Danilo Ticli |
Dal blog del mio amico e compagno Massimo Sestili, autore fra l’altro di un bel libro sull’affaire Dreyfus, recupero questa intensa e documentata pagina di storia (in origine un articolo pubblicato su “Patria indipendente”, la rivista dell'ANPI) che, a sua volta recupera la memoria di un gappista romano, un operaio, da quasi tutti dimenticato. Da leggere. (S.L.L.)
Massimo Sestili con Anna e Mirella Ticli |
Nel 1943 piazzò una bomba sotto il palco del Teatro Adriano.
Sopra c’erano il maresciallo Graziani e i comandanti nazisti.
L’attentato fallì per i difetti dell’ordigno esplosivo.
Le storie esistono per essere raccontate. Magari per decenni rimangono nascoste in una via secondaria, nell’atrio di un portone, in una soffitta abbandonata, sopra una lastra annerita, tra le pagine di una rivista ingiallita. Sono le storie di vite non celebrate, senza medaglie e riconoscimenti, storie di persone che con umiltà si sono messe a disposizione ed hanno dato il loro contributo nella guerra contro il nazifascismo. Basta guardarsi attorno. Sono lì che aspettano qualcuno che le racconti. E capita che se non sei tu a cercarle allora ti cercano loro, perché sono in attesa da troppo tempo. Così accade che un giorno di primavera squilla il telefono, rispondi, e ascolti una voce di giovane donna che sussurra emozionata: «Sono la nipote di Danilo Nicli. Mario Fiorentini mi ha consigliato di mettermi in contatto con lei». Nello smarrimento cerchi un appiglio! Poi la voce continua: «Anna e Mirella Nicli, le figlie di Danilo, vivono qui a Roma, se vuole le può incontrare». Del gappista romano Danilo Nicli nessuno sa nulla e pensi che finalmente una pagina che mancava nella storia dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica) romani può essere scritta dopo sessantotto anni. Pensi che la storia di Danilo ti ha cercato e che la devi raccontare. Stupore e emozione si placano in un silenzio riflessivo e un filo s’addipana.
Solo il nome, nient’altro. Roma era occupata da circa un mese dalle truppe naziste quando Danilo Nicli partecipò alla riunione di fondazione dei GAP Centrali davanti al Fontanone di Ponte Sisto alla fine d’ottobre del 1943. Quel giorno, così importante per la Resistenza romana, arrivò con Carlo Salinari, “Spartaco”, comandante della VI Zona che comprendeva San Giovanni, Appio-Latino-Metronio, Monti e Esquilino, e, successivamente, comandante dei GAP Centrali unificati. Mica con uno qualsiasi! Di quella storica giornata e della presenza di Danilo Nicli è testimone Mario Fiorentini, “Giovanni”, comandante del primo GAP Centrale “Antonio Gramsci”: «Nel mese d’ottobre del ’43 ci riunimmo Carlo Salinari, Giulio Cortini, Danilo Nicli ed io e formammo i GAP Centrali. C’è voluto del tempo per organizzarli e non sono stati costituiti tutti contemporaneamente. Quel giorno abbiamo deciso di separare dalle zone alcuni degli elementi più validi, di isolarli completamente, non potevano più avere contatti con nessuno. Dovevano essere staccati dall’organizzazione in modo che agissero clandestinamente, in misura più pertinente e utile, dovevano fare azioni speciali contro i tedeschi, i fascisti, la polizia, contro i mezzi di comunicazione».
Il filtro utilizzato dal Partito Comunista per il reclutamento dei gappisti era molto rigido, farvi entrare chiunque avrebbe significato mettere a serio rischio l’attività di tutta l’organizzazione, compresi i capi militari. Dovevano essere uomini fidati, pronti alle azioni più pericolose, uomini che il Partito selezionava tra i suoi migliori combattenti. “Spartaco” lo sapeva molto bene e se quel giorno di fine ottobre lo porta con sé per affidargli un compito così delicato vuol dire che di Danilo ci si poteva fidare, che aveva le qualità morali e caratteriali, la propensione all’azione “senza tregua” contro il nemico, lo spirito di abnegazione che venivano richiesti a tutti i gappisti; vuol dire che nel Partito era conosciuto e apprezzato.
Tuttavia di Danilo, in tutte le memorie scritte dai gappisti, non compare che il nome quando ricordano l’azione fallita al teatro Adriano di Piazza Cavour. Si trattava di far saltare in aria il palco del teatro e con esso Rodolfo Graziani e lo stato maggiore nazista e repubblichino presenti a Roma, compresi Kesselring e Maeltzer. Non era un’azione qualsiasi: richiedeva una meticolosa preparazione, un attento studio del luogo, tempi giusti per collocare l’ordigno esplosivo, una strategia per mimetizzarlo e farlo entrare senza destare sospetti. Occorreva sangue freddo. Era il 18 novembre 1943. Insieme a Fabrizio Onofri, comandante dei GAP di Zona, che dirigeva l’azione, c’erano due partigiani di primo piano: Mario Fiorentini e Rosario Sasà Bentivegna, “Paolo”, comandante del GAP Centrale “Carlo Pisacane”. L’ordigno era stato preparato da Giulio Cortini, “Cesare”, primo artificiere dei GAP, in seguito sostituito da Giorgio Labò e Gianfranco Mattei. A Danilo Nicli venne assegnato l’incarico più delicato: collocare la bomba sotto il palco, mentre “Paolo” e “Giovanni” erano di copertura e distraevano il custode. Ricorda Sasà: «Danilo ebbe tutto il tempo di scegliere il posto migliore per collocare l’ordigno, e, con disinvoltura, dopo un po’ ci passò di nuovo davanti e se ne andò. Io a mia volta salutai il guardiano e mi allontanai dal teatro. Fuori incontrai Fiorentini. Insieme ci avviammo verso il centro» (R. Bentivegna, Achtung Banditen, Mursia, 2004). L’estintore carico di tritolo non esplose per un difetto di costruzione e, a guerra finita, Sasà e G. Cortini lo trovarono dove Danilo l’aveva collocato. Ma, come racconta Sasà, nel frattempo Danilo era morto.
Nient’altro, scompare nel nulla. Nessuna fotografia. Neppure una biografia scritta dall’ANPI. Non si sa da dove sia venuto, quando e come è morto.
Sfogliando il numero speciale della rivista «Mercurio» dedicato alla Resistenza (A.I, N.4, dicembre 1944) ci si imbatte in un articolo di F. Onofri dal titolo Danilo. Quel nome, passato inosservato per sessantotto anni, inizia ad avere un corpo e una storia. Siamo ancora nel dicembre del ’44, Roma era stata liberata a giugno, ma al Nord la guerra continuava, quindi era opportuno non scrivere i cognomi. È il primo e unico scritto dedicato a Danilo Nicli da un suo compagno di lotta. Un uomo che sembrava arrivato dal nulla per esserne poi di nuovo inghiottito inizia ad avere una fisionomia: il suo corpo, il colorito della sua pelle, l’espressione del suo viso, le sue reazioni emotive, pennellate da F. Onofri, gradualmente acquistano nitidezza tra le incrostazioni del tempo: «Era pallido, come sbiadito nei capelli e negli occhi, col viso calmo, quasi immobile: un operaio. Ma poi si vedeva che era inquieto e teso nelle guance, sotto la pelle. Anche le mani e i gesti erano così. Forse perché me lo ricordo durante quell’azione. Era malato di cuore».
L’azione cui fa riferimento F. Onofri è quella al teatro Adriano. Da giorni i gappisti studiavano il luogo e valutavano le diverse possibilità che si presentavano loro, e quando decisero per la bomba sotto il palco pensarono a Danilo: «Lo incontrai verso sera, nella tuta grigia da lavoro. Gli dissi di che si trattava. Lui mi ascoltò, senza fare obiezioni. Aveva un cerchietto dorato, all’anulare, sulla sua mano d’operaio. Si accorse che lo guardavo, e d’un tratto mi parlò della moglie, dei bambini che aveva a casa. Disse: “Mia moglie non sa niente. Ma se mi dovesse capitare qualche cosa... Vorrei che quelle creature non mi morissero di fame”. Lo disse con calma, a bassa voce. Poi parlammo del colpo da fare, e gli spiegai tutto il piano».
Danilo aveva due figlie: Anna di cinque anni e Mirella di appena un mese. Non era facile per un uomo con quelle responsabilità prendere una decisione del genere. Proprio lui, che con il suo salario da operaio, in piena guerra, non aveva nulla da lasciar loro per sfamarle. I più non l’hanno fatto e sono rimasti a guardare nascosti negli angoli più bui: indifferenti e invisibili.
Il pensiero di Danilo per la famiglia nel momento di prendere una decisione che avrebbe potuto portarlo alla morte restituisce ai gappisti la loro vera umanità: non erano né guerrieri né tantomeno eroi, ma persone in carne ed ossa che decisero, in un momento particolarmente difficile della storia d’Italia, di prendersi le loro responsabilità e di sacrificarsi per il bene comune. Quel giorno, con il pensiero rivolto alle piccole figlie, Danilo decise che l’azione andava fatta: «E dopo un po’ Danilo svoltò da una traversa e avanzò verso di me. Pedalava con gran lentezza. Alla fontanella si fermò, e si chinò per bere. Fu allora che vidi il suo viso, rovesciato sullo zampillo, pallido e teso cogli occhi bui: mi guardava trasognato. Io mi sforzai di sorridergli, per dargli un po’ di coraggio. E poi si cominciò. [...]. Le vedrò finché vivo, quelle mani bianche e caute, con quei gesti interminabili, in mezzo all’aria grigia». Sono momenti di tensione, un piccolo e banale errore potrebbe costargli la vita e mandare l’azione in fumo. I tre partigiani sono fuori che aspettano mentre Danilo deposita l’estintore-bomba sotto il palco. Continua F. Onofri: «E finalmente uscì. Era più pallido, forse, più rigido nella persona, ma calmissimo, lento. Prese la bicicletta, la portò sulla strada, vi montò su, e cominciò a pedalare: senza fretta. Venne verso di me, come si era stabilito, e anch’io salii in bicicletta, aspettai che mi fosse accanto, e poi volammo via ridendo come pazzi, col sangue che ci bruciava».
Forse questa è l’ultima azione a cui ha partecipato, perché F. Onofri, che ha continuato la sua attività di comandante partigiano fino alla liberazione di Roma conclude: «Da allora, non l’ho più visto. È morto in un ospedale, qualche tempo appresso, di polmonite, senza che si potesse far niente. Era malato di cuore. Ce lo ricorderemo sempre con quel suo viso pallido, nella tuta grigia da lavoro».
Insieme a Chiara Sestili, la nipote di Danilo, ci rechiamo in una calda domenica di luglio da Anna e Mirella Nicli. Anna ci accoglie sorridente nel suo ombreggiato giardino con dei buoni pasticcini e una bibita fresca. Un albicocco carico di frutti ci protegge dal sole pomeridiano. Tutt’intorno fiori rigogliosi e colorati. Mi complimento con Anna per la cura del giardino: «Sì – mi risponde – amo tanto i fiori. Forse anche questa passione mi è stata trasmessa da papà». Guardo la foto di Danilo e ritrovo negli occhi di Anna la stessa dolce e bonaria timidezza. Iniziamo a parlare di Danilo.
Danilo Nicli era nato a Udine il 30 dicembre 1911. La famiglia Nicli scappò da Udine durante la Prima Guerra Mondiale, dopo la disfatta di Caporetto (ottobre 1917), quando l’esercito austriaco avanzava sulla città, e si stabilì a Roma. I Nicli erano poveri e dovevano ricostruirsi una vita a Roma, così Danilo per studiare venne inviato in un collegio. A diciotto anni già lavorava come operaio. Durante la guerra lavorava a “Ottica Meccanica” in via Magna Grecia e abitava in via Sinuessa 11, quartiere Appio-Latino-Metronio.
Il quartiere, che faceva parte della VI Zona, era molto attivo nella resistenza ed era abitato da personaggi di primo piano: a via Licia 56 abitava Gioacchino Gesmundo, uno dei fondatori dei GAP Centrali. Antonio Leoni, schedato e diffidato come antifascista, abitava a via Altino 4 ed era componente di un gruppo che faceva capo a Mario Cambi: si riunivano al caffè Quirini che si trovava a via Taranto angolo via Rimini.
Considerando che conosceva personalmente Carlo Salinari si può presumere che Danilo fosse pienamente inserito nel contesto politico e militare della VI Zona e che ne facesse parte da qualche tempo.
Ricorda Anna:
«Io ho un gran bel ricordo di Danilo, era un gran bel papà, mi voleva un bene dell’anima ed io ne volevo a lui. Ero molto più affezionata a papà che a mamma. Se fosse morta mamma forse non avrei sofferto così tanto. Per me c’era lui e basta. Invece è morto lui.
Mia madre si chiamava Antonietta Gallo. Si erano sposati nel 1937 e andarono ad abitare prima a via dei Serpenti e successivamente a via Sinuessa dove siamo rimasti fino al 1951. Io sono stata la prima figlia, nata il 27 marzo del 1938. Poi è nato un maschietto, Costantino, che è morto a tre mesi. Il 18 settembre del 1943 è nata Mirella: papà è morto il 22 febbraio del 1944, quando Mirella aveva circa cinque mesi.
Danilo era un uomo molto allegro, di compagnia, ed aveva una grande passione per la lavorazione dell’oro che io ho ereditato. I miei avevano una grande comitiva di amici e mamma in seconde nozze ha sposato un amico di papà rimasto anche lui vedovo, lavoravano insieme all’Ottica Meccanica. Quando c’è stato il bombardamento a San Lorenzo [19 luglio 1943] la prima moglie del nostro patrigno stava affacciata alla finestra a chiedere aiuto ed è stata fatta a pezzetti, papà mi ha portata con lui in bicicletta a vedere cosa fosse successo e l’ha coperta con un lenzuolo. C’era un caos tremendo. Non capisco perché durante i bombardamenti papà mi portava in terrazza: mamma prendeva la valigetta e andava al ricovero e lui mi portava con sé sul terrazzo e mi diceva: se devi morire muori all’aria aperta, non fare la fine del topo. Per me era un divertimento, sembravano fuochi d’artificio.
Papà non ha avuto un’infanzia felice, è stato in collegio, e ricordo che mi diceva sempre: se mi dovesse succedere qualcosa non ti far mettere in collegio, non ci andare in collegio, assolutamente, perché si sta male. Era molto legato a me e mi incoraggiava a studiare. In particolare, avendo delle mani affusolate, mi diceva di fare l’ostetrica o di studiare il pianoforte.
Ricordo che da via Sinuessa Danilo si recava spesso a via Acaia dove c’erano due palazzi che noi chiamavamo “I Cancelli”. Forse era un luogo d’incontro dei partigiani della zona. Dopo la morte di papà, mamma è andata più volte in quel luogo a chiedere se poteva avere una pensione, un aiuto per le figlie. Purtroppo queste persone, compagni del Partito che mamma conosceva, le hanno detto che non le spettava niente e invece non era vero. Questa è una cosa che non perdonerò mai: perché noi eravamo due figlie più mamma, eravamo talmente piccole che se ci avessero dato una pensioncina forse avremmo potuto anche studiare. Il periodo era brutto, però se ci fosse stato un piccolo aiuto... Perché hanno detto di no? Sia io che Mirella risultiamo orfane di guerra; abbiamo un certificato che lo attesta. Infatti Mirella nel 1958 ha ottenuto la pensione. Inoltre papà aveva almeno quindici anni di contributi. Per noi era un diritto! Questo è il mio forte rammarico, non avere avuto alcun aiuto di nessun tipo; abbiamo avuto una vita durissima, io ho iniziato a lavorare che ero ancora una bambina.
Danilo non parlava mai della sua attività clandestina in famiglia, non si vantava. Ricordo che una volta a piazza Epiro c’erano delle bandierine rosse appese e mi disse, quelle le ho messe io stanotte. Infatti spesso la notte usciva di casa e una volta ricordo che disse a mia madre: “Antonietta se mi succede qualcosa ti verranno a prendere con una macchina nera, tu non fare domande, vai via, fai la valigia e vai, ti portano loro in un posto sicuro”. Quindi mamma pur non sapendo esattamente cosa il marito facesse, sicuramente aveva intuito di cosa si trattasse.
Spesso papà mi portava con sé in bicicletta a fare la spesa a piazza Vittorio. Una cosa un po’ strana vista la distanza da casa. Ma io mi divertivo tanto, ero tanto orgogliosa del mio papà.
Ricordo anche che faceva sempre un gioco con me: mi metteva una monetina tra le gambe per farmi notare che le avevo dritte.
Danilo fu ricoverato per una appendicite andata in peritonite. L’hanno operato due volte, il cuore non ha retto ed è morto. Aveva il cuore mal ridotto ed aveva vissuto emozioni troppo forti. Io l’ho visto l’ultima volta in ospedale il giorno prima che morisse. Era convinto di dover morire a 33 anni. Ricordo che in quell’ultimo incontro mi disse: “bella di papà, il Padreterno m’ha fregato un anno. Ricordati una cosa, mamma è giovane e si risposerà, tu pensa a tua sorella”.
L’ho rivisto nella cassa e l’ho baciato. Del funerale ricordo solo la cassa e papà che aveva la fronte gelata. Quella di fare il partigiano è stata una sua scelta che noi abbiamo sempre rispettato. Io sono sicura che se fosse rimasto in vita l’avrei seguito, che sarei stata, e sono, dalla sua parte».
Il sole volge al tramonto, arriva da Ostia un leggero ponentino. Anna e Mirella ci offrono un magnifico gelato. Le due sorelle sorridono. Anche in Mirella rivedo i tratti di Danilo. È arrivato il momento di salutarci.
Con Chiara riprendiamo la strada per Roma. Un leggero silenzio ci accompagna durante il viaggio. Quel filo che s’addipana accomuna le nostre alla vita di Danilo, di Anna e di Mirella.
Ti ringrazio per questa storia. Sembra incredibile ma il mondo corre e sembra che esistano solo i PICCOLI FATTI, poi le storie della gente, le piccole GRANDI storie di tutti i giorni, sono loro la ''benzina'' delle grandi storie, non ci pensi mai..... poi all'improvviso te ne accorgi. GRAZIE ANCORA ! !
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