14.7.10

L'eguaglianza nella società greca antica (di Mario Vegetti - da "Il bimestrale" de "il manifesto", gennaio 1989)


Tra le iniziative editoriali de "il manifesto" ci fu nel 1989 quella di un fascicolo di approfondimento a carattere monografico curato dal collettivo redazionale e dai collaboratori del quotidiano comunista, la cui testata era "il Bimestrale". Tema del numero 1 fu "l'eguaglianza", l'égalité della Rivoluzione francese di cui ricorreva il centenario. 
A Mario Vegetti, storico della filosofia e studioso dell'antichità classica, venne affidato il compito di una ricognizione sull'uguaglianza (e la diversità) nella democrazia greca antica, di cui ripropongo qui un ampio stralcio (S.L.L.).
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L'élite degli eguali.
La società greca esplora e descrive il territorio della diversità.
L’idea di essere “eguali”, i greci l’hanno probabilmente derivata dai loro “diversi” per eccellenza: gli schiavi, in casa, e i nemici, sul campo di battaglia. L’esistenza degli schiavi produce in modo polare quella dei liberi e proietta su di essa la propria omogeneità. se gli schiavi, in quanto tali, sono uguali tra loro, altrettanto lo saranno i liberi. “La democrazia” – osserva Aristotele – nacque dall’idea che quanti sono eguali per un certo rispetto siano assolutamente uguali, e in realtà, per il fatto che sono tutti egualmente liberi, pensano di essere assolutamente eguali” (Politica, V,1). L’eguaglianza greca è dunque figlia della libertà e questa è sorella gemella della schiavitù. Il campo di battaglia offre a questa idea di eguaglianza non solo il luogo in cui esprimersi, ma anche la metafora attraverso cui pensarsi e rappresentarsi.
Alle Termopili e a Maratona, i greci affrontano le variopinte moltitudini dei “barbari” d’Asia, diversi per etnie, gerarchie, armamento, con il loro schieramento “politico”, un rango compatto di fanti armati in modo assolutamente identico. Di desolante semplicità e povertà tattica il combattimento politico si basa su due momenti fondamentali: la compattezza nel reggere l’urto nemico, e ancora la compattezza nella corsa all’assalto frontale. In entrambi questi momenti, è necessario che i combattenti si comportino in modo esattamente uguale agli altri: la viltà di chi cede, e il coraggio di chi sopravanza la propria schiera, incrinano entrambi la forza d’urto comune, che consiste nella coesione e dunque sono fatali per tutti.
Il combattimento politico mantiene un valore anche per chi, come gli Ateniesi, baserà piuttosto la propria potenza sulla forza navale. I cittadini di ogni polis si pensano come un “corpo militante”; al suo interno l’uguaglianza significa, o dovrebbe significare, perfetta intercambiabilità fra i membri, completa omogeneità politica e morale. Su questo principio si fonda, nella democrazia ateniese, l’alternanza tra governanti e governati, cioè l’accesso alle cariche di potere, a turno, da parte di tutto il corpo degli “eguali”; e soprattutto si fonda una delle caratteristiche più tipiche di quella democrazia, l’assegnazione per sorteggio di gran parte delle cariche. Il sofista Protagora espresse in forma mitica questo fondamento dell’uguaglianza: gli dei hanno distribuito le capacità intellettuali e tecniche in modo diverso ai diversi uonini, ma hanno attribuito a ciascuno degli “eguali” la “virtù politica” in ugual dose.
Si pongono a questo punto due grossi problemi. Il primo è che, se si deve essere uguali, occorre diventarlo: cioè rendere compiuta quella equalizzante “virtù politica” che ciascuno possiede in potenza, instaurare quella effettiva omogeneità morale e intellettuale che consente al corpo civico di funzionare, e a quello politico di combattere. Per risolvere questo problema la polis del v secolo assume molti caratteri di una agenzia educativa integrata e permanente. Non la scuola, che non esiste se non al livello elementare. Ma con tutte le espressioni culturali, dal teatro in primo luogo al ginnasio, dove i giovani vengono integrati al club degli “eguali” mediante una pluralità complessa di procedure – l’esercizio agonale, la conversazione intellettuale, il corteggiamento pederastico. E soprattutto con i suoi dispositivi di integrazione e di controllo: le leggi che offrono al cittadino la falsariga, come dice ancora Protagora, su cui allineare la sua condotta; i luoghi di riunione del corpo sociale, l’assemblea e la festa, dove (scrive Platone) “rimbomba la voce di tutta la città”, educando, spaventando, esortando alla conformazione ugualitaria tutti i suoi membri, anziani o giovani che siano. Un critico dell’egualitarismo dai toni nietzscheani come Callicle (inventato da Platone per esprimere il suo proprio malumore antidemocratico) può affermare: “accalappiandoli fin da bambini, mediante la legge, plasmiamo i migliori, i più forti tra noi, e impastoiandoli e ammansendoli come leoni, li asserviamo dicendo loro che bisogna essere uguali agli altri e che i tale uguaglianza è il bello e il giusto (Gorgia, 483E). Non mancherà certo, a più riprese, non solo chi criticherà il valore dell’eguaglianza, vista come conformismo sociale coatto, ma anche chi negherà la sua esistenza, denunciata come maschera ideologica del dominio dei più forti: questa lezione dolorosa venne attribuita da Tucidide a quel “Maestro violento” che fu per le città grache la “guerra del Peloponneso”. Ma l’uguaglianza – se non altro come ideologia forte, capace di produrre forme di rappresentazione e di coesione sociale – sopravvisse a lungo a questi critici e a queste lezioni.
Più difficile affrontare il secondo, e decisivo, problema: chi è l’uguale? L’eguaglianza si può rappresentare solo sullo sfondo del suo contrario, della differenza e della dissimmetria. A questo sfondo, rimasto a lungo vago e solamente intuitivo, Aristotele offrì nel IV secolo una articolazione sistematica e precisa. “Uguale” è il cittadino greco, libero, maschio, adulto, dotato di una rendita che gli consente di non dover vivere di lavoro salariato. Intorno a questa eguaglianza si forma la costellazione “naturale” dei diversi. I barbari e gli schiavi, in primo luogo: le due figure, che tendono a sovrapporsi nella pratica sociale, sono da Aristotele accomunate per un loro deficit di logos (cioè, insieme, di ragione e di lingua greca), quindi per mancanza del principio psicologico di autodeterminazione. Poi le donne, che sono sì razionali, ma incapaci di una deliberazione autonoma (anche qui, la teoria riflette una condizione sociale e giuridica); i bambini provvisoriamente irrazionali fino alla maggiore età e alla cooptazione nel club degli “uguali”; infine i lavoratori salariati, che sono come “schiavi pubblici”, e privi del tempo necessario per dedicarsi alle opere degli “uguali”, la politica in primo luogo. Tutto questo appare per i greci tanto poco problematico sul piano sociale da autorizzare la teoria aristotelica trasformare il sistema delle diseguaglianze in un dato di natura, come la crescita degli alberi o il moto delle stelle.
Problematica è invece la delimitazione interna della sfera dell’uguaglianza e della sua struttura: qui, il “violento maestro” delle guerre civili ha lasciato la sua traccia. C’è infatti una tendenza dell’eguaglianza giuridica a trasformarsi in eguaglianza di potere e di ricchezza, azzerando i dislivelli sociali originari; e viceversa, un’opposta tendenza dei nobili e dei ricchi a restringere a sé la sfera dell’eguaglianza, escludendone in tutti i sensi i poveri e i plebei. Sono i principi opposti della democrazia radicale e dell’oligarchia: “entrambe sciocchezze” – dice Aristotele, ma sciocchezze pericolose, poiché in esse sta “il principio della rivoluzione” (Politica,V, 1).

2 commenti:

  1. Nella polis greca bisogna distinguere l'uguaglianza nella sfera privata da quella nella sfera pubblica. Nella sfera privata l'uguaglianza per tutti consisteva sia nell'uguaglianza formale di tutti i cittadini maschi liberi davanti alla legge, sia nell'uguale potere di libertà di parola, sia nell'avere parti uguali nella spartizione dei beni. Nella sfera pubblica, invece, valeva il principio della competenza, cioè, fermo restando l'uguale sovranità dei cittadini, le cariche elettive erano assegnate ai migliori.

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  2. Non sono esperto di tutte le cose che "posto", ma sono certo che non ci fu un sistema di governo valido per ogni polis e per tutto il tempo di durata dell'istituzione. Quanto dice Vegetti a proposito dell'accesso alle cariche per sorteggio e per rotazione nella Atene del V secolo a.C. è documentato ampiamente. Dubito molto che il sistema assicurasse la selezione dei migliori. Ma ciò, in fondo, vale anche nelle città e nei tempi in cui le cariche sono elettive. Non esiste alcuna garanzia che gli eletti siano davvero i migliori.

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