16.2.12

Il '68 e dopo, a scuola da Gramsci (di Giuseppe Prestipino)

Questo magnifico articolo, di Giuseppe Prestipino, fu sollecitato, nel maggio 2011, dalla polemica scatenata da un intervento di Luigi Cavallaro contro i sessantottini, fattisi complici e artefici della grande controrivoluzione neoliberista, magistrato, giurista ed economista anche per l’originaria ambiguità delle loro parole d’ordine. Aveva già risposto Guido Viale, mostrando con elementi fattuali come, al di là delle parabole opportunistiche dei capi, l’eredità del sessantotto fosse soprattutto la diffusa resistenza al neoliberismo presente nelle pieghe della società italiana, nel pubblico (scuola sanità, magistratura) come nel privato (impresa cooperativa e no animata dalla cultura ecologica e del limite). (S.L.L.)

Ecco i link sui testi della polemica
Sull’argomento vedi anche questa mia “battaglia” su “micropolis”.


Ancor prima che il capitalismo come sistema economico riconquistasse tutto il mondo, facendosi globale a tutti gli effetti, il mondo fu conquistato da una ideologia, il neoliberismo, che poté egemonizzare il senso comune di massa, ben più di quanto non avessero potuto il catechismo sovietico (dal diamat al mito della pianificazione centralizzata) o l'eresia maoista (la rivoluzione permanente detta culturale), il molto meno rilevante terzomondismo patrocinato dall'autogestione titoista o la quasi irrilevante "terza via" eurocomunista.
Alcune parole d'ordine del '68 avevano, inconsapevolmente, preparato il terreno, tra le giovani generazioni, al nuovo corso neoliberista, come sostiene Luigi Cavallaro (il manifesto, 13 maggio 2011)? Si può dire, al contrario, che alcune parole della rivoluzione passiva neoliberista ricalcano parole sessantottesche, appropriandosi del loro contenuto "rivoluzionario" per rovesciarlo. La domanda può essere formulata con l'abusato paragone conviviale: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? O con un paragone militaresco: l'annessione delle speranze sessantottesche da parte della cultura neoliberista venne dalla debolezza del Sessantotto combattente o dalla forza dei nuovi eserciti neoliberisti?
Luigi Cavallaro conosce l'opera di Antonio Gramsci quanto me. Soffermiamoci allora, dapprima, sui "rapporti di forza", ai quali l'autore dei Quaderni guarda con attenzione. Il sessantottismo in senso lato perde il suo originario vigore anche per il venir meno dei suoi referenti nazionali e soprattutto internazionali: di quelli con i quali tendeva a identificarsi (ad esempio, un certo maoismo), di quelli contro i quali pronunziava nettamente la sua condanna (lo stalinismo) e di quelli che sfidava con una critica meno ostile o con una sua riluttanza al dialogo o al confronto (in Italia, il Pci). Si aggiunga la disfatta di quel movimento operaio che era stato il principale alleato, o persino il modello sottinteso, di una gran parte del moto giovanile nella sua vocazione "consiliare", anti-fordista e, appunto "operaista". Si determinano, a questo punto, le condizioni oggettive per una crisi materiale, organizzativa e ideologica dell'antagonismo novecentesco nel suo complesso. E' chiaro che il fattore decisivo è nel nuovo capitalismo rimondializzato e trionfante.
Sui rapporti di forza possiamo non aggiungere altre notazioni. Ma la riflessione gramsciana sulla sconfitta subita, nel suo tempo, dalla rivoluzione in Occidente ci conduce a due categorie interpretative esemplari: alla "rivoluzione passiva" e alla lotta tra "egemonie culturali". La rivoluzione passiva del capitale snerva l'avversario, lo paralizza, lo frantuma, lo risospinge in una fase disorganica e quindi imbelle, proprio incorporando e assimilando, in forme distorte, e talora "capovolte", alcune istanze persino programmatiche dell'avversario. Marx aveva scritto sul "comunismo del capitale". L'internazionalismo del capitale odierno non è quello descritto dallo stesso Marx nel 1848. E' un internazionalismo che viene dopo quello dei "proletari uniti", e gli risponde rovesciandolo. Incorporare elementi dell'avversario significa anche, per Gramsci, cooptare nel sistema dominante dirigenti rappresentativi della parte avversa, indurli a "cambiare casacca" e persino ad agire e a imbastire "narrazioni" contro i vecchi compagni. Gli ex sessantottini (ma non anche gli ex Pci e ex Psi?) che Cavallaro disprezza giustamente perché convertiti, promossi o foraggiati dall'odierna democrazia personalizzata, dal neoliberismo autoritario e insieme eversivo, hanno i loro progenitori in quella sinistra storica della quale Gramsci ricostruisce una triste vicenda risorgimentale e post-risorgimentale, caratterizzata anche dal trasformismo di capi fattisi colonialisti e parte attiva nelle repressioni dei moti popolari.
Infine, ragioniamo sulle "egemonie culturali". Il capitale globale dei nostri giorni ha imparato la lezione gramsciana meglio di coloro che si professano comunisti o che provengono dal partito di Gramsci, ancorché mutanti a seguito di un loro peregrinare piuttosto accidentato. Il capitale globale ha capito che, nel moderno e ancor più nel tardo-moderno, la partita si gioca principalmente sul terreno culturale. Già negli anni della guerra fredda la Cia aveva compreso che, per vincere, era necessario spendere somme enormi per la diffusione di messaggi attraverso i quali celebrare l'immagine di un modello di vita (occidentale) come superlativo, insuperato e insuperabile oggetto del desiderio. Il desiderio consumista, in alternativa al verbo produttivista, nasce in quegli anni. E a partire da quegli anni riesce a carpire, e a stravolgere, l'idea di libertà.
Cavallaro dice bene sui significati ambigui e anche perversi che il concetto di libertà può assumere, e condivido che libertà e liberazione debbano considerarsi una cosa sola. Ancora una volta è Gramsci colui che ci spiega, contro Croce, che non ha senso parlare di un secolo della libertà (il XIX secolo liberale), ma che tutta la storia è storia della libertà, perché anche nella "satrapie orientali" vi furono fermenti di liberazione nei subalterni. Se per fine delle ideologie intendiamo, riduttivamente, la presunta fine della storia o la cancellazione del futuro, allora è vero che le ideologie sono finite anch'esse e che, almeno in casa nostra, di quelle novecentesche non vi è più traccia o quasi. Ma se ideologia significa, come per Gramsci, concezione del mondo capace di tramutarsi in senso comune di massa e quindi di modificare o conservare il mondo nella pratica o nella machiavelliana "realtà effettuale", allora il neoliberismo è una ideologia potente. Tanto potente che, in presenza di una crisi economica dagli esiti virtualmente catastrofici, la cultura capitalistica dispone di messaggi e di nuovi mezzi (mediatici) efficacissimi nell'operare la conversione a destra, al razzismo, al localismo, allo pseudo-individualismo anti-solidale o al neo-corporativismo, al clientelismo o al servilismo, della stessa massa immiserita, sfruttata e deprivata di ogni diritto civile, politico, sindacale.
In un recentissimo incontro di studiosi gramsciani, un giovane ha accennato a una proposta che traduco a modo mio. Si formi un gruppo intellettuale di nuovi illuministi, non più aristocratici come Voltaire, Montesquieu ecc., ma "borghesi" e capaci di lanciare, in un sofisticatissimo motore di ricerca informatico, una Nuova Enciclopedia, allo scopo non più di fugare, tra le vecchie e nuove plebi, l'oscurantismo delle superstizioni o delle credenze religiose, ma di far penetrare una nuova concezione del mondo proiettata, massimamente, verso un (nuovo) mondo futuro. Come "dipingerlo"? Apprezzare un dipinto è possibile se ne vediamo il tutto non disgiunto dai "particolari". Perciò gli utopisti scendevano nei dettagli delle loro Città del Sole o Nuova Atlantide ecc. Mi pare che, per noi, anche ideologia e utopia (come nel libro di K. Mannheim) debbano stare insieme. Senza darsi pensiero del "socialismo scientifico". E forse i giovani si risveglieranno.

"il manifesto", 20 maggio 2011

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