24.8.12

L'Inferno dantesco riletto da Cesare Garboli


Riprendo, da un ritaglio estivo de “la Repubblica” invecchiato per più di dieci anni, un ampio stralcio da un saggio di Cesare Garboli, critico tra i più fini ed estrosi, che – senza proclamarlo – tenta una lettura psicologica, quasi psicanalitica, del grande poema dantesco e, in particolare, della sua cantica più letta e amata. Mi ha forse disturbato, leggendolo, qualche attualizzazione forzata, qualche boutade di troppo; ma mi ha convinto soprattutto la tesi della “centralità del rimosso”, quella che mette all’origine della Commedia il rapporto di Dante con il suo maggior amico di gioventù, Guido Cavalcanti, che era stato anche il maggior poeta volgare prima di lui. Seguendo, forse eccessivamente, il didatticismo che mi viene dall’avere a lungo esercitato l’arte di insegnare, ho arbitrariamente diviso in parti il saggio e ha dato ad esse dei sottotitoli (il primo, in verità, è il titolo originario dell’articolo). Non so se saranno utili ad altri; a me lo sono. (S.L.L.)
Salvador Dalì, Lucifero. E' una delle 100 Tavole
realizzate per illustrare la Divina Commedia (1951)
per la Divina Commedia
Il racconto dell'odio
Con il passare del tempo, mi chiedo spesso, come forse succede a molti italiani della mia generazione, se nel corso di questo secolo i miei gusti e i miei interessi di lettore dell'opera di Dante siano andati incontro a qualche ripensamento. Quando ero ragazzo, a vent'anni, avevo occhi e orecchi solo per la Commedia. Come era nato quel sistema onnivoro, quel drago d' altri tempi? Come si era formato quel primo, insostituibile certificato di esistenza etnica, geografica e linguistica del paese dov' ero nato? Oggi, quando vado a leggermi Dante per il puro piacere di scrutare dentro un autore relativamente noto, vado a scegliermi una di quelle opere dette infelicemente "minori": navigo fra le Rime, la Vita nuova, il Convivio, le Epistole, la Monarchia (non dico il De vulgari eloquentia, svisceratamente amato fin dai tempi della mia tesi di laurea). Nella Commedia mantengo legami strettissimi con alcuni luoghi privilegiati, nei quali prima o poi mi rintano come a casa mia. A selva: Farinata, Guido Cavalcanti (il padre per lui), Brunetto, Gerione, i ladri, i ruscelletti di Maestro Adamo, Bocca degli Abati, l' antipurgatorio, Oderisi, Marco Lombardo, Romeo, San Tommaso e Sigieri, e, supremo lieto fine, Beatrice, che così lontana come parea, "sorrise e riguardommi".
Ma qualcosa è cambiato. Molto in ribasso figura nel mio listino quella sciagurata sposa romagnola, con tutto il suo amore letterario di cattiva lettrice, recitato e portato in giro come un blasone. Non parliamo di Ugolino. E’ il primo dei romanzi gotici, e ha il torto ottocentesco di promuovere nell'orrore la pietà. Gli ho sempre preferito il preludio, Bocca degli Abati. Il fatto è che quando oggi mi sorprendo a pensare alla Commedia, finisco quasi sempre per immaginare la profezia dantesca - rivelazione concentrata in tempi brevissimi di ciò che in realtà si snocciola lungo una vita occupando un bel pezzo di storia profana - come un monumento innalzato e dedicato soprattutto alla capacità di odiare.
A torto si crede che l'odio si regali a tutti i cristiani, tra l'altro nei termini estremi e testardamente coerenti con cui esso si consacra nella Commedia. La capacità di odiare nasce in Dante da frustrazione politica, o, più semplicemente, dalla condanna a trascorrere una vita forzatamente inattiva e a parlare in eterno inascoltato. Ma la frustrazione figura talmente sublimata che non è facile, tra le tante bufere e le improvvise schiarite trascendenti, riconoscere il tratto più negativo e creativo della personalità di Dante, la radice della sua esperienza. Materiale e strumento d'arte privilegiato, l'odio non è impiegato solo nell'Inferno. E’ visibile nel Purgatorio, si nasconde nel Paradiso. Si nutrono d'odio anche quelle chimeriche fantasie di risarcimento che provengono da una superba e quasi derisoria vocazione alla sconfitta, fantasie amare ma intimamente trionfali, segretamente gratificanti. Nessuno come l'autore della Commedia, "predicatore di giustizia" (Epist., XII, 3), tagliato fuori dal selvaggio e delittuoso andirivieni guelfo e ghibellino, bianco e nero, e dagli innumerevoli negoziati e compromessi d' epoca fra papi e banchieri, imperatori e mercanti, monarchi e cardinali, ha saputo godere di quella perversione mentale, di quel piacere impotente, o, che è lo stesso, di quell'onnipotenza immaginaria che nasce dal seviziare, torturare, dilaniare con la fantasia i propri nemici vincenti, insediati dove si decidono i destini del mondo, e dal guardarli sanguinare assaporandone i "mille atroci spasimi", per dirla con un altro italiano che un po' di odio ne masticava, Giuseppe Verdi. Siamo tutti cresciuti in Italia balbettando senza saperlo la lingua inventata da Dante, ma siamo anche nati e cresciuti solidali con la sua crudeltà pacificamente ideologizzata. Solidali con un sadismo neutralizzato dai valori morali, promosso e legittimato da giudizio trascendente, inavvertibile in tutta la sua ferocia perché grottesco, capriccioso, barbaramente e comicamente concreto e carnale, e quindi inattendibile come i mostri e i satanassi degli affreschi medievali, incaricati di far paura quanto più chiamati a sollevare davanti ai regni tartarei tanti incuriositi "oh!" di meraviglia. Gli sterpi dei suicidi, il fango dei golosi, le arche roventi degli atei che non credono alla sepoltura, la merda dei ruffiani, la pece bollente e appiccicosa dei funzionari corrotti, lo strazio di Maometto, tutto andava giù digerito grazie a quella magica parola, a quella pillola, il contrappasso. Eri goloso? Crepa nel fango. Vendevi indulgenze? A testa in giù nel budello di fuoco.
Il sadismo veniva ricondotto autorevolmente a esempio supremo di rigorismo ideologico e d'intransigenza morale. Il super-io dantesco era intoccabile. Così Dante si è eretto nelle scuole nostrane a coscienza religiosa, morale e politica del medioevo al tramonto, e la capacità di odiare si è data un segno diverso grazie al risucchio in cielo di tutto ciò che è passionale e vendicativo.

La teologia uccide la Storia
Tra le tante favole raccontate da quel mito a posteriori che abbiamo chiamato Risorgimento, c' è stata anche la consacrazione dell'autore della Commedia a padre della patria. E’ un torto fatto a Guicciardini e a Machiavelli, autentici maestri d' italianità, teorici l' uno del "particulare" (oggi si direbbe delle "mani libere"), l' altro della politica come esercizio criminale. Il messaggio di quest'altro fiorentino, così poco rinascimentale, sembra tutto agli antipodi. Che cosa può insegnare agli italiani del Duemila un poveraccio cui è patria il mondo, afflitto da una iella che ha del soprannaturale, se non a fare del soprannaturale la sola realtà nella quale possiamo rifugiarci? Diceva Leo Spitzer che il paradosso del poema di Dante consiste nel trattare come reale e concreto il prodotto della nostra immaginazione escatologica. Si potrebbe dire di più. Il paradosso della Commedia risiede nel dar fondo a tutto l'universo, o, se si preferisce, nel rappresentare tutta la realtà a eccezione di quella profana, ma prendendo a modello di rappresentazione proprio ciò che è profano: col che, le vicende storiche e umane, che ci fanno tanto feroci, verranno di volta in volta scalate su un diametro superiore, già scritte nella sterminata profondità della prescienza divina. La teologia sconfigge la politica. Che dico, uccide la Storia. Dante conosceva i Padri della Chiesa, ma non è meno legittimo il sospetto che conoscesse, in anticipo di qualche secolo, anche il pensiero di Bossuet; le vicende umane passano e muoiono; i popoli e gli imperi sono onde volubili e effimere; è Dio che fa e disfà la Storia; il suo "eterno consiglio incatena tutte le cause e tutti gli effetti in uno stesso ordine" (Discours sur l' histoire universelle, III, 8). Per Dante non meno che per il prete di Louis XIV, tutto sta nel trovare la casella dove va a nascondersi il libero arbitrio.
E’ ben noto come il virus trascendente, che tanta epidemia di visioni ultraterrene ha prodotto nelle letterature medievali, abbia contagiato l'autore della Commedia molto per tempo. Molto prima che in una notte di luna tonda, smarrita la diritta via, egli decidesse di viaggiare per l'aldilà. Nella conclusione della Vita Nuova, il libretto giovanile in lode di Beatrice, diario e racconto d'amore ai limiti dell'esaltazione e della patologia (come si conviene a tutti gli adolescenti di genio), già s'intravede il pallido embrione del futuro poema sacro. Il giovane Dante è visitato da una mirabile visione, e promette di scrivere della sua Beatrice, passata a miglior vita, quello che non fu mai detto di alcuna. Ma gli amori giovanili hanno il colore dell'erba, e Dio stesso li discolora. Beatrice è presto dimenticata. Altre voci, altri interessi, altre immagini, altri richiami tirano Dante per i capelli, gli asciugano le lacrime e lo sballottano sulle fiumane di quaggiù. Siamo nell'ultimo decennio del Duecento. Il poeta mistico e trasognato della Vita nuova inciampa nelle innumerevoli trappole della vita adulta. La scoperta della Filosofia, le ambizioni politiche, gli incarichi pubblici, la seduzione esercitata dal primo e inarrivabile dei suoi amici, poeta e filosofo che non fa mistero di ateismo e per diporto - dice Boccaccio e direbbe Petrolini - va in cimitero (Guido Cavalcanti), lo distolgono dalla beata Beatrice e lo tengono coi piedi per terra, giusto il tempo perché tutto gli vada storto. Dante si lascia fuorviare. Simile in questo (fortunatamente, solo in questo) ai rappresentanti della sinistra italiana nell' ultimo decennio del secolo appena trascorso, non ne azzecca una che è una. Errori a non finire: un errore il priorato, un errore le amicizie intellettuali pericolose, un errore prendere di petto papa Caetani, un errore accodarsi ad armi forestiere per rientrare a Firenze ("s'io ebbi colpa/ più lune ha volto il sol da che fu spenta"). Gli andrà male anche in seguito, gli andrà male sempre. Ma il ritorno a Beatrice è segnato negli astri. La Filosofia rientra nei ranghi. Beatrice, con l'aiuto delle più influenti tra le donne del cielo e di fra Virgilio (c'è anche qui una Lucia, la santa di Siracusa), riacciuffa l'infedele in extremis. […]

L’autore personaggio
Non è forse inutile un chiarimento. Il lettore avrà notato che nel parlare di Beatrice e del suo fedele, o infedele, chi scrive non si è trattenuto dal fare simultaneo riferimento a Dante in carne e ossa e a Dante personaggio della Commedia, al Dante narratore e al Dante narrato. E’ un fenomeno che si riproduce puntualmente a ogni incontro con la Commedia. Il Dante narratore e il Dante narrato combaciano nella Commedia in termini tali che ciascuno dei due risucchia l'altro. O meglio: ciascuno dei due è la funzione dell'altro. In tutta la storia della letteratura, non esistono altrettanti campioni di tale oggettività. Dante è una "cosa". Il suo stile non è uno stile, è una lingua, la lingua che noi italiani parliamo da quando è stata scritta la Commedia. Questa fenomenale identità tra un personaggio che dice io e il narratore che lo racconta non si manifesta subito, in apertura del poema. è una conquista che chiede tempo. Il rodaggio dell'Inferno si compie per gradi. Soltanto nel momento in cui l'autore della Commedia cessa di rappresentarsi come il portatore del genere umano corrotto e dichiara senza complessi la sua identità, nome e cognome, Dante Alighieri può diventare Dante: la funzione del suo poema e di se stesso. Ma bisogna superare due scogli, due figure incombenti. Una in piena luce, Farinata; l'altra rimossa e consegnata al nulla, Guido, l'amico abbandonato sul ciglio dello stradone che mena al Paradiso.
Ci sono due ingressi nell'Inferno, quasi due diversi inizi del poema. Prima si entra dalla porta scardinata, poi dalle porte della città di Dite, da cui si dirama il viottolo che conduce al cimitero di miscredenti.

Il peccato di Dante
Ma andiamo per ordine. Torniamo alla fiumana dove il mar non ha vanto. Quale peccato, quale sogno colpevole ha trascinato Dante nella selva, imbucandolo in una via senza uscita, presidiata da tre bestiacce? Per quale ragione il poeta già così benemerito della Vita nuova si è perso per le strade della terra? Quali forze tra loro avverse lo combattono? E’ fin troppo evidente che il fedele di Beatrice è in pericolo di dannazione eterna. Dante è colpevole di superbia intellettuale, quella libido di conoscenza e d'intelligenza, indifferente ai misteri e ai divieti di Dio (leggi: Ulisse), che pretende di spiegare il mondo attraverso le sole cause naturali, con le sole sue forze (leggi: Guido Cavalcanti). Dante ha chiesto troppo alla Filosofia. La sua storia di empietà e di passione mentale male indirizzata ci viene raccontata nella Commedia in due tempi e modi diversi: nel proemio dell'Inferno e nel Paradiso terrestre, attraverso i rimproveri di Beatrice. La simmetria dei tempi, in apertura e chiusura del viaggio d'iniziazione, si spiega con la specularità tra il proemio del viaggio e il suo epilogo momentaneo sulla cima del Purgatorio. Più interessante la diversità dei modi. Sulla sommità del Purgatorio, il processo alla superbia intellettuale di Dante si svolge nel segno di un robusto razionalismo mascherato di simboli e cerimonie. La paura è passata. Al contrario, la situazione descritta nei canti proemiali tace la natura della colpa mentre ci mette sotto gli occhi lo smarrimento e la paura in atto. Paura della dannazione, ma anche paura di abbandonare le certezze del mondo tangibile. Strano a dirsi, in un poema dedicato interamente all'aldilà, il brivido del soprannaturale lo avvertiamo quasi soltanto in apertura.

I primi canti del viaggio
Per questo il primo canto dell'Inferno suscita una simpatia particolare. E’ un canto inerme, la confessione non più contenibile di uno che abbia gettato le armi e si consegni tremando al lettore, uno che sta lasciando la vita per andare incontro a una vita seconda, ulteriore, ignota, che sorpassa quella abituale che tutti viviamo. Questo Dante visitato dal soprannaturale, angosciato da incubi, fantasmi, apparizioni belluine che vengono dal nulla e vi ritornano come nei sogni, lo abbiamo già incontrato. Afflitto da un male che lo rende irriconoscibile, è lo stesso Dante che ha scritto la Vita nuova. A tingere di malinconia e a fare ancora più commovente il proemio infernale contribuiscono lo stile timido e incerto, e la scelta inaspettata del metro. Non c'è chi non sappia che cosa sia la terzina incatenata della Commedia: strumento robusto, flessibile, autosufficiente, capace di ogni velocità, col quale Dante sa dire tutto. Ma il narrare del primo canto non cammina né veloce né lento. Viaggia, per così dire, al lasco, con terzine in prova che sbattono in attesa del vento.
E’ un narrare che si fa sempre più descrittivo quanto più convoglia e pigia moltitudini indistinte e anonime di dannati su un invisibile maxischermo. Ci troviamo in platea, o davanti a un video gigante. I peccatori scorrono a fiumi flagellati da castighi, bisogna pur dirlo, un po' di maniera. Se non piove (golosi), tira vento (lussuriosi). Si corre infastiditi da vespe e mosconi (ignavi), mentre altrove, in un' altra sala, si proietta un filmato sulle proverbiali fatiche di Sisifo (avari e prodighi). Il Narratore, quando occorra, sviene meno per pietà che per cambiare canale. Vecchie conoscenze del repertorio mitologico, Cerbero, Caronte, Minosse, provenienti in gran parte dall'Ade virgiliano, meticolosamente rilavorate, occupano con invadenza la scena. Si direbbe che Dante, per fronteggiare la novità dell'oltretomba, cerchi di superare il disagio amplificando la voce, forzando i toni, e optando per una ridondante euforia da romanzo popolare, da letteratura divulgativa a puntate con sfondo municipale, come sarebbe un ideale feuilleton da Voce di Firenze o da Messaggero guelfo, dove si racconta con una certa propensione al ricatto come andranno le cose nell' aldilà. Così un fatto di cronaca riminese, che ha sollevato la curiosità dei fiorentini intorno al 1285, si presta a riassumere le idee che corrono in città sull'amore, e un'intervista politica viene rilasciata senza grande entusiasmo da un noto e compiacente concittadino. Ma a un tratto, quando si accendono i segnali sulla torre della palude stigia e sulle mura di Dite, col grande agitato di Flegiàs, le vie di fatto con Filippo Argenti e il parapiglia nella palude, la mano dell' artista prende il sopravvento. Si esce dal convoglio. Dante scopre, come Giotto, più di Giotto, i valori tattili; inventa il montaggio e l' inquadratura; elimina il maxischermo; e ci immette direttamente in quell'illusoria tridimensionalità grazie alla quale si vive nei romanzi come nella vita reale. Non sembrerebbe dunque infondato, per ragioni di stile, ricondurre i primi canti dell' Inferno a un periodo anteriore alla lavorazione - databile al 1306-1309 - del pozzo infernale più profondo, riaccreditando la notizia divulgata dal Boccaccio, a più riprese, circa il ritrovamento di un quadernuccio coi primi sette canti del poema già abbozzati da Dante a Firenze. […]
Ecco un sospetto che si è mantenuto sempre invariato nelle mie letture di mezzo secolo. Mi è sempre parso improprio annettere la stesura dei primi canti della Commedia alla stessa fase di lavorazione che ha prodotto quel romanzo tartareo-appenninico, quell'inferno tutto inventato e non rifatto su Virgilio che è la città di Dite, irresistibile partitura dove adagi e maestosi (gli ipocriti, Ulisse) si alternano a indiavolati vivaci con molto fuoco (barattieri, ladri).

La città di Dite
Quando si entra nella città di Dite, si apre una pianura senza confini, disseminata di tombe. Più giù, dentro il pozzo, scendiamo lungo i valichi, i boschi, i dirupi del paesaggio appenninico, a quei tempi così spontaneamente ecologico; selve e montagne tosco-emiliane e tosco-romagnole miste alle fantasie di spettacoli naturali provenienti da Lucano e da Ovidio, o a luoghi intravisti da un esule sempre in giro nel Nord d'Italia a dorso di mulo, o come dio manda. Luoghi romanzescamente reali, l'inferno e il purgatorio ripetono in Dante l' orografia e l' idrografia del nostro paese, tracciandone per la prima volta la mappa […]
Entrati dunque nella città di Dite, si percorre uno stretto sentiero che costeggia le mura, uno di quei viottoli seminascosti dove si ammucchiano gli escrementi e dove pisciano i cani. "Ora sen va per un sentiero calle/ tra il muro della terra e li martiri,/ lo mio maestro, e io dopo le spalle". Dante trasforma i settenari di Brunetto: "or va mastro Brunetto/ per un sentiero stretto" (Tesoretto, 1183- 4), ma la fonte della magica e solitaria terzina sembra il solito Virgilio del libro sesto, non tanto i "secreti calles" (Aen. VI 443), ma il più solenne "Ibant oscuri sola sub nocte per umbram/ perque domos Ditis vacuas et inania regna" (Aen VI 268 sgg). Qui, a pochi passi dal viottolo, è sepolto in eterno chi nega che l' anima sia immortale.
Si erge nel sepolcro Farinata degli Uberti, capoparte ghibellino nato con il comando e le armi nel sangue ("stai attento a come parli", raccomanda Virgilio). Vicino a lui striscia fuori dall'arca l'ombra di tutt' altro fiorentino, il facoltoso guelfo Cavalcante Cavalcanti. E’ il padre di Guido, dell'amico, del fraterno modello di Dante, del poeta filosofo ispirato dall'amore che è solo una turba dei sensi, e dal sospetto che Dio non esista. Come il figlio, anche il padre professava l'incredulità. Due miti in uno stesso sepolcro: Farinata, il condottiero invincibile, e il poeta ricco, bello, tenebroso, snob; tutto ciò che a Dante è stato negato di essere. Che cosa sono i nostri desideri negati, i nostri complessi, i nostri sogni impossibili, se non la nostra invidia? Che cos'è la nostra anima, se non ciò che non osiamo confessare?

La cancellazione di Guido come svolta
Che ne è di Guido? Vivo? Morto? Dannato? La morte di Guido, nell'agosto del 1300, permette a Dante di giocare sopra un equivoco. Nella finzione dantesca, il viaggio nell' oltretomba si colloca nella primavera dello stesso anno. Alle ansiose domande del padre sul destino del figlio, e alla sua sorpresa nel vedere che i due amici non godono del medesimo privilegio e non si trovano insieme, Dante risponde usando un verbo al passato. Guido non è con lui perché ebbe forse a disdegno la fede. Ebbe? Dante ha risposto senza pesare troppo le parole. Ma il presbitismo da cui sono afflitti i dannati, che consente loro di leggere solo nel futuro e non nel presente, insinua in Cavalcante il sospetto, anzi la certezza, che il figlio sia morto.
Ne consegue che Guido Cavalcanti, nella Commedia, non c'è. Evocare e cancellare un simile amico, nominarlo e farlo sparire nel nulla, ha tutta l'aria di uno di quegli stratagemmi sotto i quali si nascondono le più difficili prese di posizione. Il grande amico non si trova né in terra né in cielo, né all'inferno né al purgatorio. Non è vivo e non è morto, non è dannato e non è salvo. Non c'è.
Lasciati i supplizi degli atei e raggiunto l'orlo del pozzo, Dante può finalmente scendere nell'inferno, scalare il purgatorio, farsi festeggiare nel paradiso. Ha rinunciato alla filosofia. Ha rinunciato a speculare sulle proposizioni sacrileghe. Rinuncerà alla politica, alla vita, a tutto. Si lascerà ingoiare dalla sua opera e farà della sua vita di combattente frustrato e sconfitto la funzione di un poema sacro. Ma il viaggio nell'Inferno esigeva la demolizione preliminare di due leggende intime. Esigeva un sacrificio che Dante ha compiuto. L'edificio della Commedia si fonda sulla rimozione del più grande poeta italiano prima di lui.

"La Repubblica", 31 agosto 2000

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