16.2.12

Ottiero Ottieri, lo scrittore che fingeva di vivere (di Maria Giulia Minetti)

«Voglio essere un caso letterario, non un caso clinico»: così protestava sarcastico Ottiero Ottieri, autore anomalo, sopraffatto dalla sua fama di «narratore della psiche», insofferente della società libresca («scoglio a parte nella letteratura del secondo Novecento» come l’ha definito Andrea Zanzotto). Alle sue molte singolarità adesso Ottieri - nato a Chiusi nel 1924, scomparso a Milano nel 2002 - ne aggiunge una singolarissima: nel volume che gli dedicano i Meridiani Mondadori (Opere scelte), la «Cronologia», di fatto una corposissima biografia critica lunga più di settanta pagine, è firmata dalla figlia Maria Pace, scrittrice a sua volta ma, fino a poco tempo fa, tutt’altro che esegeta dell’opera paterna. «Mio padre ho cominciato a leggerlo tardi - informa -. Per difesa: dalla lettura in genere e dai suoi libri in particolare. Questo lavoro mi ha anche dato il modo di avvicinarlo come lettrice. Ora posso finalmente dire di conoscerlo».
Delle emozioni che questa conoscenza le ha dato, nella cronologia non c’è traccia esplicita. La parte emotiva, nel libro, la recita il curatore Giuseppe Montesano, che ha steso un’introduzione psicanalitica e lirica, appassionata: «Un uomo scrive, seduto a un tavolo che non è fatto per scrivere. L’uomo ha più di settant’anni, ma come un adolescente scrive di sodomie e amplessi. (…). L’uomo conserva le tracce di una bellezza che sul suo volto è esistita, una bellezza timorosa e avventata, ora distratta, ora insolente. (…). L’uomo moltiplica le parole come se potesse trasferirsi in esse, eppure pochi come lui sanno essere distaccati dalle proprie parole, altrove. Ma altrove dove? Se lo sapesse! È proprio questo che gli manca: un luogo dove possa vivere davvero…».
Preda di depressioni gravissime, sempre in analisi (il primo terapeuta sarà Cesare Musatti, l’ammirazione per Freud costante), frequenti ricoveri in clinica, Ottieri non può che scrivere «in» questa condizione, «da» questa condizione, «su» questa condizione. E lo fa in modo «impietoso», osserva la figlia. «Essendo la sua vita il soggetto della sua opera, era una persona condannata alla coscienza». Ma è proprio questa condanna a trattenerlo di qua dall’abisso: «Era come se la malattia gli garantisse una consapevolezza estrema e la possibilità in fondo di salvarsi proprio nel riuscire a oggettivare e descrivere il suo stare male».
Aggrappato alle sbarre della malattia, Ottieri si sporge verso il mondo che sta fuori. «Non riesce a mettercisi dentro, ma lo afferra molto bene - commenta ancora la figlia -. Lo guarda, lo osserva, lo capisce, lo sorveglia, a volte lo profetizza. Tutti i temi degli ultimi cinquant'anni sono presenti nella sua opera. Non c'è un altro scrittore italiano tanto aperto alla contemporaneità». Ha scritto Carla Benedetti in Ottieri, notissimo sconosciuto: «Di privato, nei suoi libri, c’è una cosa sola: il punto da cui muove la scrittura. (…). Ottieri nei suoi libri parla di un’infinità di cose: della fabbrica e della clinica, della malattia mentale e della questione meridionale, dell’ossessione e dell’alcolismo, dell’ansia e della dipendenza, degli psichiatri e dell’Italia, di Cassano e di Cossiga, della borghesia, degli imprenditori, delle infermiere, delle modelle, delle filippine, del jet set, del sesso e della morte (…). Ma Ottieri non scrive per guarire, scrive semmai per resistere, per resistere nella propria cocciuta "irrealtà"».
Una resistenza condotta con ogni mezzo letterario, passando per tutti i generi - il saggio, il romanzo, il diario, la poesia, il dialogo, il teatro, l’articolo di giornale -, adoperando una lingua classica molto colta e un continuo sperimentalismo, innestando la sua letteratura di gerghi: della fabbrica, della psicoanalisi, della pubblicità, della televisione.
I libri pubblicati in vita, dal primo Memorie dell’incoscienza (1954) all’ultimo Un’irata sensazione di peggioramento (2002), sono ventinove. Soltanto sei quelli compresi nel Meridiano. Una scelta difficile, in certo senso feroce, perché non è mai l’inclusione a rallegrare, ma l’omissione a dolere, come un arto amputato.
C’è Donnarumma all'assalto, 1959, il romanzo ricavato dall’esperienza di Ottieri capo del personale nella fabbrica Olivetti di Pozzuoli, che scopre la vulnerabilità di un’utopia razionale, illuminista: la salvezza attraverso il lavoro organizzato. C’è La linea gotica, taccuino 1948-58, che «registra la sconfitta di Ottieri e della sua scelta interiore per Milano e la classe operaia (…). Ma perdendo Ottieri si fa scrittore. La linea gotica è forse il suo libro migliore» scriverà Angelo Guglielmi quarant'anni dopo. C’è L'irrealtà quotidiana, 1966, saggio romanzesco su una condizione esistenziale che Valentino Bompiani sintetizza brutalmente così: «Ottiero Ottieri è nato scrittore. Nei periodi fra un libro e l’altro finge di vivere». C’è Contessa, 1975, dove è narrata la malattia di una terapeuta, con toni dolorosi, mondani e comici («Che cosa sarebbe accaduto se Cesare Pavese si fosse curato?» è il titolo della tesi di dottorato della terapeuta). C'è il torrenziale Pensiero osceno, 1996, dove «il protagonista è uno che vuole tutte le donne e tutti i ragazzi: il sesso come esempio della voglia di bersi il mondo, come desiderio di un'onnipotenza che ha rapporti stretti con l'impotenza». E c'è infine Cery, 1999, cronaca della guerriglia partigiana «felice e straziante» che il protagonista oppone ai medici di una clinica svizzera decisi a curarlo. Manifesto di irriducibilità, è la sintesi estrema di quell'Ottieri che, scrive Montesano, «a pochi anni dalla morte, allegro con disperazione, si proietta nell’oggi». Costruite con minuziosa efficacia, alla fine del volume, le «Notizie sui testi» di Cristina Nesi, veri «romanzi di romanzi», densi racconti di formazione di ognuna delle opere scelte.

“La Stampa” 20/10/2009

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