24.8.10

Li surci. Una poesia siciliana dell'abate Meli.

Un surciteddu di testa sbintata

avia pigghiatu la via di l`acitu

e facìa `na vita scialacquata

cu l`amiciuna di lu so partitu.

-

Lu ziu circau tirallu a bona strada,

ma zappau all`acqua pirchì era attrivitu

e di cchiù la saimi avia liccata

di taverni e di zàgati peritu.

-

Finarmenti Mucidda fici luca,

iddu grida: “Ziu!-Ziu!”. Ccu dogghia interna,

sò ziu pri lu rammaricu si suca,

-

poi dici: “Lu to casu mi costerna,

ma ora mi cerchi? chiaccu chi t`affuca!

Scutta pi quannu isti a la taverna!”.

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Traduzione

Un topolino di testa sventata / aveva preso la via dell’aceto (aveva preso a guastarsi come succede al vino) / e faceva una vita disordinata / con gli amiconi del suo giro. / Lo zio cercava di riportarlo sulla retta via /ma zappava nell’acqua (parlava invano) perché quello era incallito nel vizio/ e per di più aveva leccato lo strutto/, esperto di taverne e case di piacere./ Finalmente la gatta lo beccò,/ lui grida: “Zio!Zio!”. Con interno dolore/ lo zio si rode per il rammarico,/ poi dice: “Il tuo caso mi costerna,/ ma ora mi cerchi, pendaglio di forca!/ Paga per quando andavi alla taverna”.



Postilla
La poesiola qui proposta è dell'abate palermitano Giovanni Meli (1740 - 1815), da tutti segnato a dito come "onnisciente" per la sua vasta erudizione, negli orientamenti di gusto classicista ed arcadico, nelle idee sostenitore di un razionalismo e di un riformismo piuttosto blandi.
Questa favoletta non è il meglio della sua vasta produzione poetica in dialetto, ma è la poesia che, per il suo assennato moralismo e per la facilità del ritmo e della rima, tutti i libri di lettura delle elementari della Sicilia contenevano nelle loro pagine e che maestre e maestri facevano imparare a memoria. Credo che per questo possa essere apprezzata dai siciliani della mia generazione.
C'è un particolare curioso che mi piace sottolineare. Il topo saggio, che cerca di riportare il topolino traviato sulla retta via, non è il babbo, ma lo zio. Chissà se ha qualche rapporto con la condizione di abate del suo autore. Abate, nella maggior parte dei casi, non era a quel tempo il priore di un'abbazia, ma il destinatario delle sue rendite, spesso un letterato che viveva "secolarmente" e "nel secolo", protetto da un qualche grande dignitario religioso o laico in grado di assegnargli, appunto, il titolo di abate. C'era, gravoso, il vincolo della castità, in sostanza il divieto di matrimonio, non solo per i sacerdoti, ma anche per gli abati che prendevano gli ordini minori, condizione necessaria per ottenere la nomina e le rendite. Si aggirava il divieto con la convivenza more uxorio, ampiamente tollerata; ma dai figli naturali l'abate si faceva chiamare "zio" e, a sua volta, li adottava come nipoti, favorendone come poteva le carriere civili ed ecclesiastiche. (S.L.L.)

2 commenti:

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  2. in quanto all'uso di "zio" credo ci sia una spiegazione molto più semplice ed è legata allo squittio dei topi che sembra sia "zio zio zio " ... l'unico suono che sanno produrre i topi... per quanto riguarda invece il titolo di "abate" sembra esserci una spiegazione legata al modo di vestire del Meli che sembrava essere un prete.. infatti era un donnaiolo molto richiesto nei salotti di tutta Italia e quando in età avanzata il Meli rimase povero chiese al Parini aiuto economico...

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