Da "Narcomafie on line" riprendo un breve articolo di Livio Pepino che, mentre denuncia il persistente disimpegno politico sul tema delle droghe, tuttavia ravvisa qualche segnale positivo verso il superamento delle aberrazioni più gravi della Fini-Giovanardi. (S.L.L.)
Fabbrica d'oppio. Foto di Dany Purcaru |
Tra le questioni ignorate, con rarissime eccezioni, nella recente campagna elettorale c’è quella dell’uso di stupefacenti (capitolo non ultimo del libro, anche questo intonso, dei modi con cui affrontare il disagio e la sofferenza delle persone). Eppure il carcere è pieno di tossicodipendenti e l’uso di sostanze non diminuisce, anche se se ne parla di meno. Ciò dipende da una normativa legata a un proibizionismo ottuso e cieco, che considera l’assunzione di stupefacenti un problema di ordine pubblico anziché un problema di salute delle persone, da affrontare come tale sin dalla fase della prevenzione. Ciò ha determinato una crescita di repressione, propiziata dagli inasprimenti legislativi del 2006 che – come noto – hanno, tra l’altro, parificato droghe leggere e droghe pesanti (così che la canapa diventa, per legge, uguale all’eroina o alla cocaina) e affievolito la distinzione tra tossicodipendenti, consumatori occasionali e spacciatori (con previsione del carcere nella misura minima di sei anni per tutti i comportamenti che “hanno a che fare” con gli stupefacenti salvo i casi conclamati di uso personale e le cosiddette “ipotesi di lieve entità”). In un crescendo parossistico di ideologia repressiva si è giunti a introdurre una sorta di diritto penale dell’apparenza con la previsione come reato (nell’art. 73, comma 1 bis, lett. a, del testo unico) della detenzione di «sostanze stupefacenti o psicotrope che appaiono destinate a un uso non esclusivamente personale». Proprio così: per aprire le porte del carcere basta che la sostanza detenuta sembri destinata alla cessione a terzi. Come se non bastasse, anche i giudici ci hanno messo del loro e la Cassazione si è spinta ad affermare, da un lato, che i reati connessi con gli stupefacenti sussistono anche se il principio attivo contenuto nelle dosi detenute (e/o cedute) è minimo e non produce effetti droganti e, dall’altro, che la semplice coltivazione di qualche piantina di canapa destinata al proprio uso costituisce reato.
Per questo merita di essere segnalata una, sia pur piccola, inversione di tendenza con riferimento a condotte di uso personale ritenute fino a ieri punibili. Il 31 gennaio scorso, infatti, le sezioni unite della Cassazione sono intervenute con una pronuncia razionalizzatrice sul tema del cosiddetto uso di gruppo. A seguito delle modifiche introdotte con la legge Fini-Giovanardi, che ha limitato l’applicazione delle sanzioni amministrative all’ipotesi di detenzione di sostanze per uso esclusivamente personale, gran parte dei giudici aveva preso a considerare reato – punibile, dunque, con il carcere – l’acquisto comune in vista del consumo in gruppo ovvero l’acquisto effettuato, agli stessi fini, da uno degli interessati a beneficio di tutti. Inutile dire che ciò era irrazionale e contrario al comune buonsenso, non essendo dato capire la ragione di tollerare il consumo realizzato singolarmente e di punire, al contrario, quello realizzato in un contesto collettivo. A questa irrazionalità ha posto rimedio la citata sentenza della Cassazione riconoscendo l’ovvio: e cioè che la liceità o l’illiceità di un comportamento non dipende dalla sua modalità, singola o condivisa con altri secondo modelli sociali diffusi. Piccola cosa, certo, ma può essere un primo segnale di ripensamento, necessario quanto tardivo, nella direzione di un proibizionismo ragionevole se non di un più radicale cambiamento di rotta.
Un segnale analogo si trova nella mozione conclusiva del congresso nazionale di Magistratura democratica dei giorni scorsi che indica come linee per una (ineludibile) riforma legislativa nel settore: «la repressione in via solo amministrativa dei fenomeni di cessione dei derivati della cannabis indica o quantomeno la reintroduzione della doppia tabella per droghe leggere e droghe pesanti e la conseguente differenziazione del regime sanzionatorio; la creazione di una fattispecie autonoma per i c.d. “fatti di lieve entità” (sottraendo quella che è, oggi, una circostanza attenuante alle incognite del giudizio di bilanciamento); una più netta tipizzazione degli indici legali dello spaccio di sostanze, onde evitare la frequente incriminazione di soggetti che hanno in realtà il profilo criminologico del mero consumatore; una chiara depenalizzazione della coltivazione di cannabis per uso personale; una generale riduzione delle pene edittali».
Sono maturi i tempi per cogliere e tradurre in norme giuridiche (anche oltre il settore dell’uso di sostanze) un dato di esperienza acquisito: quello secondo cui l’intervento giudiziario non può essere chiamato ad affrontare e curare gravi problemi sociali o esistenziali. Se così è sarebbe importante che quell’intervento si ispirasse almeno a una massima di saggezza tramandataci dagli antichi: «primo, non nuocere».
Per questo merita di essere segnalata una, sia pur piccola, inversione di tendenza con riferimento a condotte di uso personale ritenute fino a ieri punibili. Il 31 gennaio scorso, infatti, le sezioni unite della Cassazione sono intervenute con una pronuncia razionalizzatrice sul tema del cosiddetto uso di gruppo. A seguito delle modifiche introdotte con la legge Fini-Giovanardi, che ha limitato l’applicazione delle sanzioni amministrative all’ipotesi di detenzione di sostanze per uso esclusivamente personale, gran parte dei giudici aveva preso a considerare reato – punibile, dunque, con il carcere – l’acquisto comune in vista del consumo in gruppo ovvero l’acquisto effettuato, agli stessi fini, da uno degli interessati a beneficio di tutti. Inutile dire che ciò era irrazionale e contrario al comune buonsenso, non essendo dato capire la ragione di tollerare il consumo realizzato singolarmente e di punire, al contrario, quello realizzato in un contesto collettivo. A questa irrazionalità ha posto rimedio la citata sentenza della Cassazione riconoscendo l’ovvio: e cioè che la liceità o l’illiceità di un comportamento non dipende dalla sua modalità, singola o condivisa con altri secondo modelli sociali diffusi. Piccola cosa, certo, ma può essere un primo segnale di ripensamento, necessario quanto tardivo, nella direzione di un proibizionismo ragionevole se non di un più radicale cambiamento di rotta.
Un segnale analogo si trova nella mozione conclusiva del congresso nazionale di Magistratura democratica dei giorni scorsi che indica come linee per una (ineludibile) riforma legislativa nel settore: «la repressione in via solo amministrativa dei fenomeni di cessione dei derivati della cannabis indica o quantomeno la reintroduzione della doppia tabella per droghe leggere e droghe pesanti e la conseguente differenziazione del regime sanzionatorio; la creazione di una fattispecie autonoma per i c.d. “fatti di lieve entità” (sottraendo quella che è, oggi, una circostanza attenuante alle incognite del giudizio di bilanciamento); una più netta tipizzazione degli indici legali dello spaccio di sostanze, onde evitare la frequente incriminazione di soggetti che hanno in realtà il profilo criminologico del mero consumatore; una chiara depenalizzazione della coltivazione di cannabis per uso personale; una generale riduzione delle pene edittali».
Sono maturi i tempi per cogliere e tradurre in norme giuridiche (anche oltre il settore dell’uso di sostanze) un dato di esperienza acquisito: quello secondo cui l’intervento giudiziario non può essere chiamato ad affrontare e curare gravi problemi sociali o esistenziali. Se così è sarebbe importante che quell’intervento si ispirasse almeno a una massima di saggezza tramandataci dagli antichi: «primo, non nuocere».
NARCOMAFIE 21 mar 2013
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