Il mio caro amico e compagno Maurizio Fratta, napoletano verace e ingegno vivace, mi ha inviato qualche mese fa questa sua nota divertente e divertita di critica artistica e letteraria. La propongo – autorizzato – ai frequentatori del blog. (S.L.L.)
Nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli si conserva la Venere Callipigia, ovvero "dal bel sedere": statua di mirabile fattura e di prorompente carica erotica.
La dea non si limita ad alzare la veste, il chitone, di più, volge il capo all'indietro nell' intento di rimirare anch'essa le proprie natiche perfette. Sicché,fatalmente,queste sono il vero baricentro della composizione; il punto su cui magnetizzato quasi da una forza misteriosa ed irresistibile,si posa lo sguardo di chi osserva. Hai voglia a dire che quella statua è, in ogni sua parte, uno straordinario compendio dell'ideale di bellezza muliebre: la verità è che quella statua è soprattutto il suo culo meraviglioso.
Al principio dell'Ottocento, re Ferdinando trasferì nel museo la collezione Farnese, della quale la Venere faceva parte, prima ospitata dalla reggia di Capodimonte. La sublime natura sensuale della statua era tale,che per un periodo se ne consigliò il trasloco per ragioni di pubblica decenza nella collezione segreta del museo, insieme ai reperti più dichiaratamente pornografici provenienti da Pompei. Ma,insomma, dovunque fosse, la si ammirava moltissimo, e su di essa si fantasticava.
E' in quel torno di anni che compare anonimo, a Napoli, un poemetto dall' icastico titolo: Culeide. Si tratta, almeno nella versione che è giunta fino a noi, e che si sa essere lacunosa, di quarantanove gradevolissime sestine scritte in un fresco italiano, con una naturalezza tale da avere accreditato per lungo tempo l'ipotesi che ne fosse l'autore il principe dei poeti "all' improvviso" dell'epoca, e cioè Gabriele Rossetti, ormai esule in Inghilterra. La questione non è mai stata davvero chiusa, anche se appare abbastanza convincente l'expertise di Antonio Palatucci il quale, sono ormai più di trent'anni, ascrisse l'operina al genio meno conosciuto di Raffaele Petra, marchese di Caccavone.
Al principio dell'Ottocento, re Ferdinando trasferì nel museo la collezione Farnese, della quale la Venere faceva parte, prima ospitata dalla reggia di Capodimonte. La sublime natura sensuale della statua era tale,che per un periodo se ne consigliò il trasloco per ragioni di pubblica decenza nella collezione segreta del museo, insieme ai reperti più dichiaratamente pornografici provenienti da Pompei. Ma,insomma, dovunque fosse, la si ammirava moltissimo, e su di essa si fantasticava.
E' in quel torno di anni che compare anonimo, a Napoli, un poemetto dall' icastico titolo: Culeide. Si tratta, almeno nella versione che è giunta fino a noi, e che si sa essere lacunosa, di quarantanove gradevolissime sestine scritte in un fresco italiano, con una naturalezza tale da avere accreditato per lungo tempo l'ipotesi che ne fosse l'autore il principe dei poeti "all' improvviso" dell'epoca, e cioè Gabriele Rossetti, ormai esule in Inghilterra. La questione non è mai stata davvero chiusa, anche se appare abbastanza convincente l'expertise di Antonio Palatucci il quale, sono ormai più di trent'anni, ascrisse l'operina al genio meno conosciuto di Raffaele Petra, marchese di Caccavone.
Non canterò di favolosi Numi
gli oracoli bugiardi, o di feroci
mentiti eroi le gesta ed i costumi,
le gloriose colpe o i casi atroci;
gli orrori o i sogni d'un'eta ferina
non vo' cantar: ma il cul di Carolina.
gli oracoli bugiardi, o di feroci
mentiti eroi le gesta ed i costumi,
le gloriose colpe o i casi atroci;
gli orrori o i sogni d'un'eta ferina
non vo' cantar: ma il cul di Carolina.
Questo il "programma "del poemetto, così come viene esposto nella sestina inaugurale. Ed è un programma che viene perseguito fino in fondo con assoluta coerenza: ogni strofa, tra l'altro,termina allo stesso modo della prima, rafforzando l'idea di una specie di "tormentone", e dunque quella di una vera e propria ossessione erotica.
C'è anche un riferimento alla statuaria antica, quando il poeta dice:
Culo non v'è, né fuvvi mai nel mondo
fra quanti più bei culi unqua fioriro,
più tornito, più vago e più Giocondo;
né fra le statue del Museo rimiro,
scavate là in Pompei, Stabia, e Resina,
simile un culo a quel di Carolina.
fra quanti più bei culi unqua fioriro,
più tornito, più vago e più Giocondo;
né fra le statue del Museo rimiro,
scavate là in Pompei, Stabia, e Resina,
simile un culo a quel di Carolina.
Ma la strofa che nel modo più mirabile s'accorda all' idea di questo erotismo panico, che procede nel golfo dagli umani al paesaggio e che da questo è ritrasmesso come in una specie di misteriosa irradiazione; il punto in cui la poesia plasticamente dipinge la bellezza di quelle natiche armoniose distinguendone il movimento nella serena luce meridiana del golfo, e ne fa un elemento essenziale del paesaggio, e in esso le immerge come in una composizione pittorica; il punto entusiasmante, insomma, viene alla sestina numero 17:
Come placida viene a lido l'onda
Quando lieve sul mar Zeffiro scherza,
che alla prima succede la seconda,
e questa torna e va a lambir la terza,
lieta d'un bacio al sen di Mergellina,
così movesi il cul di Carolina.
Quando lieve sul mar Zeffiro scherza,
che alla prima succede la seconda,
e questa torna e va a lambir la terza,
lieta d'un bacio al sen di Mergellina,
così movesi il cul di Carolina.
Eccellente visione, figurata e ornata di una preferenza assoluta che diviene ispiratrice di un sesso semplice ed imperituro.
RispondiElimina