28.7.12

Futuristi carta straccia (di Guido Davico Bonino)

Innegabile creatività nell'arte, nel design, nella pubblicità ma, per il resto, una modestia sconfortante
Nessuno in Italia parla più di quell'intelligente saggista radical che fu l'americano Dwight McDonald (1906-1982): e dire che il suo fondamentale intervento su Masscult e Midcult, edito nel 1960 dalla Partisan Review, è disponibile in una buona traduzione, con un partecipe saggio introduttivo di Umberto Eco. In quell'aureo libretto McDonald stigmatizzava come midcult quel tipo di cultura che, pur conservando alcune caratteristiche di volgarità della cultura di massa, riusciva a camuffarle e ad assumerle come «alte». Tra queste spiccava il cosiddetto «conformismo dell'anticonformismo». Ho pensato a quest'icastica formula leggendo con cura la profluvie di paginoni e doppie pagine, che in base al diffuso criterio del «meglio prima che mai» - vari quotidiani e settimanali hanno dedicato (e, di certo, dedicheranno ancora) al centenario della nascita del Futurismo (formalmente, 9 febbraio 1909).
Su committenza dell'editore Rizzoli ho trascorso alcuni mesi, tra il settembre e il novembre scorso, a rileggermi i Manifesti del Futurismo, raccolti in quattro volumi del 1919, oggi consultabili solo in biblioteca. Questo movimento, com'è noto, ubbidendo ad una precisa strategia «occupazionale», dettata dal suo infaticabile capofila, il milanese d'Egitto Filippo Tommaso Marinetti, promulgò e diffuse programmi-progetto su tutte le branche dell'umana creatività, dalle arti plastiche e visive alla letteratura, dalla danza al teatro, dal cinema, dalla musica, dalla fotografia alla cinematografia alla radio, sino (ahinoi!) alla cucina. Di qui l'entusiasmo di vari giornalisti, letterari e artistici, alcuni un tantino improvvisati, sulle magnifiche sorti di codesta avanguardia storica. Ma una cosa è progettare un'altra è realizzare, conseguendo risultati artistici persuasivi e durevoli nel tempo. Ora il Futurismo è stato di un'eccezionale e innegabile creatività nella pittura e scultura (Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Depero), nelle arti minori (design, arredamento) e derivate (pubblicità): lo sarebbe stato in architettura se il suo enfant prodige, il comasco D'Elia, non fosse morto ragazzo nella Grande Guerra.
Ma in letteratura (a parte il transfuga Palazzeschi, grandissimo innovatore nella poesia e nel romanzo), in teatro, e nelle altre discipline succitate i suoi risultati furono e restano di una modestia sconfortante...
Ecchè, vorremmo forse temprare i nostri Ammaniti-Veronesi e C. sulle pagine dei romanzi marinettiani come Mafarka il futurista e L'alcova d'acciaio? Vorremmo che Claudio Bisio e i suoi di Zelig s'immergessero nel bagno rigenerante delle sintesi teatrali futuriste? O che la duttile Pina Bausch, al debutto in questi giorni con Sweet Mambo al parigino Théatre de la Ville, lo integrasse proficuamente con la danza dello shrapnel? Siamo seri, suvvia! In tanto bailamme d'entusiasmo il solo che m'è parso serio è stato maitre Scabin, che ha mandato pacatamente a quel paese il cuocobuonanima del Santopalato di via Vanchiglia 1 (Torino) con le sue indigeribili ricette futuriste...
Quanto agli storici e ai biografi che, stando ai bollettini editoriali, allieteranno le nostre giornate di lettura nei prossimi mesi, c'è da augurarsi che abdicando a loro volta alla moda midcult del bonario e solidale revisionismo pongano in bella evidenza che Marinetti e soci, dopo aver flirtato col sindacalismo anarchico-rivoluzionario e messo alla berlina il socialismo riformista di Turati e dei suoi, sono finiti l'uno dopo l'altro in braccio a Benito M., Filippo Tommaso come accademico d'Italia e gli altri con entusiastici «profili» del Duce.

“Tuttolibri – La Stampa” 31-01-2009

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