militante di cui il film racconta la storia: Peppino
Impastato, assassinato dalla mafia a Cinisi, un paese del
Palermitano, nel maggio 1978, lo stesso giorno dell’uccisione di
Moro da parte delle Brigate Rosse.
Ho visto più volte il
film, ma sul momento non sono mai riuscito ad organizzare
razionalmente un giudizio critico. La mia confusione nasce di certo
dall’antica amicizia con Impastato. L’attore protagonista non
presenta alcuna somiglianza con Peppino, se non quella che accomuna
molte fisionomie meridionali; eppure nel modo di gesticolare,
nell’espressione del volto, nell’inflessione della voce, sembra
lui. Né si tratta di un’impressione affatto soggettiva: una
compagna di Sessantotto, mia e di Peppino, con la quale ho visto il
film appena uscito, ne ha ricavata una identica.
A Bastia non ero però il
solo ad avere le lacrime agli occhi. La piena emozionale sommergeva
molti spettatori, non solo quelli attempati, che potevano scorgere
nelle immagini un barlume della giovinezza perduta, ma anche ragazze
e ragazzi che degli anni Sessanta e Settanta hanno una conoscenza
sempre indiretta e spesso assai imperfetta. Ha ragione Umberto Eco:
esiste una chimica delle emozioni e perciò certi racconti, letterari
o cinematografici, fanno piangere, sono fatti per far piangere. Resta
valida a questo proposito la ricetta di Aristotele, spesso
inconsapevolmente rispettata da tanti prodotti drammatici o
narrativi: un intreccio ben costruito, che tenda all’estremo le
situazioni, fa sì che il lettore lo spettatore provi insieme pietà
e terrore. Si può anche comprendere perché si piange, ma non si può
evitare di farlo, come quando si taglia una cipolla. Nel film di
Giordana all’effetto coopera un ritmo serrato, “americano”. Una
vicenda complessa è condensata in sequenze di grande concentrazione
“realistica”, che nella loro tipicità sembrano cogliere intero
il senso di un’esperienza umana.
Il film aspira a una
ricostruzione documentata, in qualche modo veridica, dei fatti, ma è
comunque un’interpretazione, inevitabilmente legata al clima
ideologico e culturale del tempo in cui è stato girato. Gli
sceneggiatori, lo stesso Giordana e Claudio Fava, rivendicando la
ricerca puntigliosa di testimonianze scritte ed orali, dei
concittadini, dei compagni, dei familiari di Peppino (è forse questa
la ragione delle impressionanti somiglianze), hanno dedicato a
Felicia Impastato, la madre dell’eroe, considerata coautrice del
film, il premio ottenuto a Venezia. Ciò nonostante, essi leggono la
storia alla luce di una ideologia in voga oggi, “democratica” e
“americana”.
Giordana ha affermato che
il suo non è un film sulla mafia o sul Sessantotto, ma su un uomo.
Invero, come nei film democratici americani dal New Deal in poi,
l’attenzione si concentra sull’eroe, sui suoi conflitti, sul suo
coraggio. Il contesto è sfondo, attendibile e ben curato quanto si
vuole, ma inessenziale. Il mafioso del film potrebbe essere qualsiasi
altra figura sociale capace di esprimere un potere arbitrario,
violento e predatorio; il protagonista, un comunista sessantottino,
potrebbe benissimo essere un carabiniere o un magistrato. Lo stesso
titolo, ispirato da una frase di Impastato sui cento passi che
separavano la sua casa da quella del boss, ricorda, forse
inconsapevolmente, un altro film d’ambientazione sicula, i Cento
giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara, meno riuscito, ma
ugualmente centrato sulla figura dell’eroe, il generale Dalla
Chiesa. Si comprende perché il conflitto a cui il film dà più
risalto sia quello col padre mafioso, che assume risvolti edipici.
Un messaggio
esplicitamente politico, ai margini del film, c’è comunque. Sul
finire, Peppino visita un dirigente locale del PCI, un pittore con
cui conserva un’amicizia non priva di tensioni. Gli comunica,
cercandone l’assenso, la decisione di candidarsi al Consiglio
Comunale, in Democrazia Proletaria. Il suo interlocutore,
stigmatizzando ironicamente il masochismo delle sinistre, grosso modo
replica: “Noi non vogliamo vincere. Per questo ci dividiamo
sempre”. Giovanni Impastato, fratello di Peppino, e Giovanni Russo
Spena, senatore dell’Antimafia, al dibattito di Bastia, hanno
giudicato del tutto inverosimile il colloquio per ragioni politiche e
fattuali. La scena, peraltro, non è innocente, non ha solo
motivazioni estetico-spettacolari, ma è una sorta di richiamo
sentimentale all’unità, una morale attuale che si sovrappone alla
favola. L’incontro è stato ricco di spunti interessanti.
Sollecitato da interventi brevi e sugosi, Russo Spena, che ha steso
la relazione finale (poi votata all’unanimità) sui depistaggi
istituzionali nelle indagini sul delitto, ha ricordato i silenzi e le
omissioni che hanno ostacolato gli accertamenti: alcuni dei
“devianti” hanno poi fatto luminose carriere, promossi generali o
giudici di Cassazione. Ha inoltre rievocato il clima della primavera
78. La caccia alle streghe, cominciata nei primi giorni del sequestro
Moro, aveva isolato Peppino. Perfino i consiglieri comunali del PCI a
Cinisi avevano votato un ordine del giorno che condannava come
calunnie le sue accuse sui traffici di droga, le speculazioni
edilizie, le collusioni politiche. Non casualmente gli assassini
scelsero una modalità insolita: lo fecero saltare in aria su un
binario, quasi si trattasse di un terrorista incauto. La stampa, in
quei giorni convulsi, diede alla notizia scarsissimo risalto. Non
tutta accreditò l’ipotesi dell’attentato, ma lo fece “L’Unità”,
che scrisse così una delle pagine più ingloriose della sua storia
gloriosa. Caduta quasi subito questa lettura, gli inquirenti
montarono un altrettanto improbabile suicidio.
Giustamente Giovanni
Impastato ha dichiarato che il coraggioso film di Giordana, come la
relazione dell’Antimafia, come il processo che si svolgerà contro
i probabili assassini, rappresentano quel tardivo risarcimento, che a
tutt’oggi gli organi di governo negano, rifiutando a Peppino la
qualifica di “vittima della mafia” ed alla madre il modesto
indennizzo che la legge prevede.
Forse anche a noi tocca
un risarcimento. Dei movimenti politici e sociali degli anni Settanta
abbiamo rilevato ambiguità, incertezze, contraddizioni, che non
esitiamo a riconoscere anche come nostre. Tuttavia, in un clima in
cui, senza reazioni a sinistra, Montanelli si permette di invocare
una epurazione della scuola da tutti gli insegnanti sessantottini
come unica efficace misura di riforma, qualche precisazione, fondata
sulla privata memoria, mi pare necessaria.
Nel 1968 Peppino ed io
militavamo nello stesso gruppetto, la Lega dei Comunisti
marxisti-leninisti, che si caratterizzava per il sostegno alla
cosiddetta sinistra maoista. Ci entusiasmava nei discorsi di Chang
Ching e di Lin Piao la guerra dichiarata ai “quattro vecchi” (la
vecchia ideologia, la vecchia cultura, i vecchi costumi, le vecchie
abitudini), ci esaltavano i loro slogan preferiti “Ribellarsi è
giusto”, “Osare pensare, parlare, agire”. Erano certamente
falsi idoli, ma esprimevano una ribellione, se si vuole piccolo
borghese, che coinvolgeva tutto il vecchio ordine, dal livello
familiare a quello politico, a quello sociale. Peppino era
appassionato di Marcuse, insisteva sul fatto che la contestazione o
era globale o non era. Lo contraddistingueva una volontà di incidere
sulla realtà, anche nel suo paesino arretrato e mafioso, mentre io
preferivo il movimento universitario, i dibattiti ideologici. Più
tardi entrammo di comune accordo nel PCd’I “linea rossa”, un
gruppo che a Palermo più degli altri cercava un rapporto con gli
operai ed in provincia otteneva simpatie tra i braccianti. La comune
militanza e la pratica amicale durarono fino all’autunno del 1971,
quando cambiai città. Dopo ci perdemmo di vista e le nostre scelte
si divaricarono: io ritornai nel PCI, lui si avvicinò a Lotta
Continua. Non sono dunque in grado di dar testimonianza sul più
diretto impegno antimafia espresso negli anni successivi attraverso
la radio, né sui dibattiti sulla droga, la liberazione del corpo e
simili, di cui il film racconta. Posso raccontare di un nostro lungo
colloquio, alla stazione di Palermo, nella primavera del 71.
Nella città agiva da
poco, legato al Manifesto, il Centro di Iniziativa Comunista della
Sicilia, guidato da Mario Mineo, nei confronti del quale nutrivamo
entrambi tanto ammirazione quanto diffidenza. Nella riunione di
gruppo avevamo discusso il documento di quell’organizzazione sulle
elezioni regionali che si sarebbero svolte a giugno. S’era discusso
soprattutto delle originali tesi di Mineo sulla borghesia mafiosa
come forma specifica del capitalismo in Sicilia e sulle proposte di
lotta che ne faceva derivare. I più rozzi dicevano che la mafia
sarebbe scomparsa con l’arrivo del socialismo, come la droga e la
prostituzione, i più raffinati definivano quella impostazione di
retroguardia, sostenevano che il nemico principale non era più la
mafia, neanche in Sicilia. Nella nostra privata conversazione Peppino
tentò di convincermi che, almeno su quel punto, Mineo aveva ragione,
che la lotta contro la borghesia, la mentalità, l’omertà mafiose,
era immediatamente lotta per il socialismo: mi parlò della grande
ricchezza mafiosa, della capacità di condizionamento, della
speculazione edilizia. Non mi convinse, mi convinsi più tardi da
solo.
Torniamo al film. Non ha
il torto di tagliare per ragioni spettacolari i noiosi dibattiti
ideologici di cui era infarcita la vita di Peppino, ma quello di
censurare in lui ed in altri che, per fortuna loro e nostra, non
furono uccisi, il nesso inscindibile tra la lotta alla mafia e la
lotta anticapitalistica, tra la ribellione etica ed estetica e la
scelta comunista rivoluzionaria.
Il film è comunque bello
ed utile, anche a noi. Nel finale un parente americano degli
Impastato chiede a Felicia un’autorizzazione alla vendetta, perché
Peppino è “della famiglia”, uno dei “nostri”. All’orgogliosa
risposta “non è dei vostri” il boss replica: “Dove sono i suoi
compagni?”. In quello stesso momento si vede per strada una folla
di giovani che, tra bandiere rosse, inni e pianti, gridano: “Peppino
è vivo e lotta insieme a noi”. Eco lo direbbe un finale
consolatorio. Consoliamoci pure, accettiamo come risarcimento questo
“lieto” fine che dà senso alla vita e alla morte del nostro
eroe. Godiamoci pure il piacere delle lacrime. Ma dopo andiamo a
scavare tra le nostre vecchie carte degli anni Settanta, tra le cose
che leggevamo e scrivevamo, tra i nostri stessi privati ricordi. Sono
certo che tra tanto ciarpame troveremo anche la perla, troveremo
anche qualche indicazione critica, qualche analisi, qualche
indicazione di metodo illuminante, tale da dare ragione e ragioni
alla nostra refrattarietà, alla nostra impenitenza e impunità.
(S.L.L.)
Nessun commento:
Posta un commento