20.3.13

Napoli, Università,1961. Elio Vittorini e il dito di Giovanni Leone

Elio Vittorini
Lo scritto, di cui qui riprendo un ampio stralcio e il cui titolo originario era Scuola è cultura, avrebbe dovuto aprire, per la parte italiana, la rivista in tre edizioni-lingue «Gulliver», progettata da gruppi d'intellettuali in Europa occidentale fra il '61 e il '62 e mai apparsa. Il testo fu pubblicato per la prima volta nel n. 7 della rivista "il Menabò", 1963. ed. Einaudi e poi integralmente riportato dalla rivista “Che fare”, Numero Dieci, 1970.
Il testo di Vittorini racconta e commenta l’inaugurazione dell’anno accademico 1962 all’Università di Napoli, quella stessa in cui Salvemini aveva collocato il suo Cocò, campione dei “paglietta”. Qui il protagonista negativo è un “paglietta” che ha fatto carriera, Giovanni Leone, un professore di diritto che da avvocato aveva difeso – con successo – assassini mafiosi di sindacalisti socialcomunisti  e grazie a siffatti meriti era un grande della Democrazia Cristiana, all’epoca Presidente della Camera dei Deputati. Sarebbe poi diventato Presidente del Consiglio dei ministri in governi cosiddetti “balneari” (estate 1963 – estate 1968) e addirittura Presidente della Repubblica nel 1971 con il voto determinante dei neofascisti del Msi, distinguendosi per alcuni gestacci scaramantici e dimettendosi anzitempo per il coinvolgimento in uno scandalo di tangenti internazionali (l’affare Lockeed), nel quale, probabilmente, non aveva avuto alcun ruolo.
L’aspetto più interessante dell’articolo di Elio Vittorini è l’acume quasi profetico e la vivida concretezza con cui lo scrittore individua e rappresenta le contraddizioni del sistema scolastico ed universitario che sarebbero esplose di lì a qualche anno nel cosiddetto Sessantotto, prima fra tutte quella tra il carattere di massa che stava progressivamente assumendo l’università italiana e le sue strutture che rimanevano profondamente elitarie. (S.L.L.)      
Giovanni Leone con l'armatore Lauro in una foto del 1960
Scuola è cultura
di Elio Vittorini
[…]
La cerimonia si svolge qual è stata concordata tra Senato accademico e Associazioni studentesche. Il Rettore parla nel nome triplice e uno di ciò che fu, che è e che sarà. Le teste olimpiche dei notabili, dalle prime file, si muovono consenzienti alle sue parole, a piccoli gruppi alterni, con cenni che si direbbe battano il tempo d'un pezzo ben noto, e perciò amato, di musica. Poi c'è uno studente che sale al podio. È accolto con sorrisi da banchieri, di abituati a far credito, malgrado abbia l'aspetto un po' famelico, e un po' anche folgorato, di kamikaze in azione, che spesso ha da noi lo studente ogni mille che s'acquista la fama di intellettualmente impegnato. La più illustre delle autorità presenti, giurista insigne, grande universitario, parlamentare della prima delle legislature repubblicane, uomo che a Roma presiede la Camera e qui porta odore, ma laico, ma riservato, di maggioranza e di governo, è lui che riluce di più, l'onorevole Giovanni Leone, di simpatia e di fiducia verso lo studente.
È così che vuole la democrazia. Ma magari c'è che negli studenti del genere si vede subito reincarnarsi un mito col quale l'umanesimo ha insegnato ad avere indulgenza. Si crede di sapere tutto sul conto suo: decorso, destino. Il suo squallido ardore mostra la corda: ha una saggezza di vecchio dentro; e di un vecchio che stipulò un patto col diavolo. Sicché finirà che si rompe le corna, oppure che una Margherita, e questo gli si augura, lo restituisca salvato alla comunità di Weimar. Egli è il decrepito studente Faust; ecco chi è; e l'onorevole Giovanni Leone può sorridergli sicuro. Del resto è sacrosanto che i giovani mettano qualcosa in questione; dei problemi ci sono, delle inadempienze ci sono: e costui cita cifre.
Solo che non trova mai niente di cui rallegrarsi, e i notabili si cominciano a spazientire. Chi teneva le braccia conserte le lascia cadere, chi ha le gambe accavallate, sbatte giù il piede. L'onorevole Leone si incupisce. «Dalla liberazione ad oggi» dice lo studente. I problemi di cui tratta sono così pesanti che il suo linguaggio trascende per forza il tono sordo dei dibattiti di sinistra. «Dalla Liberazione ad oggi la Repubblica italiana non ha saputo, — egli dice, — mutare le strutture della propria scuola. Essa si è limitata ad elaborare un fantomatico piano decennale che è già ampiamente condannato da tutte le forze che agiscono nella scuola. Un piano che, politicamente non valido, è per giunta carente anche per quanto riguarda i finanziamenti...». Queste sono le sue parole che un paio di giornali hanno citato. Fuori di dove sono state pronunciate, esse sono cadute nell'indifferenza. Nessuno ignora, nel nostro paese, che il disservizio scolastico, specie a livello universitario, aumenta in misura circa triplice di quanto aumenta, anno per anno, il bisogno che la scuola dovrebbe soddisfare. Qualche esempio? Io non sto scrivendo sui guai della scuola: sto scrivendo dell'ostacolo formale che l'umanesimo costituisce, di per sé, com'è nelle persone, e com'è anche nelle cose, a risolvere un guaio o un altro; tuttavia un esempio in materia, uno almeno, tanto per indicare le proporzioni del disservizio, non posso astenermi dal farlo. Prendiamo il rapporto, in una qualunque università, tra la sua capienza funzionale ai fini degli studi e il numero dei suoi iscritti. A Napoli è di 2000 a 30.000. Vale a dire che con le sue aule, le sue attrezzature per le ricerche sperimentali, il numero dei suoi professori (dei quali poi solo una parte insegna di fatto), ecc. ecc. l'Università napoletana (fondata nel 1224 da Federico II) offre la possibilità di frequentarla ad appena il sette e mezzo per cento di quanti si sono iscritti a frequentarla. E vale a dire che se un giorno tutti gli iscritti vi capitassero insieme, come avrebbero il diritto di capitarvi ogni giorno, ne conseguirebbe l'annientamento, per esplosione o altro effetto fisico, dei tre o quattro quartieri in cui la sua sede centrale e i suoi edifici suppletivi si trovano sparsi. Nessuno nel nostro paese, ripeto, i-gnora che i problemi della scuola siano di questo calibro, e nessuno quindi si meraviglia più di nessuno che lo rilevi. Ma nell'Aula Magna dove lo denunciava, dopo la prolusione del Rettore, il piccolo Faust esasperato, i notabili mordevano il freno della tolleranza che s'erano imposta, e il più insigne di loro, il distinto e comprensivo onorevole Giovanni Leone, presidente della Camera dei deputati, si alzò infine di scatto, un ditino per aria, a manifestarsi offeso. « Faccia silenzio! — gridò (lo trascrivo dai giornali). — Non è questa la sede per simili considerazioni. Qui non siamo in Parlamento. Siamo a scuola. Lasci stare la politica e faccia lo studente ».
La zona di pensieri verso cui l'episodio conduce spontaneamente è delle più battute. Cos'è che si può intendere, in una classe dirigente, per «fare politica»? Cos'è che si può intendere per « fare lo studente»? Quale linea divisoria si può intendere che passi, all'interno di ogni attività civile, tra quanto di essa appartiene a coloro che la esercitano e quanto di essa apparterebbe solo ad altri che ne dispongono? Che cosa si mira a distinguere con la distinzione tra sede e sede che si opera di continuo? Quale mondo di compartimenti stagni si ha la consuetudine organica di sovrapporre al mondo? E in qual senso si riconosce che chiunque svolga un suo compito «democratico» e che salga su un podio, che parli, se poi gli si nega di poter avere una visione «politica» dei problemi in mezzo a cui vive?
La radice della questione è un po' al di qua dello sconforto di queste domande da storia universale: ma non ci vuole che qualche informazione di più per localizzarlo. L'Università che fa da scena è quella di Napoli: cioè una delle più importanti in Italia, e delle più significative, sia per la grandezza della sua tradizione accademica come per la profondità dell'abisso che l'ha sempre tenuta isolata, nel suo splendore «europeo», dall'informe città di plebe imperiale, «alessandrina», «bizantina», ch'è la città di Napoli. In essa insegnò, pur se solo Eloquenza latina e Retorica poetica, il fondatore dello storicismo Gian Battista Vico. Insegnò l'illuminista Antonio Genovesi, molti dei cui allievi perirono sul patibolo della restaurazione borbonica alla caduta della Repubblica Partenopea del 1799. Insegnarono Francesco De Sanctis, Bertrando Spaventa, Galluppi e altri uomini dal pensiero «liberatore» che mantennero, attraverso anche i tempi del positivismo, una continuità idealistica divenuta via via antiscientifica, fino a Croce che non vi insegnò ma ne fu lungamente centro informatore al di sopra d'ogni «realtà non spirituale» e al di sopra insieme delle bassezze fasciste ch'erano entrate intanto nella «spiritualità» (o che, comunque, vi si palesavano, vi si rendevano esplicite). Lo studente che parla non deve ancora aver capito che qui egli è in un ambito dove avviene da secoli il miracolo di poter badare unicamente ai Grandi Problemi. Che sia di Napoli stessa, o di una qualunque delle province contadine che considerano Napoli la loro capitale naturale, egli ha dietro di sé la fame del Sud che è fame anche di cultura, e che noi possiamo comunque chiamare così, fame di cultura, e di cultura operativa, di cultura risolutrice. Perciò pone i suoi piccoli problemi che contestano la Totalità... E che lo faccia non avendo davvero capito oppure avendo capito, ingenuamente o malignamente, egli commette in ogni caso l'errore di battersi con dei mulini a vento. Di fronte a lui, il grand'uomo che lo riduce al silenzio, Giovanni Leone, è un figlio di Napoli che potrebbe dirsi abbia ricevuto dall'Università (e da non altro di napoletano) il sangue che gli scorre nelle vene. Insegna diritto e procedura penale dal 1933. Ha collaborato a riformare i codici, ha scritto libri che portano titoli come Il reato aberrante e Del reato abituale, continuato e permanente. Campione professo dell'umanesimo egli non può non pretendere che i luoghi in cui lo si coltiva siano sacri e insomma chiusi: riserve di sopravvivenza.
Ma vi sono altri luoghi che possono essere aperti alla realtà. Recentemente, nelle scuole elementari dei villaggi dell'Umbria, è stato dato da svolgere un tema che dice: « Molti contadini lasciano il podere per andare a vivere in città, mentre altri rimangono in campagna. Perché?». È stato dato da svolgere a bambini di contadini stessi: i quali così hanno potuto riflettere sui loro propri problemi e rendersene interpreti per gli altri, senza con ciò esorcizzarli. L'Università cui aspira il nostro studente di Napoli potrà darsi solo a partire da una scuola elementare rinnovata in un senso del genere: non a partire dall'Università stessa.

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