15.11.10

Pro e contro Saviano (Norma Rangeri e Daniele Sepe su "il manifesto")

Su Gomorra e l'intera attività letteraria di Roberto Saviano oltre che sul suo significato politico propongo i due interventi su opposte posizioni, pubblicati a giugno su "il manifesto", di Norma Rangeri, appena eletta direttrice, e di Daniele Sepe, il sassofonista napoletano animatore dei "dischi del manifesto"

Norma Rangeri
Saviano bene comune
Che succede? Siete impazziti? Non avete nulla proprio di meglio da fare che criticare Saviano? E tu inauguri così la tua direzione al manifesto?
I nostri lettori sono increduli, arrabbiati, disorientati perché leggono come un ingiustificato attacco le pagine che un nostro collaboratore, Alessandro Dal Lago, rivolge a Roberto Saviano nel libro Eroi di carta, edito dalla manifesto libri, la nostra piccola (e autonoma) casa editrice. Li capisco, per un motivo molto semplice: ho stima di Saviano e credo che la sua battaglia sia anche la mia.
Dal Lago svolge una critica molto aspra (nel merito e nel tono) su Gomorra, sul fenomeno Saviano e sulla sinistra ridotta a claque di una illusoria bandiera politica. Non discuto dell'analisi letteraria del professore. Se Gomorra abbia i crismi della grande letteratura o sia un romanzo cronachistico non mi pare fondamentale. È un buon libro e che lo abbiano letto in moltissimi è positivo, specialmente per un paese pigro e analfabeta come il nostro. Mi interessa invece discutere la critica politica che Dal Lago porta a Saviano, e che in parte fa discendere da quella letteraria quando mette in dubbio (navigando in un labirinto di minuzie) l'attendibilità dei fatti raccontati in Gomorra.
Mi ha molto colpito, per esempio, che già nelle prime pagine dell'introduzione l'autore citi Nichi Vendola stigmatizzandone il linguaggio «da pulpito e da confessionale» per accostarlo in qualche modo alla retorica di Saviano. Lo scrittore sarebbe preda di una visione «ossessiva» della camorra come Male Assoluto, un mostro, un dragone da combattere con la spada lucente dell'eroe. Un'ossessione che funzionerebbe come un'arma di distrazione di massa perché la criminalità non si combatte a colpi di moda, perché non ci sono solo i camorristi, perché il capitalismo esiste anche senza la camorra, perché non si muore solo ammazzati dai killer di Casal di Principe ma anche negli altoforni, perché, perché, perché... La critica letteraria cede rapidamente il passo a una discussione politica viziata, a mio parere, da un concentrato di ideologia.
Effettivamente a volte Vendola parla come un pastore di anime o un poeta, ma questo non appanna la freschezza e l'efficacia del suo lavoro di politico e di amministratore pubblico. Né Saviano vede nella camorra il male assoluto (è una delle critiche di base e più insistenti che gli rivolge Dal Lago). Semplicemente ne ha fatto esperienza e ne racconta, con discorsi e ragionamenti per nulla sommari e moralistici. Ogni volta che l'ho ascoltato ha sempre spiegato i nessi tra economia legale e illegale (Saviano è di formazione marxista e, vorrei ricordarlo, dal 2004 al 2006 ha lavorato per “il manifesto” scrivendo molti articoli, in pratica già delineando il nucleo di Gomorra).
Il suo grande merito è stato proprio aver tolto la camorra dal folklore e averne fatto conoscere al grande pubblico i legami con il potere legale, nazionale e internazionale, del turbocapitalismo.
Saviano è stato tra i primi a scavare negli affari di quel Nicola Cosentino poi salito alle cronache nazional berlusconiane, ad aver distrutto l'aurea di rispetto verso il più forte e il più furbo, specialmente uno dei pochi capace di parlare ai ragazzi. Apertamente, pubblicamente, coraggiosamente (il prezzo che sta pagando lo dimostra) persino nella nostra asfittica televisione. Che infatti lo tollera, ma non lo sopporta e ora prova a dimezzare il suo ciclo di incontri autunnali con Fabio Fazio. Fermiamoci per un momento al piccolo schermo.
Ricordo ancora la serata su Raitre. Per due ore Saviano fece una lezione sul ruolo giocato dalla stampa locale a sostegno della camorra. Analizzò titoli, nomignoli, slang, impaginazione: il linguaggio del consenso popolare alla mafia. Regalando un inedito squarcio sull'antropologia criminale alimentata dall'informazione regionale. E l'altra, alcuni mesi dopo, altrettanto eccentrica per il nostro piccolo schermo, dedicata agli scrittori della libertà, pericolosi sovversivi, morti o sopravvissuti alla ferocia del sistema politico. Anche allora ci fu chi prese la matita rossoblu per precisare sulla conformità di questo o quel passaggio, commettendo l'errore di abbassare gli occhi sul dito anziché sollevare lo sguardo verso la luna. Non sarà per caso questo fissare il proprio ombelico uno dei tic più perniciosi della sinistra?
Dal Lago sostiene che le cose scritte da Saviano già erano conosciute, che dunque non avrebbe scoperto nulla di nuovo. Ma conosciute da chi? Quanti sapevano della dimensione internazionale dell'impero di Sandokan? Prima che Napoli si coprisse di rifiuti, prima di vedere certe scene del film Gomorra, quanti avevano capito che i nostri pomodorini o le nostre mele affondano le radici nei rifiuti tossici delle industrie del nord?
Nel lungo j'accuse si infilano poi i rivoluzionari doc (ma di quale secolo?), pronti a contestargli di non aver detto cosa pensa su palestinesi, guerre e quant'altro. Ma come? Prima lo si accusa di mettersi su un piedistallo e sproloquiare su cose che non sa, poi si pretende di vestirlo da tuttologo? Prima il "martire" deve tacere poi invece deve sentenziare sul mondo?
Dice Dal Lago che in sostanza noi gli crediamo solo perché lui è un martire e noi ci sentiamo tutti colpevoli di non esserlo. Dunque gli crediamo a prescindere, cedendo alla categoria dell'eroismo da sempre terreno di coltura della destra. Probabilmente è scattato anche questo meccanismo. E sono d'accordo con Dal Lago anche quando osserva che spostare il conflitto politico in una dimensione solo morale finisce per assecondare una tendenza moralistica e consolatoria (si potrebbe anche aggiungere giustizialista). Ma appuntare questa deriva sul petto di Saviano è un'operazione impropria. Vogliamo caricare tutto sulle spalle di questo ragazzo? Vogliamo farne una metafora degli errori della sinistra? Consiglio di ascoltarlo con più attenzione, invece, e potremo sentirlo ripetere di non voler essere un eroe («io non voglio essere un eroe, perché gli eroi sono morti e io sono vivo. Io voglio vivere e voglio sbagliare»), e di temere la diffamazione, che ha visto all'opera contro don Diana («ne ho paura ma me l'aspetto»).
Saviano si è conquistato una credibilità per quello che ha scritto e per ciò che ha fatto. Credo che gli italiani e l'opinione pubblica di sinistra siano più intelligenti di quel che si crede (l'altra sera la seriosa puntata di Annozero sulla crisi economica, con Tremonti, Bersani, la protesta dei ricercatori, e niente risse, ha fatto il boom di ascolti).
Oggi in Italia c'è una platea, che altrimenti ne sarebbe rimasta esclusa, capace di conoscere i volti, i modi, le leggi di una mafia globale. Perché uno scrittore ha raccontato di controllo del territorio, lavoro nero, nord e sud. Una moda? Un'illusione? Un surrogato dell'autentica lotta di classe, un'icona annacquata, bipartisan e un po' berlusconianiana? Ogni volta che nella sinistra nasce una speranza legata a una persona capace di interpretare e di rappresentare qualcosa di più di se stesso, scatta una voglia matta, un vizietto masochista, di buttarlo giù. Ma chi è che fa l'esame del sangue ai movimenti buoni e a quelli cattivi, dov'è il nuovo laboratorio, dove sono i medici con la ricetta salvasinistra?
Se essere ascoltati, avere successo, essere amati, avere a cuore il riscatto dei deboli, essere il testimone di storie come quella di don Diana, fare una battaglia per la legalità contro le mafie (nel paese di Falcone e Borsellino) sono trappole borghesi, modi sbagliati di fare politica, mi piacerebbe che in Italia fossimo sempre di più a sbagliare così.
Norma Rangeri, "il manifesto" 6 giugno 2010

Daniele Sepe
La mia risposta a Saviano da sax comunista
Ma cosa è successo alla sinistra radicale in Italia? Sono io che ho perso la bussola o sono altri che si sono dimenticati per strada un poco di concetti che ci accompagnavano nell’analisi della società? Ad esempio la magistratura, le forze dell’ordine, l’apparato repressivo dello Stato sono oggi nostri alleati nella lotta contro il Capitale? Io ricordavo altre cose.
Ma la legalità, le leggi cosa sono se non un sistema di regole che serve a proteggere il più forte dal più debole? Non sono promulgate dallo stesso Stato che l’istante dopo accusiamo di essere classista, liberticida, guerrafondaio e repressivo? No, sembra da quello che sto leggendo oggi che sono io che mi sbaglio. In realtà noi viviamo in una democrazia perfettamente compiuta nella quale chi è nato figlio di un muratore a Casal di Principe e il figlio di Briatore e Gregoraci hanno perfettamente le stesse prospettive: entrambi se capaci si potranno fare strada nel lungo cammino della vita.
Noi viviamo in un sistema economico capitanato da gente di cui a volte conosciamo i volti e altre no, ma che si fonda sul consumo. Possedere è essere felici. E questo bisogno di consumare, soprattutto in un momento di crisi come questo, viene cullato, coccolato, alimentato da tutto quello che è la cultura dominante oggi, dai media in primo luogo. Non hai il SUV? Sei un reietto. Non vesti firmato? Non ti fidanzerai. Non sei stato in crociera quest’estate? Sei un fallito. Vendere e ancora vendere. Ma non è che tutti si possano permettere, in maniera «perfettamente legale» di vivere come Veronica Lario, idolo di sinistrorsi perché in conflitto divorzistico col padrone d’Italia per eccellenza, il Signore del Male. E allora c’è della gente selvaggia, una feccia canagliesca che pretende oggi, con una violenza che appartiene ad un’altra epoca, l’ epica era del baronaggio e della imprenditoria pioniera e aggressiva degli esordi, non solo di limitarsi a taglieggiare il piccolo commerciante o imporre il prezzo del lavoro di un giorno ad un immigrato in un campo di pomodori, ma addirittura di sedere nei lindi consigli di amministrazione. Ma per noi comunisti una volta questi signori non erano criminali alla stessa maniera? Non sono per noi le due facce della stessa medaglia? Come diceva Brecht «è più grave l’effrazione di una banca o la fondazione di una banca?».
Ecco, la nostra bussola culturale, politica, oggi è ancora Brecht o è diventata Roberto Saviano? Chaplin diceva che il crimine paga solo alla grande. Infatti. Io nelle parole e gli scritti di Saviano non ho mai trovato queste sottili distinzioni. Mentre si rivolge in maniera educata e deferente al nostro Presidente del Consiglio, suo editore, con una «preghiera», ai tempi della legge sul processo breve, tuona contro le belve assetate di sangue sedute dietro una sbarra al processo «Spartacus».
Sarà, ma io trovo il capitalismo italiano e i boss camorristici tragicamente simili. E non per dire, ma un Marchionne che chiude Termini Imerese (quando Fiat ha ricevuto contributi statali e europei per decenni) buttando sulla strada migliaia di famiglie sta aiutando chi e cosa, se non chi poi può andare a proporre un lavoro certamente un po’ più pericoloso, ma infinitamente più redditizio di un salario da operaio, a un giovane siciliano? Fa bene alla coscienza pensare che leggere un romanzo sulla camorra o gridare ‘siamo tutti Saviano’ può fare paura a gente sanguinaria in perfetta collusione con buona parte di quello Stato che dovrebbe combatterli, invece secondo il mio modesto parere se ne strabatte. Comanda il denaro. E un libro è un libro. Una canzone è una canzone. Un film è un film.
Ma poi la ricetta a tutto questo proliferare di organizzazioni criminali quale sarebbe? Per noi «sinistri radicali» nel 2010 è diventata l’indagine di Polizia, il processo e il carcere? Ma perché, messo dentro a vita uno Schiavone e i suoi compagni, non ci sarà qualcun altro a prenderne il posto? Se le condizioni sociali e politiche non cambiano ce ne saranno altri cento. E’ ovvio che non può essere il bastone la nostra e la loro liberazione. E soprattutto sarei io e il mio pensiero la stampella della criminalità organizzata? Scusatemi, io auguro a Saviano di vivere centanni e godersi quello che si è guadagnato. Ma lasciatemi per centanni la possibilità a me e ad altri pochi «deficienti invidiosi» di ragionare da comunista e di poterlo scrivere. Nel caso contrario, visto che la gogna è già partita, la solidarietà della sinistra radicale voglio sperare che arrivi a me. Se no vuol dire che ho buttato via una vita di lotta militante per niente.

Daniele Sepe, "il manifesto", 6 giugno 2010

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