Recupero questo mio scritto d'occasione dalla rubrica "La battaglia delle idee" nel numero di "micropolis"del novembre 2008, ove apparve con un titolo diverso (L'anno più lungo). (S.L.L.)
Organizzata dalla Cgil di
Perugia si è svolta il 17 novembre una tavola rotonda sul tema 1968,
l’anno più lungo del secolo breve. Coordinati da Fabio
Mariottini, direttore di "micropolis", ne hanno ragionato
il segretario della Camera del Lavoro provinciale Mario Bravi e gli
storici Sandro Portelli e Renato Covino. Nel titolo la chiave del
discorso a più voci: oggetto del dibattere non è l’“anno
fatidico”, ma un arco di tempo più ampio, che si apre nei primi
anni sessanta in America e si chiude intorno al ’78, dopo il
delitto Moro.
L’impostazione evita la
caduta nel “reducismo” che imperversa, di volta in volta epico,
autoironico o melanconico. Diverte peraltro un siparietto. Da una
parte Portelli: “Nel Sessantotto non c’ero, facevo il militare a
Pozzuoli”; dall’altra Covino: “Io c’ero, ma per quelli che ci
raccontavano di aver fatto la Resistenza usavamo slogan pesanti, che
chiedevano conto del dopo”. Per tutti i relatori la spinta iniziale
del 68 è la tensione antiautoritaria che percorre molti pezzi di
società nell’Occidente capitalistico (dai neri d’America agli
abitanti delle periferie parigine o romane, dagli operai di molti
paesi alle donne di tante estrazioni e condizioni) e mette in
discussione gerarchie consolidate. La rivolta, spesso latente e
sempre frammentata, trova un catalizzatore nei moti studenteschi e un
tema unificante nell’opposizione alla guerra nel Vietnam.
Portelli, narratore
gioioso, rievoca, in particolare, la Convenzione del Partito
democratico americano, con le automobili della polizia venuta ad
arrestare i rivoltosi circondate per due giorni da un immenso sit-in.
A uno a uno, tolte le scarpe, vi salivano su studenti e studentesse
per “prendere la parola”. Ci sono venuti in mente I dieci
giorni che cambiarono il mondo di John Reed: in diretta, anche la
Rivoluzione russa appare una “presa della parola” più che una
“presa del potere”. Portelli ricorda anche il successo dalla
parola “contestazione”, che appunto significa una risposta
(denuncia) apertis verbis alle ingiustizie, alle magagne, alle
menzogne dei potenti.
La rappresentazione del
carattere democratico del movimento, della sua capacità di scuotere
ogni ambito della vita sociale percorre tutti gli interventi;
sorprende semmai, in una iniziativa della Cgil, il poco spazio
dedicato agli operai italiani, ai delegati di reparto, ai Consigli di
fabbrica. Covino avvia la riflessione più difficile: come, quando e
perché si chiude in Italia il “movimento” e quali effetti
lascia, quantificando le vicende personali delle “avanguardie di
massa”: qualche migliaio di giovani travolti dalle droghe;
altrettanti risucchiati dal terrorismo; altri, cambiando anche
radicalmente posizione, in carriera nell’imprenditoria, nelle
professioni, nel giornalismo; più numerosi quelli che scelgono
l’impegno nei partiti di sinistra o nel sindacato. Lascia filtrare
anche una domanda sulla durata e l’intensità del movimento nel
nostro paese. Non usa la categoria della “crisi di regime”, a lui
e a noi cara, ma ne accenna i contorni.
Alla seconda parte del
“68 lungo”, quella che si può considerare la sua parabola
discendente e fare iniziare con la strage di piazza Fontana del 12
dicembre 1969, ha dedicato Anni Settanta (Einaudi, 2007)
Giovanni Moro, sociologo politico e figlio di Aldo, un denso libretto
a nostro avviso sottovalutato perché impropriamente accostato ad
altri libri di figli di vittime della violenza politica. In realtà
il capitolo dedicato al “caso Moro”, influenzato dalla pietà
filiale, è la parte più debole del saggio che del decennio trattato
segna confini, indaga conflitti, disegna dinamiche e blocchi e
contiene una definizione della crisi che a noi pare perfetta: “…era
una specie d’inceppamento di tutti i meccanismi che fino a quel
momento avevano garantito uno sviluppo forse caotico ma impetuoso e
che, improvvisamente, non funzionavano più – penso anche per
incapacità di fare fronte ai loro stessi successi”.
Tra i conflitti ne
segnala specialmente uno, quello “di cittadinanza”, che riguarda
la democrazia come fatto quotidiano e ha per oggetto la
democratizzazione della vita quotidiana e dei rapporti sociali, cioè
cose come il sistema del welfare (sanità, casa, scuola, trasporti,
etc.), le relazioni tra Stato, corporazioni e cittadini, la famiglia
e la condizione della donna, il territorio e l’ambiente, il mercato
e il consumo. Ed è il “movimento”, più che il fragile
riformismo dei partiti, a determinare la lista delle“riforme”,
talora compromissorie e rabberciate, caratteristiche del “68
lungo”: sanità, psichiatria, aborto, consultori, equo canone,
statuto dei lavoratori, gabbie salariali, 150 ore, etc.. Sul
Sessantotto Moro avanza l’ipotesi di una divaricazione tra la
“superficie”, quelle che abbiamo definito “avanguardie di
massa”, e una parte sottostante, una sorta di fiume carsico che si
inabissa per esprimersi poi nel movimento delle donne, nella
partecipazione popolare nel territorio (i comitati di quartiere) o
nella scuola, etc. E’ forse lo stesso tipo di Sessantotto di cui
parla Portelli nell’incontro perugino, quando dà conto di una
ricerca romana fatta tra quelli che stavano nelle ultime file delle
assemblee e che parlavano poco anche prima che leaderismo e gruppismo
togliessero (di nuovo) la parola ai più.
Si scopre che la maggior
parte di loro lavora nel pubblico (medici, insegnanti, psicologi,
assistenti sociali, tecnici dell’ambiente, etc.) e che difende con
le unghia e coi denti quel tanto di socialità nel loro agire
quotidiano che non è stato distrutto dalla “lunga restaurazione”.
Ci viene in mente la poesia sulla Resistenza che Tobino usò come
premessa al suo romanzo Il clandestino, quella che comincia con “Era
un amore amici che doveva finire” e finisce con “Rimane in noi il
giglio di quell’amore”. Forse anche in quelli del 68 (in molti se
non in tutti) rimane il giglio di quell’amore.
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