14.12.11

Dai "Frammenti del terzo diario" di Max Frish

Da "il manifesto" del 5 dicembre 2011 riprendo due brani di Max Fish da un libro appena pubblicato da Casagrande, preceduti una breve nota esplicativa tratta dal quotidiano. (S.L.L.)
Nota
Redatto sullo scorcio dei primi anni Ottanta ma pubblicato, dopo un clamoroso ritrovamento, solo l'anno scorso dalla Suhrkamp di Francoforte, Frammenti di un terzo diario (a cura di Martino Patti, Edizioni Casagrande, pp. 220, euro 18) raccoglie centocinquanta frammenti nei quali Max Frisch alterna coraggiose incursioni nell'ambito privato (sulla vecchiaia, l'amore per Alice Locke-Carey, di trent'anni più giovane, l'impotenza sessuale, la dipendenza dall'alcool, e non da ultimo sulla morte: rivissuta attraverso un commovente dialogo con l'amico Peter Noll, travolto da un cancro nel pieno delle sue attività) a riflessioni di più ampio respiro, intessute talvolta con efficace piglio aforistico e ancor oggi di immutata attualità.
Caustica e lapidaria come di consueto, l'azione critica di Frisch si sofferma così su una serie di direttrici tematiche che il lettore non faticherà a riconoscere. Fra di esse vale la pena segnalare l'antiamericanismo e la corsa al riarmo atomico fomentata dal presidente Reagan, l'idea di libertà entro l'orizzonte della società capitalistica, i contenuti e le concrete ripercussioni per la vita delle donne delle battaglie combattute dal movimento per l'emancipazione femminile, il militarismo, la crisi delle Falkland, il ruolo di prevaricazione esercitato da Israele sullo scacchiere medio-orientale, l'antisemitismo, il cristianesimo, ma soprattutto la minaccia atomica, non più soltanto di origine militare.(L.G.)
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Il nostro turismo, le nostre televisioni, l'alternarsi delle nostre mode, l'alcolismo, la tossicodipendenza e il sessismo, la nostra brama di consumo sotto il fuoco tambureggiante della pubblicità ecc. testimoniano la gigantesca noia che serpeggia nella nostra società. Come siamo potuti arrivare a questo punto? La colpa è di una società che produce morte come mai prima d'ora. Una morte priva però di trascendenza, e senza trascendenza esiste solo il presente, o per meglio dire: la finitezza della nostra esistenza intesa come vacuità - come impossibilità di agire e di pensare in prospettiva, prima che la morte sopraggiunga.
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Una volta, durante una gita di classe - visita alla chiesa del monastero di Wettingen, che il nostro maestro cercava di farci apprezzare sotto il profilo storico-artistico - mi fermo un momento e aspetto, fino a quando i miei compagni sono andati via e nessuno avrebbe potuto vedermi: è stata la prima e l'ultima volta nella mia vita in cui sono rimasto inginocchiato in una chiesa. È avvenuto tutto in modo spontaneo. Ma a pregare non riuscivo. Se non sono religioso è grazie al cristianesimo così come esso ci è stato insegnato: l'idea del peccato originale, la demonizzazione della carne - che pure il Creatore ci ha dato - e la rappresentazione del Creatore come giudice, dell'inferno come minaccia, del paradiso come premio per i poveri e per gli oppressi su questa terra. Ciò che mi ha segnato nel profondo, senza però fare di me un credente: il Discorso della montagna.

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