16.2.12

Contro il Sessantotto (di Luigi Cavallaro)

Questo articolo di Luigi Cavallaro esplicita ed estremizza posizioni che il magistrato-economista, assiduo collaboratore de “il manifesto”, aveva più volte espresso. Per lui il cuore del movimento del Sessantotto è rappresentato dalle rivendicazioni di “libertà”, dall’antiautoritarismo, antistatalismo e antiistituzionalismo individualistico, che unificano la “generazione ribelle” e preparano l’avvento del neoliberismo con la distruzione dello “stato sociale” e dello “Stato” tout court.
L’occasione dell’intervento è un articolo di Viale, che lamenta trasformismo e asservimento al potere finanziario ed economico dell’intellettualità. Le tesi di Cavallaro a me sembrano unilaterali e sbagliate, sostenute come sono da un (legittimo) disprezzo e risentimento contro gli approdi di alcuni tra gli esponenti più in vista della cosiddetta “generazione del Sessantotto”. Credo che soprattutto sia un errore leggere quel movimento come un tutt’uno, non vedere le sue contraddizioni interne e le forme assai diverse della sua durata ed eredità, ridurlo ad alcune parole d’ordine suggestive e di successo. Sull’intervento “di piede” di Cavallaro è nata, sulle pagine del “quotidiano comunista”, una polemica. Particolarmente significative mi paiono la replica di Viale e la rilettura in chiave gramsciana della questione di Prestipino. (S.L.L)

Postati su questo blog si ritrovano entrambi gli interventi di risposta a Cavallaro ai seguenti link:
Vedi anche questa mia “battaglia” da “micropolis”:

Non credo che il problema di questo Paese sia un generico «servilismo», come recentemente sostenuto su queste colonne da Guido Viale. (il manifesto 29/4) Tanto meno credo che codesto «servilismo» non abbia a che fare con le rivolte del '68 contro l'«autoritarismo» e per «la conquista di una propria autonomia personale». Mi pare piuttosto di poter dire che l'origine dei nostri problemi risieda precisamente nel rapporto tra le aspirazioni giovanili della generazione del '68 e le concretizzazioni reali della sua maturità.
È un fatto difficilmente contestabile che, attualmente, le leve del potere dell'industria culturale stiano tutte in mano a (tardi) esponenti della «generazione ribelle», equamente distribuiti fra «destra» e «sinistra». L'editoria più importante non pubblica se non ciò che si richiama alla loro costellazione valoriale. In televisione, occupano la scena come anchor-men (o women) o come ospiti dotati di diritto di parola. Beninteso, qualche spazio letterario o qualche comparsata televisiva si concede anche agli extranei, ma a condizione che i beneficati non pretendano di obiettare all'idealismo (in senso gnoseologico) dei depositari del logos.
Dal punto di vista economico e politico la situazione non è differente. Anagraficamente parlando, infatti, le leve del comando stanno in mano ai baby-boomers: sono statisti, dirigenti d'impresa, leader sindacali et hoc genus omne. E anche qui l'accesso dei più giovani ai gradini più elevati della piramide sociale avviene rigorosamente per cooptazione: una cooptazione che, manco a dirlo, presuppone l'adesione incondizionata ai valori di riferimento dei «padri» (e delle «madri»).
Ora, il problema della generazione del '68 è che non sa spiegarsi come mai, una volta ascesa al potere economico, culturale, sociale e statuale, la nostra società abbia preso a declinare (in termini morali e sociali) e a decrescere (in termini di Pil). Non le torna, ad esempio, che i suoi figli debbano acconciarsi ad un futuro - che per molti è già presente - di precarietà lavorativa e progressiva erosione delle tutele del welfare, che diventa perfino drammatica quando si pensa che un trentenne di oggi avrà una pensione pari al 30% del suo (miserabile) reddito. Ancor meno le torna, per fare solo un altro esempio, che l'auspicato superamento delle costrizioni edipiche della «società disciplinare» si sia tradotto in un allentamento così marcato del controllo sociale diffuso che il 30% del nostro Pil è un'opera al nero. E proprio perché non ne capisce le cause, finisce col proiettarle all'esterno: «È colpa della globalizzazione», dicono Veltroni e Fassino agli operai costretti a sottoscrivere un accordo-capestro; «è colpa degli immigrati», dicono i leghisti ai cittadini del Nord che vedono crescere disoccupazione e criminalità; «è colpa delle mafie», dice Saviano a quelle residue minoranze del Mezzogiorno per le quali disoccupazione e criminalità rappresentano ancora un problema; «è colpa del capitale e dello stato», ripetono gli «antagonisti» di stretta osservanza settantasettina prima di proporci il loro ennesimo «oltre» - questi mitici «beni comuni», che non si sa bene cosa diavolo sono, ma solo ciò che non sono.
Ma la massima colpa, ai loro occhi, ce l'ha indubbiamente Berlusconi. È il premier, infatti, che ha stravolto il significato delle loro antiche parole d'ordine: è colpa sua se «vietato vietare» è stato tradotto in «laissez-faire» e «l'immaginario al potere» è diventato il potere dell'immaginario televisivo; è colpa sua se «il personale è politico» oggi si declina attraverso Chi, Kalispera e le leggi ad personam o se l'esaltazione marcusiana di Narciso e del «libero amore» si è incarnata nel farsesco postribolo di cui raccontano i media.
Un secolo di psicoanalisi ci ha insegnato in cosa consistono i meccanismi proiettivi e soprattutto a cosa servono. Proprio per ciò, i post-sessantottini si guardano bene dal chiedersi in che modo ciò in cui hanno creduto e credono (e soprattutto ciò che hanno fatto dal 1989 a oggi) possa essere considerato come una premessa causale efficiente dell'oggi. Viale non fa eccezione: nonostante ammetta che alla deriva attuale hanno concorso «dal basso» le responsabilità di molti «arzilli vecchietti» che quarant'anni fa stavano sulle barricate, non si chiede se ciò non si debba al fatto che, nelle loro parole d'ordine, la (giusta) critica dei limiti dati abbia assunto inopinatamente la forma di una critica dei limiti in quanto tali. Non si domanda se la critica della stessa idea di «limite» non debba essere considerata all'origine della caduta del desiderio che viviamo nella nostra contemporaneità, sebbene un'ampia messe di studi abbia ormai delucidato il rapporto fra «libertà» e depressione, giungendo a configurare quest'ultima come una vera e propria contropartita della «sovranità individuale». Ancor meno si chiede quanto quella critica abbia concorso sul piano simbolico a rovesciare i rapporti di dominio e subordinazione fra stato e mercato che erano stati codificati nella nostra Costituzione formale e materiale. (Per inciso, apro l'ultimo numero di Alfabeta2 e leggo che Toni Negri proclama che «essere comunisti è essere contro lo stato». Perbacco, mi vien da dire, vuoi vedere che da trent'anni ci sono i comunisti al potere e io non me ne sono accorto?). Proprio per ciò Viale non può comprendere il nesso fra le sue rivendicazioni giovanili di «libertà» tout court, la riaffermazione del meccanismo della competitività e il servilismo diffuso come suo sbocco necessario.
Non vorrei essere frainteso. So bene che chiamare la generazione del '68 a rispondere delle miserie dell'oggi implica l'utilizzo retorico di quel medesimo meccanismo proiettivo che consente ai sessantottini di autoassolversi: Marx ci ha spiegato che ad un'osservazione più attenta si vedranno agire situazioni dove sembrava che agissero solo persone. Ma questa è giusto l'antitesi dell'idealismo: si chiama materialismo storico - e guarda caso, quella generazione «formidabile» non l'ha mai potuto soffrire.
Post scriptum. Qualche tempo fa, Ida Dominijanni (Berlusconi, il Grande Altro e il 68, 2/3/2010) e Rina Gagliardi (Non nasce nel '68 la libertà di Berlusconi, 10/3/2010) mi hanno rimproverato per aver ipotizzato questo rapporto di continuità storica tra la «libertà» invocata dai sessantottini e il liberismo economico moderno. Spero di essere perdonato se insisto, ma sono sempre più convinto che la «libertà» è una rivendicazione borghese, tipica di chi s'immagina degli individui tali per natura, che troverebbero in se stessi tutto ciò di cui abbisognano per godere se solo gli si togliessero i «lacci e lacciuoli» che di fatto glielo impediscono. Non a caso la sinistra comunista preferiva dire «liberazione»: perché quest'ultima alludeva ad un processo in cui gli individui avrebbero lentamente imparato a sottomettersi collettivamente le condizioni della propria riproduzione, riducendo mano a mano il tempo di lavoro all'uopo necessario e dedicando il tempo eccedente all'acquisizione di corrispondenti capacità. Che ciò richiedesse un certa idea dello stato, del «limite» e della necessità della relazione con l'altro mi pare evidente. Se fosse compatibile con le aspirazioni sessantottine non sono io a doverlo dimostrare: per me valgono le dure repliche della storia.

il manifesto 13 maggio 2011





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