16.12.12

Vita e fotografia secondo Tano D'Amico (Manuela De Leonardis)

2011. Un’intervista con il fotografo di Filicudi, di cui era da poco uscito un volume di memorie. (S.L.L.)
Irpinia 1980. Dopo il terremoto
Sulla parete, un'opera su carta di Diego Esposito, accanto allo studio delle lettere di Smith, insegnante al Bauhaus. «La Repubblica di Weimar è il periodo che ho amato di più in assoluto, da sempre - spiega Tano D'Amico (Filicudi, 1942) - Sento che è un nodo che l'umanità non ha sciolto. Le mie fotografie ricordano quelle della Repubblica di Weimar, come se fossi un sopravvissuto di quell'epoca. I miei maestri, del resto, sono anche autori che, in modo cosciente, hanno portato avanti le istanze di Weimar. Te li dico in ordine di morte, perché sono morti entrambi: Franco Pinna e Tazio Secchiaroli. Sono stati miei grandi amici. Tante volte mi sono chiesto chi può essere definito un maestro. Non è certo quello che ti dice che obiettivi usare, né che ti insegna la sua vita, che parla solo a partire da sé. Nel mio caso quello che hanno fatto entrambi è stato stimolarmi, darmi il coraggio di essere diverso, perché facevo delle fotografie così strane».
Sulla parete di fronte - nell'appartamento a Garbatella - due foto in bianco e nero raccontano la realtà dell'emigrante. Scattate da D'Amico nel '74, sono immagini senza tempo ma anche una iconografia di un passato recente, vissuto in prima persona dall'autore. Di questo straordinario testimone che ha collaborato con “Lotta Continua”, “Potere Operaio del Lunedì”, “Noi Donne”, “il manifesto”... è appena uscito con Postcart il volume Di cosa sono fatti i ricordi. Tempo e luce di un fotografo di strada (collana Postwords, pp.134, euro 12,50).
Da Filicudi a Roma, passando per Milano...
Quando sono arrivato a Milano, nel 1949, andavo in una piccola scuola elementare molto vecchia, che era accanto a un covo di briganti del 1600 che si erano fatti seppellire lì con la loro mula. Ricordo ancora il cranio della mula murato nella parete. Per andare a scuola attraversavo un paesaggio di rovine dei bombardamenti della seconda guerra mondiale; mi tenevano compagnia i poster dell'epoca, anni di grande dibattito politico. Ogni tanto mi capitava di vedere un orso orribile con la stella rossa o i mangioni della democrazia cristiana raffigurati come «forchettoni». C'erano anche tantissimi teschi con gli elmetti, guerrafondai gli uni e gli altri. I pensionati, vecchi operai, tutte le mattine incollavano le copie de “L'Unità” sulle rovine.
Una mattina lessi della strage di Melissa, paese dal nome bellissimo sulle montagne calabresi, che fu l'ultima grande occupazione di terre con strage di contadini annessa. Furono uccisi anche tutti gli asini, i muli e i cavalli, oltre che gli esseri umani. Questa storia mi colpì così tanto che, quando divenni fotografo, volli fare un viaggio per vedere com'era cambiato il sud, che non era più quello di quando ero bambino. Soprattutto volevo vedere che fine avevano fatto le persone che avevano occupato quelle terre. Così, venticinque anni dopo la strage, andai a Melissa, ma non trovai nessuno: tutti emigrati. Decisi, allora, di continuare il mio viaggio in giro per l'Europa, per capire come e dove vivevano gli abitanti di quel paese.
Le immagini del dopoguerra, quindi, sono state decisive per delineare il tuo percorso professionale...
Non solo le immagini anche le storie. In fondo, quelle immagini che vedevo da bambino, sono molto simili a quelle di quando frequentavo l'università. Foto che venivano dall'America, pubblicate sui giornalini universitari stampati su ciclostile, come quello di Berkley dove nel '64 ci furono dei morti tra gli studenti del movimento contro la guerra in Vietnam.
Non erano come le foto di “Time” o “Life”, in cui veniva fatto vedere il morto per terra, ma non il contesto. Lì si vedevano sia i morti che i ragazzi che si mettevano le mani nei capelli.
Leggevo anche gli scritti di Don Milani, altro grande rimosso dalla storia dei movimenti degli anni '60 e '70, sebbene avesse toccato lo stesso tema che veniva affrontato dai ragazzi di Berkley, ovvero il nodo dell'obbedienza e della gerarchia, che è causa della guerra.
La macchina fotografica è sempre stata associata all'attività politica?
Attività umana! Nei periodi belli era l'attività completa. Alla fine degli anni Sessanta, quando ho cominciato a fotografare, c'era bisogno di nuove immagini. Per me era qualcosa di molto prezioso. Era così difficile arrivare a quello che volevo dire, che procedevo per tentativi finché arrivava l'immagine. Non c'è mai stato il momento culminante - la zuffa con la polizia, le botte... - perché l'attualità vera è quella che dura per sempre.
Bianco e nero o colore?
Nessuno dei fotografi dice che il bianco e nero è una conquista dell'umanità, perché la mente mette a posto l'accozzaglia di colori che vediamo affacciandoci per la strada - e io amo i colori! - passandoli in bianco e nero.
Un incontro significativo è stato con Joseph Beuys, durante l'happening «Terremoto», a Roma nel 1981.
È stato un rapporto bellissimo che ho avuto grazie a Checco Zotti, che era il grande amico di Beuys. Avevo conosciuto Checco in Germania, quando esule era scappato da Venezia, poi quando lui poté tornò in Italia: lavoravamo entrambi per Lotta Continua. Lui mi parlava sempre di questo grande amico tedesco che si chiamava Beuys e faceva l'artista, si chiamavano al telefono ogni sera.
Una volta Checco - con la voce un po' rotta - gli disse che al giornale c'erano difficoltà di soldi. «Di soldi? - replicò Beuys - Domani mattina arrivo!». Sembra incredibile, ma veramente l'indomani mattina arrivò a Roma, con moglie e figli. Tutta la stampa parlò di questo evento. L'artista volle una linotype che il giornale aveva già venduto per ferro vecchio, e che fu immediatamente ricomprata. Era come un organo, per comporre lo scritto il tipografo batteva e la macchina fondeva le parole in piombo. Beuys fece mettere la linotype nell'atrio di Palazzo Braschi, si piazzò a distanza e cominciò a scagliargli contro dei grandi pani di burro. Quando il burro arrivava sulla macchina, Gianni Amelio si avvicinava di corsa per farlo cristallizzare e poter vendere l'opera.
Alla fine, Beuys cacciò tutti. Anch'io me ne stavo andando, ma mi trattenne. C'era un'altra parte dell'opera che avrebbe fatto al chiuso e da solo. Ci portarono dei tramezzini e del vino e rimanemmo solo io, lui e le lavagne. Siamo rimasti insieme tantissimo tempo. Lui che lavorava e mangiava, io che scattavo le foto e ascoltavo mentre mi raccontava tutto della sua vita. Parlava in italiano, inglese, latino, tedesco... ma ci siamo capiti. Ricordo la sua grandissima umanità.
Nelle mie foto c'è anche lui che disegna come un artista del Quattrocento. Per la prima volta, infatti, mi resi conto che questo grande innovatore aveva un tratto che sembrava quello di Hieronymus Bosch. E fece tutto questo senza prendere né pretendere un soldo. Vidi l'assegno che gli fu dato - quaranta milioni dell'epoca! - che prese e diede a Checco Zotti per Lotta Continua. C'era stato anche un prima nel nostro rapporto. Appena arrivato, infatti, il nostro amico comune gli aveva mostrato delle mie foto, in particolare una pubblicata sulla copertina di una rivista.
Un'immagine del recente terremoto dell'Irpinia in cui non si vedono rovine, ma delle donne con i foulard scuri e i volti molto antichi, tutte insieme che sembrano fare un balletto. Beuys si era portato quella rivista alla conferenza stampa e l'aveva piegata, facendo in modo che la foto si vedesse bene. Ogni tanto si voltava verso di me e mi strizzava l'occhio, come per dirmi che sarei diventato famoso.

il manifesto 28 agosto 2011

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