11.1.11

Su Gozzano. La canzone di Piccolino. (S.L.L.)

E' questo il primo capitolo di un mio antico libretto, Il secolo morente, ovvero la fine delle lezioni, edito dalla Giada di Perugia nel 2000, una sorta di lezione su Colloqui di Guido Gozzano. La copertina, qui sotto, è opera di Stella Basile, la mia cara allieva Stellina che me ne fece dono. (S.L.L.)
1.
La canzone di Piccolino è una delle poesie composte da Guido Gozzano per il “Corriere dei piccoli”. È meno nota dell’altra, La Notte Santa (“Consolati Maria del tuo pellegrinare…”), che tanti hanno imparato a memoria nelle scuole elementari. I due testi presentano un identico meccanismo compositivo. L’orfano Piccolino è respinto dal fornaio, dal re, dalle palle di cannone, perfino da San Pietro, “portiere d’umor tetro”, così come la coppia Giuseppe-Maria è sistematicamente allontanata da osti e albergatori, sospinta ai margini, in una stalla. Il finale è consolatorio. In Piccolino Gesù Cristo in persona cala dal trono a pretendere per il reietto un posto speciale in Paradiso; nella Notte Santa Maria “trascolora, divinamente affranta”, mentre scocca la mezzanotte. C’è tuttavia una differenza: la ricompensa della Madonna è reale e il suo trascolorare segnala un’effettiva liberazione; di più incerta interpretazione è invece la sorte di Piccolino.
È davvero felice la conclusione che lo vede stretto sotto il manto di Gesù? L’abbraccio dei potenti è soffocante e le loro attenzioni possono uccidere; a maggior ragione quelle degli onnipotenti.
Il calzolaio Tinchione è protagonista di una fiaba siciliana raccolta dal Pitrè. Ama la moglie alla follia, la copre di baci a tavola, al banco di lavoro, per strada: è il signor Bacia Bacia. Una notte lo prende come un delirio: stringi e bacia, bacia e stringi. La donna lo lascia fare, pensa che sia la forza della sua passione. Ne muore asfissiata. Da qui il detto “le carezze di Tinchione che ammazzò la moglie con i baci”. Morale: certi amori sono pericolosi, tolgono l’aria, talvolta la vita. Gozzano lo sa e questo rende ambiguo l’epilogo di Piccolino.
Ambigua, del resto, è solitamente la sua poesia: crudeltà e pietà, verità e menzogna formano un tutto inscindibile. “Quello che fingo d’essere e non sono” recita un verso memorabile della Signorina Felicita, il testo di Gozzano più noto e programmatico. Non si riesce quasi mai a capire se faccia sul serio, finga o finga di fingere, in un gioco di specchi che dissipa l’identità.
Rifiutata dal sistema ufficiale delle lettere, sedotto dal sublime e dall’altisonante, la poesia gozzaniana trova un’insegna nell’orfano della filastrocca ed il suo motto in “piccolo è bello”. Gli ambienti e i temi sono, infatti, rigorosamente privati e privi d’esemplarità. Il linguaggio è dimesso, spesso prosaico, ma al suo interno citazioni d’autore e termini aulici, recitati come in falsetto, s’insinuano a provocare “cozzi” e a determinare una letterarietà resistente, esibita, seppure con imbarazzo (“Io mi vergogno d’essere un poeta”).
La “piccola voce”, come il “cannocchiale rovesciato” di Pirandello, ridimensiona quel poco che rimane d’alto ed insigne. Tra i filosofi prediletti, familiarmente chiamati Arturo e Federico, Nietzsche è addirittura posto in rima con camicie e gli schieramenti politici sono ridotti a “formiche rosse” e “formiche nere”. Talora sono le parole dei personaggi a rimpicciolire i valori grandi o presunti tali. Felicita, osservando in effigie l’alloro sul capo del Tasso, domanda: “…perché su quelle teste buffe si vede un ramo di ciliegie?”.

2.
Il libro più importante di Gozzano, i Colloqui, inizia con una dichiarazione solenne: “Venticinqu’anni!… Sono vecchio, sono vecchio!”. Forse non parla soltanto di sé, ma dell’Europa, che, nonostante la belle époque e le meraviglie della tecnica, è attraversata da un senso di decrepitezza e subisce una sorta di sdoppiamento: guarda vivere se stessa, mentre il sole declina sul suo cielo grigio.
Tra le prime poesie della raccolta è Le due strade. Qui, in uno scenario di turismo alpestre, la voce recitante di un “avvocato”, proiezione dell’autore, espone il dilemma: da una parte la Signora “da troppo tempo bella e non più bella fra poco”, dall’altra Graziella, la Signorina in bicicletta, “forte bella vivace bruna e balda”. Sceglie la vecchia: non giova tentare una vita nuova, quando destino e dovere forzano alla Morte, al Niente, con la maiuscola. Il finale è ancora una volta ambivalente: la decisione del protagonista s’associa al rimpianto di un Dolore o di una Felicità, cui sembra avere deliberatamente rinunciato. L’acceso colorismo e l’aroma opimo dell’amalgama stilistico rendono il testo assai poco crepuscolare. Il poeta si cimenta con la descrizione, la narrazione e la riflessione, rallenta ed accelera, trascorre dal colloquiale all’aulico, passando per l’arcadia romantica. Il passo di più compiaciuto decadentismo ha sapore dannunziano, rammenta Il Fuoco e la Foscarina (“Sotto
l’aperto cielo, presso l’adolescente/ come terribilmente m’apparve lo sfacelo!”, con quel che segue). Al divino Gabriele rimanda, del resto, anche la struttura dei Colloqui, romanzo in versi come il Poema Paradisiaco o l’Alcyone. Nella prima parte, Il giovenile errore, si raccontano i tentativi di una vita piena e ricca e le tentazioni di morte. La seconda, Alle soglie, vede il protagonista ancora in bilico. Qui gli amori sono fatti di sogno o di rimpianto: Felicita, ordinaria, sempliciotta e quasi brutta, Carlotta, l’amica della nonna rievocata per mezzo di una sbiadita fotografia, la cocotte conosciuta da bambino. La terza ed ultima sezione, Il reduce, rappresenta la definitiva rinuncia e la volontaria reclusione del protagonista. Occupato nelle sue “piccole fedi”, le farfalle, i versi senza ambizioni, egli lascia trascorrere il tempo.
Dal velleitarismo alle dimissioni, i Colloqui tramano la storia di un dannunzianesimo rientrato ed è singolare capriccio del destino che la vicenda del D’Annunzio in carne ed ossa, la vita del vate multanime costruita come un’opera d’arte, si concluda anch’essa con una reclusione, non si sa quanto voluta.
Divergenze e prese di distanza si captano già nella prima parte della raccolta, quella più aderente al modello, non solo in una trasparente parodia come l’Elogio degli amori ancillari, ma anche nelle “poesie della vacanza”. Al modo di D’Annunzio i luoghi sono quelli dell’ozio e dello svago, spiagge, paesaggi alpini, cascine, ville, boschi, impianti sportivi. Non c’è (per fortuna) il troppo dannunziano: gli arredi troppo preziosi, i broccati troppo pesanti, i vestiti troppo eleganti. Il vate portava nella vita e nell’arte la famelicità della giovane borghesia meridionale, che conservava spesso uno stile di vita da parvenu anche quando la ricchezza non fosse recentissima. Gozzano è spesso fotografato in abiti e pose da dandy, ma lo sguardo esprime il relativo distacco di una borghesia più matura e parca.

3.
In Invernale il protagonista è sfidato da una donna a continuare la corsa sui pattini, nonostante l’incrinatura del ghiaccio e la fuga dei compagni. Il coraggio gli dura poco: rientra nei ranghi, mentre, “bella ardita palpitante”, l’amica seguita a raccogliere il volo. Come nelle Due strade, l’immagine di una donna moderna, libera e sportiva incute insieme desiderio e timore.
È tipico della letteratura italiana tra Otto e Novecento: così la tonica maestra Pedani del deamicisiano Amore e ginnastica, piena di scienza e impegnata nella sua realizzazione professionale, o anche la più sfuggente Angiolina della Senilità di Svevo. Non sono, come ai tempi del romanticismo, le donne fatali dalla bellezza medusea a mangiarsi gli uomini. La bocca della Cocotte, è “tanto, tanto diversa dalla bocca di mia Madre”, ma suscita solo attrazione. La Risorta in guaina rosa e sottana frusciante, dalla chioma ondosa chiusa nel casco enorme, dalle labbra sagaci, cupida di pendenti, che viene a turbare l’eremo del reduce, è oggetto di un repentino, ma effimero impulso sessuale: non fa paura. A generare smarrimento sono piuttosto donne emancipate, ma già normali, prefigurazioni di un processo di liberazione ancora agli albori.
Femminilità, giovinezza e salute inquietano il maschio intellettuale e borghese, che già per proprio conto avverte in sé vecchiaia e malattia.

4.
Anche L’assenza richiama la villeggiatura: la casa signorile, un viale, un parco, lo stagno dove tace la rana. La donna è andata via, ma il luogo è pieno del ricordo di lei: il bell’abito grigio, l’uncino, i romanzi. È proprio l’assenza, l’attesa a spingere l’uomo a guardarsi intorno.
Da questo punto il termine di paragone di Gozzano non è più D’Annunzio, ma l’altro nume tutelare della poesia italiana tra i due secoli. L’impressionismo, l’uso/abuso dell’analogia, la tecnica per cui le qualità diventano oggetti (“Ma guizza un bagliore/ d’acceso smeraldo, di brace/ azzurra: il martin pescatore...”) riecheggiano, infatti, il Pascoli di Myricae, al quale rinvia la dichiarazione finale: “E non sono triste. Ma sono/ stupito se guardo il giardino.../ stupito di che? non mi sono/ sentito mai tanto bambino...”.
L’allusione è perspicua, la distanza è enorme.
C’è nel “fanciullino” pascoliano la meraviglia di chi mira il mirabile: il poeta, attraverso la regressione all’infanzia, pretende di ritrovare i sottili nessi tra le cose, di rinominarle, di intuirne i sensi nascosti, aspira a reincarnare, per questa via, il poeta vate. Il bambino di Gozzano prova invece lo stupore dello stupido, ha lo sguardo inespressivo di chi è sorpreso e non comprende. Gli oggetti ci sono nella loro bruta esistenza, nella loro “datità”, non alludono ad altro, non comunicano messaggi, non costituiscono simboli. La parola che li dice non può dunque svelare segreti, scoprire mondi, inventarne. Al massimo, ed è già tanto, può restituire un’emozione. Pascoli e, a maggior ragione, D’Annunzio (per il quale dire è creare), non ci sono già più, sta arrivando Montale.

5.
Quasi alla fine dei Colloqui, in Una risorta, un piccolo museo, di storia naturale, è pieno di cristalli, sali, crisalidi. Forse, insinua il poeta, sotto la parvenza dell’inerzia si svolge una vita intensa, misteriosa. Ma l’illusione manca ben presto, la chiusa illumina il tutto di una luce sinistra (“simile a chi sognando desidera sognare”). Una nuova vitalità dell’Europa in letargo è come il sogno di un sogno.
È proprio il museo un altro dei luoghi in cui Gozzano incontra D’Annunzio. Il poeta soldato erigerà intorno a sé un Vittoriale che è segno di sconfitta. Armi, aerei, motti e cimeli di guerra, libri, stampe, incunaboli e simboli religiosi, seggi, scrivanie, talami e tappeti ambiscono a trasmettere l’esempio di un’esistenza speciale, ma risultano depotenziati e inespressivi. La mancanza d’ironia con cui sono assembrati li renderebbe ridicoli, se non si pensasse ai danni prodotti dalla favola dell’eroe.
Il “vate”, riattivando mitologie in gran parte isterilite, si proponeva di radicare la Bellezza nel mondo del mercato, dell’industria e della tecnica. L’elaborazione incessante d’immagini aveva lo scopo di estetizzare il moderno, di renderlo tollerabile perfino nei suoi aspetti di violenza distruttiva, al costo di sopprimere l’interiorità. Ma la realizzazione del progetto non poteva essere che effimera. Il fascino esercitato dalla vena inesauribile dell’“immaginifico” produsse soltanto una moda. E le mode passano.
A volte ritornano (c’è un che di dannunziano nel postmodernismo di fine millennio), ma passano. Già Gozzano guarda all’opera del divino Gabriele come ad un museo degli orrori. I musei che a sua volta fabbrica, la Villa Amarena di Felicita con il suo odore d’ombre e il solaio invaso da rifiuti secolari, il salotto di nonna Speranza con le “buone cose di pessimo gusto”, costituiscono un’anticipata parodia del Vittoriale. Il passato non lascia eredità fruibili, solo impotente nostalgia.
I futuristi, contro D’Annunzio, ritengono la modernità bella in sé, capace di generare da sé nuovi miti ed immagini, rumorosamente proclamano di voler demolire biblioteche e musei, equiparati a cimiteri, di volere annullare il passato. La memoria del secolo lascia tuttavia intendere che tra avanguardia e museo vi sia parentela stretta. Il più celebre mito di fondazione modernista narra, infatti, di un giovane pittore spagnolo che, a Parigi, ancora incerto della sua strada, entra nelle sale del Trocadero piene d’oggetti africani e rimane fulminato. Quando ne esce, è iniziato il Novecento.
L’aneddoto è stato smentito dallo stesso Picasso, ma non importa la sua verità, la sola esistenza basta a far sospettare connessioni impreviste.

Nota
I testi di La notte santa e La canzone di Piccolino si ritrovano in questo stesso blog: http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/12/la-notte-santa-la-celebre-poesia.html ;
L’intero libro dei Colloqui è rintracciabile nel seguente sito: http://www.math.unipd.it/~candiler/gozzano/colloqui.htm.
Di Guido Gozzano potete leggere nella rete anche una  bella pagina di un suo reportage dall’India: http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/08/in-viaggio-verso-delhi-due-pellegrine.html.

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