13.5.12

"Castità vo cercando" (di Gianfranco Ravasi)

Il testo che segue, di monsignor Ravasi, è una recensione per la Domenica de “Il Sole – 24 Ore” alla Lettera sulla castità di Pelagio, allora appena uscita per i tipi della Morcelliana. Il celebre prete commenta con competenza il testo, ma ben si guarda dal trarne indicazioni di vita per i cristiani d’oggi. Sotto sotto, nel tempo di Berlusconi, grande amico della Chiesa cattolica italiana, il Ravasi sembra fare suo il siculo proverbio Cu futti futti Diu pirduna a tutti, sia nel caso in cui “fottere” esprima l’atto sessuale sia che significhi l’incamerare le altrui sostanze. (S.L.L.)    
Il matrimonio di Kakà
«Io e mia moglie Caroline abbiamo deciso di arrivare casti al matrimonio». Che il giocatore del Milan Kakà annunci al mondo dalle pagine di « Vanity Fair» o di qualche altro settimanale di gossip questa "sensazionale" decisione può pur andar bene, anche perché è un bel controcorrente rispetto alle migliaia di metri quadri di carta di quelle stesse riviste sulle varie avventure "nude" dei protagonisti del glamour. È però sorprendente — ed è un po' segno dell'attuale atmosfera — che un quotidiano abbia dedicato una paginata all'"evento" così emozionante proprio nel settore della cultura, naturalmente interpellando una matrimonialista e un teologo e facendo, per fortuna, riposare il solito psicologo e sociologo.
Anche noi ora parleremo di castità, tema tutt'altro che marginale nella storia non solo della spiritualità ma anche della civiltà, ma lo facciamo con un ben altro testimonial. Sappiamo già che, al riguardo, esiste una tradizione costantemente attestata su due versanti che si mirano in cagnesco.
Da un lato, c'è il sistematico sarcasmo, prevalentemente antifemminista, a partire da Boccaccio che lapidariamente nella IX novella della II giornata del Decameron non esitava ad «aver questo per certo: che colei sola è casta la quale o non fu mai da alcuno pregata, o se pregò, non fu esaudita». D'altro lato, ecco, invece, l'esaltazione che procede già da quel capoverso 7 della paolina Prima Lettera ai Corinzi ove si tesse l'elogio della verginità, sulla base anche della forte dichiarazione di Cristo riguardo a «coloro che si fanno eunuchi per il regno dei cieli», metafora del celibato, ahimé da qualcuno nell'antichità interpretata invece realisticamente.
Certo che la celebrazione della castità cristiana si è spesso orientata verso una sorta di mera "fisicità" quasi anatomica o anagrafica, meritando così ritratti gelidi e comportamenti aspri e acidi: «La castità è colei che va tutta vestita d'acciaio», sospettava Milton nel suo "masque" elisabettiano intitolato Comus. E in questa stessa linea si metteva una spiritualità troppo "angelicata" ed eterea sul modello dell'Introduzione alla vita devota di Francesco di Sales che predicava: «Giglio delle virtù è la castità che rende gli uomini simili agli angeli». In realtà, la verginità autentica cristiana (questa scelta esistenziale fa, però, parte del patrimonio anche di altre religiosità persino "pagane") è donazione libera al prossimo, è consacrazione a un ideale più alto, è affidamento a Dio e, come tale, comporta una pienezza di sentimenti e di opere e non una mera astinenza sessuale: basti solo intravedere la forte carica di passione e persino di eros che intride le pagine dei classici della mistica, come Giovanni della Croce o Teresa d'Avila.
Noi, comunque, proponiamo ora una particolarissima Lettera sulla castità che, per merito di una ricercatrice dell'Università di Pisa, Antonella Cerretini, appare per la prima volta in italiano col testo latino a fronte. Sì, perché questo scritto è da collocare tra la fine del IV e l'inizio del V secolo e reca su di sé un patronato "pesante", quello di una figura piuttosto sfuggente a livello biografico ma anche ideologico, quel monaco inglese Pelagio approdato a Roma proprio agli esordi del V secolo e divenuto bersaglio degli strali di S. Agostino il quale, in verità, mirava so prattutto alla figura più corposa di Giuliano d'Eclano. L'aggettivo "pelagiano" diverrà, così, un epiteto offensivo per bollare un volontarismo autosalvante, con approssimazioni di ogni genere, come accadde qualche anno fa quando fu imbracciato da un movimento cattolico come una sorta di archibugio per colpire avversari della stessa fede.
Ma ritorniamo alla nostra epistula dal taglio duro e radicale, basato certamente anche sul genere della perorazione e su una lettura piuttosto rigida delle Scritture, in particolare di quel
passo paolino a cui sopra accennavamo. L'autore spazza via con vigore e sdegno le obiezioni tradizionali contro questa opzione, a partire dalla solita messa in guardia sul rischio di estinzione del genere umano se tutti imboccassero la scelta verginale. Lasciamo, comunque, ai nostri lettori il piacere di seguire il percorso di un testo vivace ma non blando su un argomento che in quell'epoca impegnava figure come S. Ambrogio che al tema aveva dedicato ben quattro opere. La finalità era anche pratica, come si evince dalla conclusione del nostro scritto epistolare, in cui l'interlocutore è esortato a ignorare sia l'attesa dei suoi genitori che lo vogliono accasato con prole sia le questioni inerenti l'asse ereditario per incamminarsi risolutamente verso «un così grande bene» col quale è possibile «più facilmente possedere il tutto».
Vorremmo solo evocare il nodo che la Cerretini, a nostro avviso, scioglie in modo convincente, ossia l'attribuzione della lettera a Pelagio, attribuzione oggetto di molteplici obiezioni, contestazioni ed esitazioni, peraltro già affiorate nei codici che ce l'hanno trasmessa con l'assegnazione della paternità a papa Sisto, probabilmente Sisto III che era sposato con una figlia, anche se alla fine si era consacrato all'ascetismo.
Ebbene la studiosa, vagliando l'ampio dossier critico delle ricerche antecedenti, conferma il riferimento dell'opera a Pelagio e questo avviene sulla base di una vasta sinossi tra i contenuti dell'epistula e la dottrina morale pelagiana coi suoi temi capitali: il bonum naturae, ossia quel bene naturale racchiuso nel nostro grembo interiore, il peccato, la giustizia e la misericordia divina, il libero arbitrio e le virtù. Tra queste ultime per Pelagio spicca, accanto alla rinuncia delle ricchezze e alla giustizia, proprio la castità. Perciò, chi ha redatto questa esortazione o è Pelagio o è uno che maneggiava alla perfezione tutto il patrimonio teologico elaborato dal celebre monaco anglo-romano.

“Il Sole – 24 Ore”, 24 giugno 2007

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