28.5.11

"Io non sono mai stato bambino" (di Giovanni Papini)

Nei licei di provincia fino agli anni 50 e 60 Papini godeva di una fama di stilista principe, quasi quanto D’Annunzio. Non è che lo si leggesse istituzionalmente: i figli della piccola e media borghesia lo scoprivano nelle biblioteche dei padri e degli zii e se ne innamoravano.
I più lo amavano per la sua incostanza: è simpatico al borghese di provincia il giovane incendiario che invecchiando si fa pompiere, o il teppista che diventa, nello stesso tempo, prete e gendarme e tutt’al più condisce il suo clerico-sbirrismo con una sorta di anticonformismo di maniera, di dannunzianesimo fuori contesto. Altri, i meno, lo amavano nonostante la sua incostanza negli ideali e negli atteggiamenti: “fu un cattivo soggetto ma quanto scrive bene”.
Io appartenevo alla seconda categoria di ammiratori, ma ero un vero fan. Al punto che di quella sua storia letteraria ferma al Trecento e dedicata a Benito Mussolini (“amico della poesia e dei poeti”) “che descrive e illustra una delle più vaste province dell’impero spirituale italiano” imitavo le movenze nei temi letterari, applicandole ad autori più recenti e come Papini vituperando i “topi di biblioteca” e “le nottole della filosofia”, cioè i critici filologi del positivismo e i critici estetici d’indirizzo crociano. Crescendo, come quasi tutti, giustamente mi disamorai di quel suo stile scoppiettante, tutto fumo e niente arrosto.
Solo poco tempo fa, invecchiando, mi è venuta la voglia di riprendere in mano Papini. Ho cominciato, paradossalmente, da Un uomo finito, una sorta di bilancio di una vita e di addio alla gioventù, scritto a 31 anni nel 1912, libro finto quant’altri mai. Ho riletto le prime pagine e mi hanno impressionato: scrive bene, perdio. Mi dispiace ammetterlo, ma scrive bene. E’ questa la ragione per la quale recupero quell’incipit, un tempo famoso, citato, imparato a memoria, oggi quasi del tutto obliato, scappato perfino alla rete che raccoglie di tutto. (S.L.L.)
Io non sono mai stato un bambino. Non ho avuto fanciullezza. Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell’innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell’universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento. L’ho sapute da libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo: l’ho sentite e provate per la prima volta in me passati i vent’anni, in qualche attimo felice d’armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, letizia, spensieratezza ed io mi vedo nel passato, sempre, separato, meditante.
Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso – né so il perché. Forse perché i miei erano poveri o perché non ero nato come gli altri? Non so: ricordo soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei o sett’anni e che tutti i parenti l’accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo anche con gli altri ragazzi: i complimenti mi davan noia; i gestri mi facevan dispetto; e al chiasso sfrenato dei compagnucci dell’età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa  piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le signore col cappello chiamano un bambino scontroso e le donne in capelli un rospo.
Avevan ragione: dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo che sentivo benissimo intorno ame questa antipatia la quale mi faceva più timido, più malinconico, più imbronciato che mai.
Quando mi ritrovavo per caso con altri ragazzi non entravo quasi mai nei loro giochi. Mi piaceva star da parte a guardarli coi miei occhi verdi e  seri di giudice e di nemico. Non per invidia: era piuttosto disprezzo quel che sentivo dentro in quei momenti. Io li sfuggivo e loro mi trascuravano; non li amavo e mi odiavano. Fuori, nei giardini, chi mi scacciava e chi mi rideva dietro; a scuola mi tiravano i riccioli e mi accusavano ai maestri: in campagna, anche in villa dal nonno, i ragazzi dei contadini mi tiravan le sassate, senza che avessi fatto nulla a nessuno, quasi sentissero ch’ero di un’altra razza. I parenti m’invitavano o mi carezzavano quando proprio non potevan farne a meno, per non mostrare agli altri una parzialità troppo indecente, ma io m’accorgevo benissimo della finzione e ad ogni loro parola rispondevo sgarbato e acerbo….

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