4.6.12

Il Wojtila beatificato. Non è Francesco (di Gianpasquale Santomassimo)

Santi e idoli
Dalla Chiesa del silenzio al silenzio della Chiesa, la contesa sulla modernità
Il Concilio rimodellato fra un sacro arcaico e un nuovismo sfavillante

Che diventi Beato e poi Santo è abbastanza naturale e scontato. Sulla base degli stessi criteri da lui introdotti: basterebbe la «santità generica», in base alla quale ogni cattolico probo potrebbe aspirare agli altari, e soprattutto la straordinaria inflazione di santi e beati da lui promossi. Sotto il suo lungo pontificato il numinoso della cattolicità è divenuto sovraffollato quanto nessuna religione pagana del tempo antico aveva osato immaginare. Perché «fare un santo» non è come concedere una croce di cavaliere che non si nega a nessuno, ma significa affermare e riconoscere una presenza sovrannaturale operante nella vita dei fedeli.
L'ampolla del sangue con anticoagulante, conservata come reliquia, suggerisce meglio di ogni altro dettaglio come il suo lascito sia stato anche una concezione del sacro arcaica, celata dietro la modernità sfavillante della sua presenza.
L'approdo a una religione adulta che era stato il sogno di moltissimi nella stagione conciliare è stato messo in forse e poi radicalmente sovvertito nella prassi del suo pontificato. Il bagno di folla per la santificazione di Padre Pio era la traduzione plastica del distacco definitivo dalla spiritualità conciliare, portando sugli altari quello che Giovanni XXIII aveva definito nel suo diario «idolo di stoppa», adorato da «masse istupidite e sconvolte».
Ma bisogna tornare con la mente a quello straordinario 1978, «l'anno dei tre papi» e della svolta finale dopo un imbarazzante interludio. Pochi ricordano il suo predecessore, anche lui eletto in conclave rapidissimo, «giovane» e destinato a durare nelle intenzioni di una Chiesa che mostrava evidente la volontà di superare i dubbi («amletici, si disse) dell'ultimo Montini in direzione di una popolarità di grana grossa e della riproposizione, molto semplicistica, di una dimensione pastorale che sembrava collegarsi molto più al terzultimo patriarca di Venezia divenuto pontefice che non al penultimo, a papa Sarto assai più che a papa Roncalli. Questo episodio è forse a ben vedere il più sconcertante nella storia della Chiesa del Novecento, per tutte le implicazioni che conteneva, e soprattutto perché rivelava la tentazione di ristabilire un rapporto con il mondo, dopo i turbamenti del Concilio, sulla base del ritorno rassicurante alle certezze di una fede modellata sul modello di una vecchia parrocchia della provincia italiana. Era certo Albino Luciani un Papa-parroco che «sorrideva, come molti ricordano, ma qualcuno ricorda anche i dialoghi inquietanti col bimbo sulle ginocchia in tema di «mamme che ammazzano i bambini».
La scelta definitiva stupì tutti per la sua novità: non solo un papa «straniero» dopo molti secoli, ma un papa interprete di una cattolicità diversa, militante ma lontana dalla politica politicante della Curia romana, testimone di drammi storici di enorme portata e di un senso non più angusto della dimensione della Chiesa e dei suoi problemi.
Che abbia fatto «cadere il comunismo» è una leggenda a cui solo in Italia e in Polonia si presta fede. Ma quel richiamo insistito alla «dignità dell'uomo», ricorrente nei primi anni e nell'italiano incerto dei primi discorsi, rimane la tematica che ne avrebbe caratterizzato più profondamente il solco scavato nella storia della Chiesa.
Il suo pontificato incorporava i diritti dell'uomo nella radice stessa della concezione cattolica del mondo e della società: diritti non più osservati con diffidenza o contrapposti ai «diritti di Dio», ma, appunto, riconosciuti nella veste di essenza della dignità umana, assunti quale base concreta di un nuovo discorso universale.
Su questo terreno iniziale, e nel ritrovato impegno di condanna della guerra in sé degli ultimissimi anni, l'opera di Giovanni Paolo portava al suo sviluppo coerente il senso di un Concilio per tanti aspetti assunto come irreversibile, ma pure, e al tempo stesso, rimodellato e a tratti stravolto nel corso del tempo.
Oggi, a distanza di sei anni, comprendiamo meglio cosa è diventata la Chiesa dopo il quarto di secolo ed oltre di Giovanni Paolo. Scomparso lui, ci si è resi conto di quanto già si sospettava: che alle piazze piene corrispondevano le Chiese vuote.
Veniva dalla «Chiesa del Silenzio», ma ha finito per ridurre al silenzio la Chiesa, dove la centralità della figura del pontefice (lasciati alle spalle tutti i rovelli sulla «collegialità» che avevano tormentato Paolo VI) e la sua straordinaria esposizione mediatica hanno come assorbito e prosciugato la Chiesa stessa, svuotando ogni dibattito possibile, ogni ricerca ansiosa e collettiva che è ormai lontano ricordo della stagione conciliare.
«Non abbiate paura»: era la frase più ricorrente e memorabile della sua oratoria. Ma la Chiesa che ha lasciato sembra dire: «Abbiamo paura di tutto».
Il clima immediatamente successivo alla sua scomparsa ne era testimonianza. La Chiesa della Pacem in terris aveva dichiarato di non avere più «nemici» tra gli uomini. Ma qui era vistoso il «ritorno del nemico», già operante sotto Giovanni Paolo, e prefigurato dalla riscoperta del demonio nell'ultimo Montini. Si pensi all'elenco impressionante di -ismi da condannare contenuto nel discorso pro eligendo pontefice del suo successore.
Eppure la Chiesa non ha oggi veri nemici, paragonabili a quelli di un tempo, e forse ha troppi amici interessati. Il suo vero nemico sembra essere l'indifferenza, che la Chiesa sembra costruirsi da sé, e che non può certo combattere con la denuncia del «relativismo».
Il tratto fondamentale della Chiesa di oggi è il suo sentirsi Chiesa di minoranza. Una scelta già operante sotto Wojtila ma come nascosta dalla straordinaria preminenza del personaggio. E' una scelta drammatica nella disposizione d'animo della Chiesa verso il mondo.
La «riconquista cattolica» era cominciata alla fine dell'Ottocento, ma si era mossa - non solo in Italia - nella consapevolezza di rappresentare il «paese reale»; ora si è consapevoli invece di essere minoranza. Situazione abitudinaria per molti paesi, ma per noi difficile da elaborare in tutte le sue implicazioni, nuove per la società italiana.
Si è aperto di fatto un nuovo contenzioso con la modernità. Il precedente è durato oltre un secolo e mezzo, e in esso la Chiesa si è a lungo come inabissata, praticando un rifiuto via via stemperato dalla disposizione, sia pure guardinga, al dialogo.
Eppure il nuovo confronto con questa modernità richiederebbe un ripensamento complessivo, umile e profondo, non necessariamente all'insegna del «nuovismo». In una istituzione religiosa che è ormai bimillenaria, e che ha certo cambiato il mondo ma ancor più è stata cambiata da esso, le vere rivoluzioni assumono per necessità la forma della restaurazione di qualcosa di antico che è andato smarrito nel tempo, quasi seppellito dalle tante strutture e ramificazioni che si sono edificate nel corso dei secoli, come un tesoro sepolto che va riportato alla luce. Tale era la disposizione profonda di Giovanni XXIII e della sua renovatio ab imis e che proprio per questo riuscì ad essere rivoluzionaria.
Ma per fare questo ci vorrebbe un Concilio nuovo. E un Papa dalla spiritualità molto diversa da quella che si è affermata a cavallo dei due secoli. Un Giovanni XXIV, o addirittura un Francesco I, quel nome che nessun Papa ha mai avuto il coraggio di assumere.

il manifesto 30 aprile 2011

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