30.6.13

Teologia della liberazione (Filippo Gentiloni)

Recupero dal "manifesto" un breve articolo del 2011 per i 40 anni della "teologia della liberazione", utile anche a capire e misurare i gesti del nuovo papa cattolico. (S.L.L.)
Leonardo Boff
La teologia della liberazione compie 40 anni: non sono molti, ma sembrano un secolo. Era nata nel 1971 dal libro pubblicato da Gustavo Gutierrez nel Perù e si era rapidamente diffusa nel mondo cattolico dell'America Latina e non soltanto. Nonostante la decisa opposizione del Vaticano, che temeva soprattutto l'ingresso del comunismo ateo nella teologia cattolica. In realtà la nuova teologia ha cercato soprattutto di combattere la povertà e l'oppressione di larghi strati di cittadini che il capitalismo dominante stava facendo soffrire. Si riscopriva, così, il compito centrale del messaggio cristiano che era stato troppo oscurato. "Il clamore dei poveri", come ha ricordato in questi giorni Leonardo Boff, uno dei protagonisti della nuova teologia: «Non ci sarà mai posto per la teologia della liberazione all'interno dell'attuale spietato sistema capitalista, dove potrà svolgere soltanto un ruolo di resistenza, aprendo brecce attraverso cui il povero e l'oppresso potranno costruire spazi di libertà, favorendo la nascita di un altro modello di Chiesa, più comunitario, evangelico, partecipativo, semplice, dialogante, spirituale e incarnato nelle culture locali. In questo quadro la teologia della liberazione è chiamata a raccogliere gli sforzi dei cristiani per il riscatto della dignità dei poveri, animando gli sforzi verso una umanità che ancora non conosciamo, ma che crediamo in linea con quella indicata da Gesù».
Ancora Boff: «La teologia della liberazione richiama le altre teologie alla loro responsabilità sociale, nel senso di collaborare alla gestazione di un mondo più giusto e fraterno. Una teologia che tace di fronte alla tragedia dei milioni di affamati costretti a morire prima del tempo, non ha nulla da dire al mondo su Dio».
Oggi la teologia della liberazione, nonostante le difficoltà che vengono dal Vaticano e da tutto il mondo capitalista, continua a vivere e a diffondersi soprattutto nei paesi più poveri, nelle comunità di base, più che nelle facoltà e nei centri di teologia. E sfugge, in un certo senso, al controllo delle varie autorità teologiche. Boff: «Nonostante le difficoltà, il clamore dei poveri non le consentirà di morire».

"il manifesto", 30 ottobre 2011

L’amore per i bambini e gli schiaffi genitoriali (Sarantis Thanopulos)

Da un vecchio articolo sul “manifesto”, commento al caso giudiziario italiano di un italiano arrestato in Svezia per presunti schiaffi a figlio minore (l’uomo dichiarava di averlo scosso per il bavero), riprendo una riflessione sui rapporti genitori – figli.

L'amore per i bambini non sempre coincide con l'amore per l'essere umano.
Si può essere teneri con i bambini (e gli animali domestici) e feroci con i propri dipendenti, i propri partner sentimentali e gli immigrati. Proiettare sui bambini le proprie parti vulnerabili, da proteggere e amare, serve agli adulti per negare la loro esistenza dentro di sé e a indurirsi nei confronti degli altri e di stessi (strategia difensiva supposta vincente). I bambini non hanno bisogno di questa protezione, falsata in partenza, che mina la loro fiducia nella verità e nella forza dell'amore e fa percepire loro il passaggio alla vita adulta come salto arduo verso un vita priva di solidarietà e di compassione. I bambini non vogliono essere amati per proiezione e, potendo scegliere, preferirebbero di gran lunga essere detestati se questo comportasse un riconoscimento leale del loro modo di essere e di ragionare. Generalmente riuscire a essere detestabili, fino a un certo punto, è una buona cosa per loro, ma la migliore risposta a questa conquista non è certo picchiarli.
Nondimeno uno schiaffo non è necessariamente maltrattamento: può servire a ristabilire l'autorità genitoriale e consentire una migliore comprensione dei confini e delle proprie responsabilità in una relazione, quella tra genitori e figli, soggetta a fallimenti inevitabili. Purtroppo spesso gli schiaffi sono uno sfogo dei genitori, umiliano i figli e, peggio, diminuiscono la credibilità genitoriale, perché i figli percepiscono la debolezza nascosta dietro il gesto violento.

“il manifesto”, 17 settembre 2011 

1961. Hammarskjöld, segretario generale Onu, fu assassinato? (Raffaele K. Salinari)

Nel 1961 scompariva in circostanze dubbie, segretario delle Nazioni unite alle prese con la guerra civile in Congo. Credeva nell’Onu come «sogno dell'umanità», ma era inviso alle grandi potenze.
Una bella pagina di storia dal “manifesto” che rievoca, oltre ad una personalità ingiustamente dimenticata, alcuni dei più gravi crimini dell’imperialismo occidentale nel tempo della decolonizzazione.  (S.L.L.)
L'uomo del peace keeping
Dag Hammarskjöld nasce nel 1905 in Svezia. Dopo gli studi di economia e giurisprudenza  ricopre diversi incarichi di governo ed è ministro degli Esteri alla fine degli anni '40; nel 1953 viene eletto Segretario Generale dell'Onu. Nell'arco di circa due mandati si occupa delle crisi più importanti del suo tempo. Dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria e la crisi di Suez, avvenimenti che egli critica duramente, crea la prima forza armata di peace keeping dell'Onu, istituzione che egli descriveva come il «sogno dell'umanità». Per le sue posizioni era inviso alle potenze  con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, con le quali aveva avuto frequenti diverbi.
Nella notte tra il17 ed il 18 settembre del 1961 fa moriva, in un incidente aereo, Dag Hammarskjöld, l'allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, e con lui le speranze di fare dell'Onu il governo condiviso del mondo. Quella notte il suo aereo sparì dai radar sui cieli di Ndola, nell'attuale Zambia, mentre era in volo per la Repubblica del Congo ex belga, dove era in corso una guerra civile in cui le Nazioni Unite erano state chiamate ad intervenire, per la prima volta nella storia africana, a sostegno di un governo nazionale democraticamente eletto. Le operazioni di soccorso tardarono dodici ore, nel frattempo la scatola nera dell'aereo era «andata smarrita» e i tracciati di tutti i radar della zona cancellati misteriosamente.
Ancora non sappiamo, e forse mai sapremo, cosa causò la caduta. Qualche mese prima, il quotidiano inglese “Sunday Telegraph” aveva pubblicato una vignetta in cui Charles de Gaulle e Nikita Kruscev si fronteggiavano, ciascuno su un carro armato. Tutti e due portavano un distintivo con la scritta: «Non mi piace Dag!», e sotto la caricatura si leggeva la frase: «Chi si crede di essere questo, un uomo del destino?». Il presidente Kennedy tenne una commemorazione che suonò come un appello alla pace universale ed una perorazione in favore delle Nazioni Unite e del loro futuro: «Dag Hammarskjöld è morto, ma le Nazioni unite vivono; il problema non è la morte di un singolo uomo, il problema è la sopravvivenza di quest'organizzazione. Essa o crescerà per padroneggiare le sfide del nostro tempo, o sarà dispersa dal vento, senza più incidenza, senza forza, senza rispetto. L'umanità deve farla finita con la guerra, o la guerra preparerà una fine all'umanità. Perciò uniamoci nell'affermare che Dag Hammarskjöld non è vissuto invano e non è morto invano». Quello stesso anno gli verrà attribuito il Premio Nobel per la Pace alla memoria, «in segno di gratitudine per tutto quello che ha fatto, per quello che ha ottenuto, per l'ideale per il quale ha combattuto: creare pace e magnanimità tra le nazioni e gli uomini».
Ma perché Dag Hammarskjöld venne ucciso, insieme agli uomini del suo equipaggio aereo? O, anche se così non fosse, a chi giovava comunque la sua morte, quale era la posta in gioco?
Per capirlo dobbiamo tornare alla storia di quegli anni e, segnatamente, al lungo periodo della decolonizzazione, iniziata con l'indipendenza del Ghana di Kwame Nkruma nel 1957. Nel 1960 tocca al Congo, uno dei paesi del continente più ricchi di risorse, secondo solo al Sud Africa; basti pensare che il materiale radioattivo per le bombe di Hiroshima e Nagasaki veniva dalle sue miniere. La natura del governo che si sarebbe installato nel Paese avrebbe dunque influenzato i processi d'indipendenza, e post-indipendenza, nei paesi limitrofi quali il Congo francese, il Rwanda, il Burundi e lo Zambia. Per questo, quando Patrice Lumumba, fondatore del Mouvement national congolaise, ottiene la maggioranza nelle elezioni del 1960 e viene nominato Primo Ministro, il Belgio, la Francia e anche gli Usa non ne furono affatto contenti. Lumumba, infatti, era prima di tutto un nazionalista che poneva l'accento sulla necessità dell'unità dello Stato-nazione, e su un'idea di liberazione che significava molto di più della fine del colonialismo: doveva essere un processo di emancipazione dalla subalternità culturale e dal senso d'inferiorità ereditata dai popoli africani col dominio coloniale. Questa posizione, simile a quella dell'intellettuale antillano Frantz Fanon, confinava pericolosamente con le idee socialiste, e dunque le potenze occidentali paventavano un avvicinamento del Congo all'Unione Sovietica, eventualità da scongiurare assolutamente, anche scatenando una guerra civile.
Patrice Lumumba
E così avvenne: prima rompendo l'equilibrio tra Lumumba ed il Presidente Kasavubu, vicino ai belgi, poi fomentando la secessione del Katanga, la regione mineraria del sud. L'esodo degli europei che segui i primi disordini, poi la secessione del Katanga, nel luglio del 1960, furono tutti eventi funzionali ad eliminare l'unico partito nazionalista e il suo leader, Lumumba, che verrà in seguito ucciso, il 17 gennaio 1961, per ordine del colonnello Mobutu, uomo di fiducia dei belgi e degli statunitensi, e che in seguito prenderà il potere per non lasciarlo che alla morte, quasi quarant'anni dopo. Con la motivazione dei disordini, il governo belga inviò le proprie truppe per proteggere i connazionali che rientravano in Europa, proprio mentre Lumumba si rivolgeva invece all'Onu per chiedere la protezione internazionale. Alla guida delle Nazioni Unite si trovava all'epoca Dag Hammarskjöld, segretario dell'Onu dal 1953, il quale si era già segnalato per essersi opposto nel 1956 all'invasione franco inglese di Suez, suscitando le proteste di Londra e Parigi. Quando dunque nel 1961 scoppia la guerra civile in Congo, non solo condanna pubblicamente ciò che accade ma, il 17 settembre del 1961, decide di dirigere personalmente sul campo le operazione dei Caschi Blu. Hammarskjöld si era reso conto del valore politico del processo democratico in Congo e del ruolo che l'Onu avrebbe potuto ricoprire nella gestione della crisi. Ma se il suo tentativo fosse riuscito, avrebbe probabilmente segnato una svolta fondamentale all'interno della Guerra Fredda, introducendo un terzo che non era dato. Meglio ucciderlo, e con lui la democrazia nel Congo e il sogno di Nazioni veramente Unite.

"il manifesto", 17 settembre 2011 

Piero Calamandrei: elogio di Ernesto Rossi


Piero Calamandrei
Da un articolo di Silvia Calamandrei sul “manifesto” del 20 settembre 2011, recupero questo passo contenente brani dall'elogio di Ernesto Rossi fatto sul "Ponte" da parte di Piero Calamandrei. (S.L.L.)
 
Ernesto Rossi
Battitore libero nell'Italia del miracolo economico, in precoce polemica contro l'assistenzialismo, il burocratismo e il parassitismo, Rossi fu elogiato per l'efficacia polemica dei suoi interventi da Piero Calamandrei che così nel '55, sul «Ponte» ne decantava la felicità espressiva e il carattere beffardo: «Ma a quest'intrepido impegno di studioso si accompagna una straordinaria felicità d'espressione, che gli viene da Firenze. Settimo, non rubare; Il Malgoverno; I padroni del vapore... Basta il titolo; ci siamo belli e capiti. Ernesto Rossi, una specie di enfant terrible, un Giamburrasca dell'economia; che va in giro tra i gravi personaggi che si danno arie di salvatori della patria, e si diverte a tirar la barba ad uno per far vedere che è finta, o a bucare con uno spillo la pancia di un altro, per far vedere che sotto quell'autorevole panciotto tricolore c'è nascosto il contrabbando». E ancora Calamandrei ne sottolineava la straordinaria coerenza di percorso, che spiega la sua fortuna attuale in un'Italia allo sbando: «Singolare coincidenza questa: che dopo trent'anni, mentre si ripubblica come una curiosità storica il Non Mollare, Ernesto Rossi in questo suo volume sui Padroni del vapore, ci dimostri, come dire che due e due fanno quattro, che le cose sono sempre allo stesso punto. (...) Il Non Mollare e I padroni del vapore non sono due libri diversi: direi che siano due volumi di una stessa opera in continuazione. (...) Grazie, caro Ernesto: tu sei veramente uno dei pochissimi che quando rileggi il titolo del vecchio Non Mollare, non hai nulla da rimproverarti: ci metti accanto quest'ultimo tuo libro e dici: "Ecco, in quanto a me, non ho mollato"».

29.6.13

Abonora. Una poesia di Ombretta Ciurnelli

Non so più dove mettere i libri, ma per questi che mi ha graziosamente spediti Ornella Ciurnelli, L’arcontastorie, del 2008, e La città del vento, fresco di stampa, troverò una collocazione di pregio. Intanto, li tengo sul comodino.
Sono libri di poesia in perugino, ove l’idioma di Perugia (lingua o dialetto che sia) con una sua particolare inflessione campagnola diviene mezzo a far sentire, nella stessa asprezza dei suoni, la dura bellezza del vivere. Per me, perugino d’elezione ma non linguisticamente (da buon comunista “vengo da lontano”), benché aiutato dalla puntuale traduzione in italiano, è una fatica; ampiamente ricompensata dal piacere di scoprire parole e suoni nuovi, di cui intuisco risonanze e avverto somiglianze, anche con la mia lingua nativa, della Sicilia interna.
La poesia di Ombretta Ciurnelli, una collega in quiescenza della P.I. che conosco solo di vista ma di cui ho ascoltato una presentazione dotta e problematica dei Respingimenti di Walter Cremonte, mi pare bella, a volte più che bella. Ho apprezzato soprattutto i testi della Città del vento, dedicati a Perugia, che mi piace chiamare “idilli”. Ne scriverò più distesamente su “micropolis”.
Qui voglio solo offrire ai frequentatori del blog un assaggio, una poesia dedicata a un’alba perugina fortemente interiorizzata. Una curiosità metrica: i versi brevi mascherano endecasillabi perfetti, di cui sono emistichi. Il primo degli endecasillabi ha peraltro una particolarità in più, sottolineata dalla impaginazione: una doppia cesura, la prima logico-sentimentale, la seconda metrica. E’ – insieme – un endecasillabo a maiore  e a minore. (S.L.L.)

 

Abonora

Abonora
(quan sol che no scopino
camina nsù e ngiù
p'arcutinalla
e ntol grigio
dle pietre de la piazza
bianca se sveja
la Fontana Granne)
daver davero
sta città del vento
deventa tutt'a 'n botto
sol che mia



Al mattino presto
Ai mattino presto
(quando solo uno spazzino
cammina su e giù
per farla bella
e nel grigio
delle pietre della piazza
bianca si sveglia
la Fontana Grande)
davvero
questa città del vento
diventa all'improvviso
solo mia

La città del vento, Poesie in lingua perugina, Edizioni Cofine, 2013 

Perugia è in guerra? ("micropolis" - giugno 2013)

Perugia. Il monumento che ricorda le vittime civili
dei mercenari papalini del 20 giugno 1859
A Perugia, in occasione della commemorazione del 20 giugno 1859, il consigliere comunale Baldoni (Pdl) ha sollecitato “una riconciliazione della città con gli svizzeri”.
La pacificazione, a suo dire, potrebbe solennizzarsi insieme all’associazione degli elvetici residenti in Umbria.
Un dubbio angosciante: da quando siamo in guerra con la Svizzera?

dalla rubrica Il Piccasorci con un titolo diverso

28.6.13

Umbria. La casta non si arrende ("micropolis" - giugno 2013)

Mauro Agostini
Mauro Agostini, deputato dal 1994 al 2006, senatore dal 2008 al 2013, sottosegretario nell’interregno, non si contenta. Ha rivoluto il posto di direttore generale alla Sviluppumbria lasciato per la sua aspettativa parlamentare e ministeriale.
Riommi in Consiglio Regionale ha precisato che tanto avviene ai sensi dello Statuto dei lavoratori (con una punta di irrisione verso i lavoratori che lavorano).
L’Agostini, che peraltro ha goduto delle indennità di reinserimento e godrà di un consistente vitalizio, come direttore di Sviluppumbria percepirà annualmente 162 mila euro lordi. L’ex senatore si è occupato di banche e finanziamento dei partiti (nel Pd è stato addirittura tesoriere). Questi precedenti lasciano presagire un imminente e clamoroso sviluppo economico della regione: sulla scia di Agostini diventeremo tutti ricchi.

dalla rubrica "Il piccasorci"

Umbria. Classifica bugiarda (micropolis giugno 2013)

L’assessore Rometti dichiara che l’Umbria ha la percentuale più alta del centro Italia per la raccolta differenziata. Applausi. Poi arriva Marco Montano, discendente del Bartoccio, il contadino della piana del Tevere, perugino rozzo ma sveglio e sagace, nostro consulente unico in materia di rifiuti. “Ancora credete alle profagole?” Ci fa notare che fino al 20 giugno solo due regioni hanno presentato i dati certificati sulla raccolta differenziata: l’Umbria che raggiunge il 44% e le Marche che si attestano al 56%. “Ta me ‘n me ‘ncantono, è vent’anni che ci pijono pei fondelli co sti nummeri e co sti piani dei rifiuti. Gite a vede se è vero o no quel che ve dico”.
Sbugiardato Rometti? E come mai nessuno dei tanti esperti in materia o degli attenti gazzettieri ha pensato ad una piccola verifica? Si attendono repliche.

dalla rubrica "Il Piccasorci"

Ernesto Rossi, l'ultimo illuminista (Nicola Tranfaglia)

Ho trovato su un vecchio paginone di "Repubblica" dedicato a Ernesto Rossi un profilo dell'uomo politico storico,  ed economista, tracciato da Nicola Tranfaglia. Ne trascrivo gran parte per la chiarezza e l'incisività che lo contraddistingue, anche se avrebbe meritato uno spazio maggiore l'impegno anticlericale del maestro novecentesco. (S.L.L.)
E' così rara e difficile da trovare, di questi tempi, la qualità di uomini come Ernesto Rossi (sul quale, a diciassette anni dalla morte, si aprono oggi a Milano, al Palazzo delle Stelline, un convegno e una mostra storica), che si rischia di concludere che ci volevano tempi di ferro e di fuoco come gli anni Trenta e Quaranta per far emergere quei personaggi, e che oggi, ahimè, i tempi portano alla ribalta altre personalità, a volte più grigie e prevedibili. Ma è un rischio da evitare, perché se il fascismo non fosse crollato, di Ernesto Rossi oggi non si parlerebbe affatto.
Tra gli oppositori della dittatura, Rossi, che era stato volontario e interventista nella Grande guerra e collaboratore, fino al 1922, del “Popolo d'Italia”, fu, senza alcun dubbio, uno dei più fermi e risoluti. L' esperienza della guerra, che egli aveva vissuto come altri giovanissimi (era del 1897) nello spirito degli ideali risorgimentali e del mazzinianesimo, lo aveva condotto ad una critica dura di tutti i partiti italiani e del sistema liberale in crisi; sicché a lui, come ad altri interventisti, l'iniziativa dei Fasci nella fase diciannovista era parsa una rottura positiva.
"Se non avessi incontrato sulla mia strada al momento giusto Salvemini", scriverà molti anni dopo, "che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti delle passioni suscitate dalla bestialità dei socialisti e dalle menzogne della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch'io nei Fasci di combattimento che - conviene ricordarlo - avevano allora un programma a sinistra del partito socialista...". Ma proprio l'apertura spontanea alle tesi anticonformiste di Salvemini ed al suo impegno politico testimonia che Rossi aveva già in sé antidoti morali e politici per smascherare la strumentalizzazione del mito patriottico, e della politica sociale cara alle classi medie, fatta dal nascente fascismo.
Così, quando Mussolini riceve l'incarico di formare il governo dopo la farsa rivoluzionaria della Marcia su Roma, il giovane Rossi, che si è ormai dedicato allo studio dell'economia politica, non ha dubbi sulla strada da prendere: quella di un'opposizione decisa ed intransigente ad un governo che si presenta subito come antiliberale e nazionalista. La fondazione dell'"Italia libera" nel giugno 1924, subito dopo l' assassinio di Matteotti, quindi l'esperienza della stampa clandestina ed in particolare del fiorentino “Non mollare”, redatto con Carlo e Nello Rosselli, Dino Vannucci e Lello Traquandi, con l'attiva partecipazione di Salvemini, costituiscono nella battaglia di Ernesto Rossi gli antefatti, i primi passi che precedono l'impegno totale ed assorbente della lotta clandestina nella seconda metà degli anni Venti, quando la dittatura mussoliniana si consolida e l'opposizione, costretta all'esilio o alla clandestinità, faticosamente si organizza.
Rossi, legato come Riccardo Bauer all'ambiente liberale antifascista del Nord, è tra i primi ad aderire in Italia al movimento di "Giustizia e libertà" fondato a Parigi da Carlo Rosselli e da Emilio Lussu. In "Giustizia e libertà", al di là del programma ideologico - che è di blocco democratico contro il regime - egli vede un gruppo di uomini risoluti a combattere con ogni mezzo il fascismo, a suscitare in tutti gli oppositori l'entusiasmo necessario per costruire qualcosa di duraturo e di efficace.
"Carattere asciutto e anti-oratorio", è stato scritto di lui in uno dei primi ritratti, "ingegno chiaro e portato all'analisi, alieno dalla speculazione filosofica, dalle vaste sintesi e dal gusto dell' avventura intellettuale, il Rossi recava nella propaganda e nell'azione la forza originaria e saldissima della sua dignità di uomo offeso dalla tirannide ed una fede illuministica nell'efficacia della ragione". Una ragione - possiamo dire - messa a dura prova dalle divisioni e dagli errori dell'antifascismo, come dai lunghi anni del carcere e del confino.
Dopo avere scritto, sulle pagine della Riforma sociale di Luigi Einaudi, penetranti indagini della politica finanziaria fascista, e negli opuscoli clandestini di “Giustizia e libertà” beffarde analisi dell'odioso classismo fascista, Ernesto Rossi viene arrestato nel 1930 in seguito alla delazione di Carlo Del Re e condannato a vent'anni di reclusione dal tribunale speciale; non riacquisterà la libertà che tredici anni dopo, quando la dittatura cade.
Carcere e confino sono dunque i luoghi nei quali egli passa gran parte della sua maturità di uomo e di studioso. Di quel lungo periodo restano non soltanto le lettere raccolte da Manlio Magini in quel bellissimo libro che è Elogio della galera, così pieno di umorismo e di umanità, ma anche una serie di testimonianze e di ricordi che ritraggono Rossi come un uomo che si serve della propria sofferenza e anche del proprio scetticismo non per allontanarsi, ma per avvicinarsi di più agli altri uomini, fossero anche i più diversi da lui.
Quel che colpisce nelle sue lettere alla madre Elide o alla moglie Ada (una presenza centrale nella sua vita, anche dopo gli anni del carcere) è la sua profonda tolleranza, la sua capacità di analizzare lucidamente ciò che accade, senza per questo evitare i conflitti o gli scontri con chi, al contrario, gli appare settario e intollerante.
Non c' è qui modo di parlare della lunga attività pubblicistica di Ernesto, o meglio della sua riflessione politica ed economica negli anni del carcere; ma c'è un suo ricordo sull'importanza che quel lavoro ebbe per lui, impedendogli di impazzire anno dopo anno. "La ricerca della verità", scrisse più tardi nella sua Critica del capitalismo, "mi liberava dallo spazio e dal tempo: non sentivo più l' irritante suono dei ferri battuti; nella cella non c' era più il puzzo del bugliolo e delle cimici; le inferriate e le mura del carcere svanivano nella lontananza del subcosciente".
Perché qualcuno non lo dimentichi, c'è da aggiungere che dovettero passare otto anni prima che la polizia politica fascista gli concedesse di sedere per qualche ora ad un tavolo con penna, inchiostro e calamaio. Giunto al confino di Ventotene nella primavera del 1939, Rossi si incontra tra gli altri con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli, e da un'elaborazione comune nasce il primo documento federalista del dopoguerra, quel Manifesto di Ventotene che sarà alla base della lunga e non conclusa battaglia per l'unità politica dell'Europa. Spinelli nel primo volume delle straordinarie memorie che ora ha pubblicato presso il Mulino (Come ho tentato di diventare saggio. Io, Ulisse) ci dice, di Rossi e dell'incontro che ebbe con lui nel 1939, una cosa che ci restituisce un aspetto fondamentale della personalità di Ernesto: "Le conversazioni con Rossi mi scossero dal mio stato quasi sognante, facendomi sentire che non potevo più continuare a meditare su Mosè, Solone, Gesù, San Paolo, Marx, ma dovevo decidere qui ed ora, all'evidente vigilia del ritorno alla vita attiva, quali fossero i nostri ideali di civiltà e prepararmi ad essere loro fedele, poiché dopo la vittoria contro Hitler non sarebbe stato facile fare di essi i punti di riferimento fermi per costruire la società del dopoguerra". C'è in Ernesto Rossi, in tutta la sua attività politica e pubblicistica, dal “Mondo” all'“Astrolabio”, dai libri laterziani sul clericalismo, sui profitti industriali illeciti, sulle magagne dello Stato democristiano, sulla troppo scarsa libertà di stampa, fino agli ultimi scritti, una volontà di "dire" per "fare", di conoscere la realtà per modificarla, che fa di lui un giacobino in un mondo di farisei, ma soprattutto uno degli ultimi illuministi di questa tormentata Italia postfascista.

“la Repubblica”, 18 maggio 1984

Michels, Pirrone e Barca. Quale partito, quale organizzazione (S.L.L.)

Fabrizio Barca
In una nota di fb del mio amico e compagno Gianfranco Pirrone, vedo ripresa l'analisi fatta un secolo fa da Roberto Michels della degenerazione del partito socialdemocratico tedesco. Egli pensa che essa sia perfettamente attinente per spiegare l'attuale approdo del vecchio PCI. E di Michels, a riprova, aggiunge una lunga citazione:

'Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia’; l’organizzazione e la seguente degenerazione oligarchica causano veri e propri mutamenti genetici nei partiti socialdemocratici: le masse non possono più interferire con le decisioni, i capi non sono più gli organi esecutivi della volontà della massa ma si emancipano completamente dalla massa stessa. Tanto più grande diventerà il partito, tanto di più si riempiranno le sue casse e la tendenza oligarchica si farà strada con maggior vigore; la base non potrà più controllare in alcun modo i vertici del partito.
Il regime democratico non è molto confacente ai bisogni tattici dei partiti politici: il partito politico, così come si deve organizzare per competere con gli altri partiti, è qualcosa di distante dalla comune idea di democrazia. Il principio della democrazia è ideale e legale (perché comunque si va a votare), ma non è reale in quanto, in realtà, la base non può scegliere nulla.
Votando non diventiamo compartecipi del potere: ‘la scienza ha il dovere di strappare questa benda dagli occhi delle masse’.’La formazione di regimi oligarchici nel seno dei sistemi democratici moderni è organica’. ‘L’organizzazione è la madre della signoria degli eletti sugli elettori’.
Pirrone ne deriva “l'importanza del tentativo di Barca di rendere l'organizzazione "precaria temporalmente", secondo l'intuizione che è anche di Grillo, e dividere il potere nel partito dal potere nelle istituzioni, mantenendo inoltre forte la pressione e l'innovazione culturale degli attivisti sull'organizzazione resa precaria”.

A primo acchito la riflessione mi era sembrata sensata, benché sentissi che qualcosa non funzionava. Ora credo di aver capito. E’ possibile che Michels avesse delle buone ragioni e che nel Pci vi fossero elementi di oligarchia, ma tutto ciò con l’attuale partito democratico non ha molto a che vedere. 
Il Pd è il partito della “disorganizzazione organizzata”, ove i circoli (le antiche sezioni) non hanno alcun potere, visto che la scelta dei candidati alle elezioni, della leadership, della stessa dirigenza è affidata alle “primarie”, è un partito ove gli organismi dirigenti convivono con una direzione leaderistica in un enorme confusione di ruoli, di conflitti d’attribuzione, di terre di nessuno, ove sindaci, assessori, presidenti di regione, gruppi consiliari, gruppi parlamentari, non rispondono a nessuna autorità esterna se non a termine del mandato. Ed è in questo vuoto di regole e di organizzazione che prosperano notabilati e oligarchie.
Nel Pci c’era una direzione paternalistica e ciò favoriva le cosiddette “cordate”, le burocrazie tendenzialmente oligarchiche; ma c’era un forte condizionamento da parte degli iscritti. Il dirigente, anche ad alto livello, doveva andare nelle sezioni a convincere la base e uno dei criteri di verifica della qualità dei dirigenti erano le “tessere”, che non venivano comprate a “pacchetti” dai dirigenti come nella Dc e come cominciò ad accadere tra i Ds, ma rinnovate anno per anno, una per una, pagate per una cifra non puramente simbolica, almeno per i lavoratori e i ceti popolari. Delle tessere si misurava non solo la “quantità”, ma anche la qualità e contavano di più le tessere agli operai, ai contadini, ai lavoratori dipendenti. Le stesse elezioni, anche attraverso il meccanismo delle preferenze, erano uno strumento per la verifica dei gruppi dirigenti. “Democrazia”? Forse non nel senso più pieno. I lavoratori, le persone senza averi e senza poteri organizzate nel partito non decidevano, ma certamente influivano.
Nel Pci la base “contava” anche nelle scelte generali. Una larga intesa con Berlusconi in un Pd organizzato come il Pci non sarebbe stata neanche tentata: la solidarietà nazionale e l’appoggio esterno al governo Andreotti richiese due o tre anni di discussione capillare e un congresso per convincere una base perplessa al “compromesso storico” e prepararla a governi come quello della “non sfiducia” del 1976. Neppure un leader con un grande carisma come Berlinguer sarebbe riuscito a imporre da un giorno all’altro una scelta del genere.
Nel Pci la lotta politica avveniva spesso in maniera cifrata, ma attraverso un dibattito serrato che coinvolgeva gli attivisti a tutti i livelli: la linea – in genere una mediazione – era sì imposta dall’alto, ma era condizionata dal sentire e pensare della base che doveva approvarla. Non era democrazia in senso forte, ma non era neanche guerra per bande ed alcuni accorgimenti, tra quelli suggeriti da Pirrone, venivano attuati per prassi e per statuto: il sindaco non era mai segretario di sezione, il segretario regionale non era mai presidente della Giunta regionale e una certa autonomia dei gruppi di rappresentanti nelle assemblee elettive era la regola. Questa sorta di doppio potere, garantito da regole certe, era uno strumento per il rinnovamento degli stessi gruppi dirigenti.
Io credo che la via di una riforma politica sia il ripristino di un’organizzazione governata da regole certe e la ripresa di una partecipazione di massa che può venire solo da un potere decisionale diffuso (oltre che una, preliminare, scelta classista). Per intenderci, le linee “politiche” (non tecniche) dei piani regolatori nei comuni rossi, al tempo del Pci, non le decideva – come adesso - il sindaco con l’assessore del ramo e il concorso delle lobby, con consigli comunali resi docili dalle stesse modalità di elezione; ma, una volta elaborate – per diventare scelta del partito - passavano i direttivi di sezione che, una volta convinti, dovevano orientare e convincere le assemblee di base. Non c’era il “decisionismo” caro a Craxi, Berlusconi e a tutti gli attuali politicanti? Le scelte erano frutto di “mediazione”? Sì, ma non credo che questo fosse di per sé un male, quando la mediazione si faceva non nel chiuso dei palazzi, ma in un partito con larga base e partecipazione popolare. E da quella politica quelli che stanno in basso guadagnarono molte cose, che poi – senza quell’organizzazione di partito – hanno perso.
Non ho capito cosa voglia esattamente dire Barca, con la sua frase. Se vuol dire che vanno evitate le ossificazioni burocratiche del vecchio Pci, che occorrono regole per garantire un ricambio sistematico nei gruppi dirigenti, meccanismi che favoriscano i controlli reciproci le iniziative autonomi degli iscritti attivisti sono assolutamente d’accordo. Se vuole perpetuare in forma diversa l’attuale “disorganizzazione” (cioè “cattiva organizzazione”), credo che si sbagli: è proprio nella confusione di ruoli che prosperano notabilati, leaderismi, gruppi di potere, guerre per bande.
Io credo che la prima cosa da fare per riformare la sinistra è fare un partito di sinistra, cioè un partito classista. Constatare cioè che, pur nella complessità e complessificazione, la società è tuttora divisa in classi sociali con interessi contrastanti; e decidere di separare dalle altre la parte di quelli che stanno sotto, sfruttati e subalterni, per organizzarla e rappresentarla. Questa è già di per sé una operazione democratica e antioligarchica: contro le oligarchie degli abbienti e dei potenti che sguazzano nell’interclassismo, utilizzandolo a loro pro.
Dopo, per fronteggiare la nascita e la crescita di oligarchie partitiche, di élites “proletarie”, vanno studiate modalità organizzative che tengano conto delle riflessioni di Michels e delle preoccupazioni di Pirrone. C’erano una volta gli “slogan” caratteristici dell’ingraismo (vedi Masse e potere): la piramide rovesciata con la base che sovrasta il vertice, l’organizzazione che è servizio non direzione, la progressiva riduzione (fino all’eliminazione) della distanza tra dirigenti e diretti. Penso che in forma aggiornata e più penetrante, utilizzando per quel che si può l’apporto della rete, possano essere i criteri di un nuovo tipo di organizzazione.

Rosario. Una targa per il Che (di Agostino Spataro)

Ernesto Guevara de la Serna, detto il "Che"
Da una rievocazione del Che, opera del mio vecchio amico e compagno Agostino Spataro, riprendo il passaggio finale, che contiene una curiosità e un’amara considerazione. (S.L.L.)
La casa natale del Che a Rosario (foto Spadaro)
Concludo, con una nota un po' amara, a margine di questa personale rievocazione di Ernesto Guevara il cui mito ancora resiste in tutto il mondo, tranne a Rosario sua città natia.
Nemo profeta in patria, dicevano i latini, ma in questo caso il disinteresse della ''patria'' mi sembra davvero cieco quanto ingiustificato.
Stranamente, non si parla né si scrive di questa incomprensibile ritrosia che, per altro, si verifica in una città di tradizione operaia, quasi sempre guidata da amministrazioni progressiste.
A parte un “mausoleo” di mattoni grezzi creato dagli artisti rosarini e qualche souvenir per i turisti, il mito del suo illustre figlio ancora non è approdato su questa sponda del rio Paranà.
Si è arrivati al punto - come constatai nell'ottobre 2005 - che sulle pareti della casa natale del Che (in calle Entre Rios) non c'è una targa che ricordi che in quella palazzina nacque Ernesto Guevara de la Serna.
Una dimenticanza? Pare proprio di no. La causa - mi è stato detto - sembra dovuta ad un ripetuto rifiuto dei condomini, fra cui una società di assicurazioni, i quali, forse, temono di veder turbata la loro quiete piccolo borghese. Veramente piccola, piccola.

Per rimediare a tale riprovevole diniego, gli estimatori del Che, compresi i rappresentanti diplomatici di Cuba, hanno applicato alcune targhe commemorative sulla parete della… casa di fronte.
A ben pensarci, qualcosa di simile è successo anche in Italia, nella stessa Palermo quando si è voluto onorare la memoria e il sacrificio delle vittime di mafia. Successe, tempo fa, per l'apposizione di una targa in memoria di Giovanni Falcone. D’altra parte, cosa si vuole quando un presidente del Parlamento siciliano, l’on. Miccichè, giunse a stigmatizzare, pubblicamente, “l'errore” di aver denominato l'aeroporto palermitano ''Falcone e Borsellino”, poiché - secondo lui - tale denominazione scoraggiava il turismo?                           

Joppolo Giancaxio,14 giugno 2013

27.6.13

"Salariate dell'amore". Turati, Gramsci e la prostituzione (Nicola Tranfaglia)

Era il 4 settembre 1919.
Alla Camera si discuteva un progetto di legge per l'estensione del voto alle donne.
Nitti, presidente del Consiglio, non aveva dubbi sull'opportunità di escludere le prostitute dal diritto di elettorato. Filippo Turati ribatté con una requisitoria ispirata alla lezione umanitaria del positivismo socialista: nelle nostre aule parlamentari era sicuramente tra le prime difese di una condizione marginale, come quella legata alla prostituzione.
"Le donne, che il vostro capoverso vilipende", disse Turati rispondendo a Nitti, "sono proprio le più indifese tra le indifese. Sono stato testimone varie volte di feroci persecuzioni che le cosiddette squadre del buon costume facevano, e non soltanto per eccesso di zelo, contro le innocue e compassionevoli lavoratrici del marciapiede. Arresti senza motivo, rincorse selvagge, violenze e bastonate senza discrezione. Spettacoli insomma di pubblica ignominia ad opera dei tutori della pubblica quiete... Il socialismo sopprimerà anche questa, come tante altre miserie. Nel frattempo, sappiamo almeno rispettare queste infelici, ma non inutili né sopprimibili, salariate dell'amore, come le salariate del lavoro".
C'era dunque nel leader socialista, accanto ai motivi già accennati, la convinzione che la prostituzione fosse in definitiva una attività utile e necessaria, e della quale perciò lo Stato e la società non potevano disinteressarsi. D'accordo su questo punto, anche se la cosa può stupire, era Gramsci, che criticava duramente il discorso di Turati per quel che di umanitario, e a suo avviso di romantico, esso conteneva, ma poi ribadiva - sia nelle pagine dell'“Ordine nuovo”, sia nei Quaderni dal carcere - l'opportunità di non mettere in discussione la regolamentazione legale della prostituzione. L'una e l'altra posizione appaiono, a distanza di sessantacinque anni, per molti aspetti lontane o arretrate; ma valeva la pena, credo, ricordarle…

da L'ordine di Esculapio, "la Repubblica", 11 settembre 1984

Il caso Phye. Erodoto, Aristotele e l'ingenuità degli Ateniesi (Roberto Calasso)


"Aristotele diè lege", Particolare dal Capitello della Giustizia, Palazzo Ducale, Venezia 
 Phye era una bella ragazza di campagna, alta quasi quattro cubiti. Viveva nel demo di Peania. Quando Pisistrato volle tornare dall'esilio per ristabilire la tirannide, andarono a cercarla. La rivestirono di una ricca armatura, le mostrarono come avrebbe dovuto atteggiarsi per apparire ancora più imponente. Poi la fecero salire su un carro, che mosse verso Atene, preceduto da araldi. Questi annunciarono per la città che Pisistrato stava tornando, ricondotto all'acropoli dalla dea Atena, che lo aveva caro. «E i cittadini, convinti che la donna fosse la dea in persona, veneravano una creatura umana e accoglievano Pisistrato».


Erodoto commenta che questo inganno «fu di gran lunga il più ingenuo - da quando almeno, in antico, si separò dai barbari la stirpe ellenica, che era più accorta e più aliena da puerile ingenuità». Ma, come sempre, è l'inganno a svelare una verità che altrimenti potrebbe sfuggire. Quel secondo ritorno di Pisistrato avveniva nell'anno 541, pochi decenni prima dell'acme di Eraclito. I cittadini di Atene, pur immensamente accorti nel condurre la lotta politica, erano anche pronti ad accogliere la possibilità che un giorno la dea Atena entrasse su un carro nella loro città.

È facile immaginare quale sorte abbia avuto presso gli storici quella che Gaetano De Sanctis definì « l'assurda narrazione della donna formosa che, sotto le spoglie mentite di Pallade, avrebbe scortato Pisistrato in città ». Si sa che è un vezzo antico degli studiosi additare la «puerile ingenuità» di Erodoto, come già Erodoto aveva additato la «puerile ingenuità» dei barbari.


Rimane il fatto che Aristotele, dal quale ogni studioso dell'antichità classica ha tratto il modello della razionalità, racconta il secondo ritorno di Pisistrato negli stessi termini di Erodoto, anzi aggiungendo qualche precisazione sulla figura di Phye, e così esacerbando ancor più Gaetano De Sanctis con « ciance senza valore che attestano soltanto lo scarso senso storico di chi le ha raccolte». Scrive Aristotele: «Undici anni dopo, Megacle, messo alle strette dalla propria fazione, iniziate trattative con Pisistrato a patto che questi sposasse sua figlia, lo fece ritornare in modo degno degli antichi tempi e davvero semplice. Sparse la notizia che Atena riconduceva Pisistrato e, trovata una donna imponente e bella, del demo di Peania, come dice Erodoto, o del demo di Collito, come dicono altri, una fioraia di origine tracia, di nome Phye, dopo averla abbigliata in modo da imitare la dea, la fece entrare in città insieme con lui - e Pisistrato compì il suo ingresso in città sul carro, con la donna a fianco, e i cittadini prostrati l'accolsero pieni di meraviglia».


Il particolare più rilevante, nel testo di Aristotele, è il giudizio stesso sul ritorno di Pisistrato: «degno degli antichi tempi e davvero semplice». Un secolo prima, Erodoto doveva ancora sforzarsi di esercitare quella nuova e prodigiosa virtù ellenica che era la accortezza «aliena da ogni puerile ingenuità». Perciò era tenuto a presentare il ritorno di Pisistrato come un fatto quasi inverosimile.


Il più sobrio Aristotele vedeva già, invece, con occhio pienamente moderno. E appunto per questo non esprimeva alcuna perplessità sui fatti, riconoscendo in quel ritorno guidato dalla dea-fioraia un'ultima apparizione di un mondo perduto, dove la linea di separazione fra gli dèi e i mortali era ancora avventurosa e fremente. Il ritorno di Pisistrato poteva davvero essere giudicato «degno degli antichi tempi», quando il potere della metamorfosi era ancora tale che una fioraia poteva essere scambiata per una dea nelle strade di Atene.

da Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, 1988

Amicizie maschili e amicizie femminili (Dino Buzzati)

Dino Buzzati
Vedete? Se due uomini diventano amici, questo legame durerà intatto e valido fino alla morte, anche se i due stanno degli anni senza neppure vedersi: e non lo potranno intaccare né gli amori, né la famiglia, né i pettegolezzi, né i rovesci di fortuna. Tra le donne è diverso: dall'oggi al domani amicizie di intensità addirittura morbosa si dissolvono nel nulla. L'amicizia tra due uomini è un blocco di granito, quella tra due donne — e mai come qui l'eccezione confermi la regola — a me fa l'impressione di una creatura fragile, maledettamente esposta ai morsi dell'invidia, della gelosia, della maldicenza, dei rispetto umano, dell'ambizione, delle differenze sociali, degli interessi di famiglia. E basta un niente perché si ammali, basta poco perché tiri le cuoia.
Perché?

Siamo spiacenti di..., Mondadori, 1975

Ottocento bifronte (Michele Nani)

Umberto Boccioni, Contadini al lavoro
«Ora la fede se ne va e la scienza viva e completa non è venuta ancora. Perché dunque glorificare tanto questi tempi che i più ottimisti chiamano di transizione?»: poco prima dell'Unità italiana, così si interrogava Ippolito Nievo per mezzo del suo alter ego Carlino Altoviti, uno fra i tanti che «non credono più e pur vogliono ancora pensare in questo secolo di transizione». Sottolineandone il carattere bifronte, di quell'epoca «in transizione» offre ora un profilo di sintesi Salvatore Lupo con Il passato del nostro presente. «Il lungo Ottocento è il passato che più ha influenzato il nostro presente»: perché è stata l'epoca di un «grande mutamento», profondo e accelerato, se messo a confronto con i tempi graduali delle trasformazioni dei millenni precedenti. Si è trattato di un cambiamento durevole, destinato a segnare una svolta irreversibile nella storia dell'umanità, a partire dalle grandi rivoluzioni in America e in Francia, dall'industrializzazione e dalla diffusione della «nuova politica» (liberalismo, democrazia, nazionalismo, socialismo). Ciò non significa, ricorda però Lupo, che gli uomini e le donne del XIX secolo vivessero in un mondo simile al nostro: le loro vite furono segnate da «oppressive continuità» con i secoli precedenti, dalla fame come dal dominio della religione, dal peso di rapporti sociali tradizionali come da ostacoli all'emancipazione giuridica di donne, lavoratori, minoranze e sudditi coloniali destinati a persistere fino al nuovo secolo.

Un lascito ambivalente
Ai vecchi imperi (russo, asburgico, ottomano) si affiancarono nel corso dell'Ottocento imperialismi di tipo nuovo, come l'esperienza napoleonica, il dominio su buona parte dei mari e delle terre emerse che rese possibile l'egemonia economica britannica (e lo stesso «modello» politico inglese), ma anche l'espansionismo statunitense ai danni dei nativi e del Messico. Al cuore del secolo Lupo colloca il 1848, la più grande ondata rivoluzionaria della storia europea, alla quale fece seguito il primo boom capitalistico e una serie di conflitti armati che ridisegnarono la carta politica europea (le guerre per l'unificazione tedesca e italiana) e segnarono il destino di una nuova potenza extraeuropea (la guerra civile americana).
La seconda metà del secolo fu animata dalla dialettica fra globalizzazione (commerciale, coloniale, ma anche migratoria) e rafforzamento degli Stati e delle economie nazionali. Lo scontro internazionale si dispiegò sul piano delle politiche di potenza, ma soprattutto su quello della forza economica, per giungere a un punto critico quando Germania, Stati Uniti e Giappone minacciarono il primato industriale britannico. Analogamente, sul piano delle ideologie e delle culture diffuse, si affermarono prospettive universalistiche (su tutte l'«internazionalismo proletario» socialista), che vennero però contrastate da reazioni aggressive, come il nazionalismo xenofobo, il razzismo coloniale e contro gli immigrati, l'antisemitismo.
Il «lungo» XIX secolo finì con la più tragica delle esperienze, la prima guerra mondiale, una strage di dimensioni mai viste fino ad allora. Lupo rifiuta la contrapposizione fra un pacifico Ottocento e un buio Novecento, ma invita comunque a considerare il lascito del «migliore» Ottocento. Lo sviluppo economico, l'accesso alla cittadinanza, la fine del colonialismo, l'egualitarismo dei diritti sociali rappresenterebbero il prolungamento novecentesco di processi avviati nel secolo precedente. Per questo il libro si chiude con un invito a far nostra la «fede nel progresso» caratteristica dell'ormai lontano XIX secolo e, viene da aggiungere, oggi minata dalla consapevolezza della distruzione sociale e ambientale portata dal capitalismo dei consumi.
Genere ingrato, la breve sintesi di «storia generale» deve fare i conti con scelte drastiche. Lupo esplicita chiaramente le proprie: si concentra sulla storia dell'attuale Occidente e riserva un quarto circa dello spazio alla storia d'Italia; preferisce dar conto di «eventi» e «idee» e rivolge minor attenzione alla storia economica e sociale, al lavoro, alla famiglia e alle donne; sottrae pagine alla narrazione per renderla più articolata, inserendo paragrafi dedicati alla storiografia sull'Ottocento (nei quali la revisione di Furet si alterna a quelle post-coloniali e globali di Said, Anderson e Bayly), al «discorso politico» (da Montesquieu a Marx e Engels) o ad alcune opere letterarie dell'epoca (come i Miserabili di Hugo e Cuore di De Amicis).
La tirannia dello spazio si allenta, invece, quando si affrontano studi più circoscritti, che presentano anche l'altro, prezioso vantaggio di introdurre il lettore nelle dinamiche più minute delle società del passato, come nel caso di due avvincenti ricerche sull'Ottocento italiano.
Il patriota traditore di Gianluca Albergoni si sofferma su una vicenda apparentemente «minore», quella di Pietro Perego, un uomo del Risorgimento che finì i suoi giorni fra i sostenitori dell'Impero asburgico. L'itinerario del milanese Perego prese le mosse da una famiglia piccolo-borghese, che riservò al figlio unico la migliore educazione e un supporto continuo. Precocemente attivo nel campo letterario, appena diciottenne Perego prese parte al Quarantotto milanese come giornalista e militante, poi partecipò ai tentativi insurrezionali nel Comasco e, ancora, fu tra i protagonisti del dibattito politico nel Piemonte del 1848-49.
Con la sconfitta dei sogni patriottici anche un mazziniano fu costretto a fare i conti con la realtà: fece così ritorno nella città natale, ove sfruttò la relativa tolleranza della nuova restaurazione asburgica. Ma nel 1851 Perego era di nuovo a Torino e, a causa di una pubblicazione colma di livore contro i repubblicani federalisti, si ritrovò emarginato anche dagli ambienti più radicali del fronte patriottico e dovette incamminarsi sulla strada dell'esilio.

Traiettorie intellettuali
La disillusione e le difficoltà materiali, che lo portarono anche all'arruolamento mercenario nella legione anglo-svizzera, lo convinsero poi a rientrare ancora a Milano nel 1857, sfruttando l'amnistia imperiale. Deluso dalla politica risorgimentale, rimase attivo nel giornalismo e nella letteratura, assumendo posizioni apertamente contrarie al moto unitario e politicamente sempre più conservatrici. Morì nel 1863, consumato da molteplici frustrazioni e dall'alcol, forse avvelenato da sicari del partito clericale, con il quale era entrato in rotta di collisione.
Per quanto lo scavo nelle peregrinazioni, nelle prese di posizione e negli scritti di un personaggio di secondo piano sia incredibilmente approfondito e testimoni delle straordinarie possibilità offerte da un buon uso degli archivi ottocenteschi, Il patriota traditore non è una biografia tradizionale. La traiettoria di Perego rappresenta infatti, negli intenti dell'autore, un caso particolarmente efficace per ritornare criticamente su importanti problemi storiografici. Al di là del racconto «eroico» o «romantico», molti intellettuali della generazione risorgimentale si dedicarono alla politica e alla letteratura come leve di affermazione sociale. L'inerzia del quadro nel quale si muovevano non sminuisce, anzi ci fa comprendere la forza delle loro aspettative e ambizioni, le ragioni per cui scelsero di farsi «patrioti».

Successi e fallimenti
Albergoni mostra come i contesti ci aiutino a capire le variegate modalità di appropriazione del discorso nazionale. Nelle quotidiane lotte dei patrioti per quel riconoscimento pubblico capace di dar senso alla loro vite, la duttile retorica nazionale si piegò infatti a molteplici usi. Come mostra esemplarmente la vicenda di Perego, a volte il discorso patriottico sottolineava la dimensione culturale, comunitaria e prepolitica della nazione, altre volte si faceva strumento di lotta politica (anche interna fra patrioti), mentre in casi estremi poteva giungere a negare l'unità stessa della nazione (nel repubblicanesimo antiaristocratico) o a riconciliarsi con le istituzioni imperiali asburgiche, rinunciando all'indipendenza politica. Quegli usi e, più in generale, i diversi esiti politici della generazione risorgimentale non furono frutto di scelte astratte, ma risultarono influenzati dal profilo dei singoli, dalle distanze sociali che li separavano, dai campi nei quali scelsero di operare: elementi che condizionarono pesantemente il successo personale o, come nel caso di Perego, il fallimento politico ed esistenziale dei patrioti.
L'ultima ricerca di David Kertzer porta ancor oltre il tentativo di una storia sociale dell'Ottocento italiano: La sfida di Amalia racconta, con felice taglio narrativo, le vite di una famiglia di contadini, nel contesto delle relazioni fra le diverse classi sociali del Bolognese di fine secolo. Alle origini del volume si trova un processo scaturito dalla denuncia di Amalia Bagnacavalli, contadina di Oreglia di Vergato, contro l'Ospizio degli Esposti. Seguendo una consuetudine secolare, le famiglie contadine integravano i propri redditi accogliendo sin dalla più tenera età gli «esposti», cioè i bambini abbandonati a migliaia nelle città dell'epoca e accolti nei primi giorni di vita dai brefotrofi. Nell'Italia postunitaria questi ospizi divennero pubblici e alla cura degli esposti era destinata una delle più alte spese sociali dell'epoca. Oltre che di madri non sposate, molti di questi bimbi erano figli di prostitute e alcuni di loro nascevano già malati di sifilide, che trasmettevano alla balia nell'atto stesso di succhiare il latte.
Questa modalità di contagio, nota da secoli, destinava le nutrici a cure dolorose a base di mercurio e, generalmente, alla morte, destino che sovente condividevano con qualche famigliare. Nel 1890 un bambino trasmise la sifilide ad Amalia, il medico condotto del paese le diagnosticò il male e la indirizzò allo studio di un giovane e intraprendente avvocato bolognese. Di origini borghesi, Augusto Barbieri era fortemente critico della politica e dell'amministrazione postunitaria. Colse l'occasione per tentare di farsi un nome, ergendosi a difensore della giustizia e sferrando un attacco alla gestione degli ospedali e alla figura del suo presidente, il conte Francesco Isolani, uno dei più importanti membri dell'aristocrazia locale.

La contadina e il conte
Isolani e la dirigenza medica erano accusati di negligenza e di non essersi presi cura della sicurezza di una persona legata a loro da un rapporto di lavoro. Avevano un fondamento queste accuse? Gli esiti negativi delle sperimentazioni con latte vaccino ponevano i brefotrofi nella drastica alternativa fra due rischi: rimandare l'affido, per attendere qualche mese le manifestazioni piene della sifilide, mettendo così a repentaglio, per l'inevitabile malnutrizione, le vite di centinaia di bambini; oppure, dopo una precoce visita medica, consegnare i nuovi nati alle balie e indennizzare sommariamente, in cambio del silenzio, quelle che si fossero ammalate. Quest'ultimo era generalmente ritenuto il male minore. Una soluzione vera e propria sarebbe venuta solo con il nuovo secolo, con l'identificazione del batterio responsabile della sifilide e la messa a punto di nuove cure, ma soprattutto dopo la prima guerra mondiale, con la pastorizzazione e il latte artificiale. Tuttavia già ai tempi di Amalia esistevano specifiche direttive nazionali per prevenire il contagio alle quali l'ospizio bolognese non si era attenuto.
 Fra perizie, controperizie e ricorsi, il processo si trascinò fino al 1897 e incoraggiò le denunce di altre nutrici, oltre che un fitto dibattito pubblico. Lasciamo al lettore la curiosità sull'esito giudiziario e sul percorso di Amalia e dei suoi famigliari. Le loro vicende sono potute emergere grazie agli atti processuali, che restano una delle fonti privilegiate per la storia delle classi subalterne, ma anche grazie al mutamento storico ottocentesco: che una contadina analfabeta portasse in giudizio un conte era reso possibile dal contesto postunitario, dalla costruzione di uno Stato di diritto e dalla crisi dell'egemonia ecclesiastica e nobiliare a opera di una nuova e aggressiva borghesia urbana. Con indubbia maestria - e con l'aiuto di uno studioso «indigeno», Giancarlo Dalle Donne - Kertzer si è mosso fra numerosi fondi d'archivio ed è riuscito nell'impresa di ripercorrere alcune fragili vite contadine ottocentesche e di renderle accessibili a un pubblico più vasto di quello degli studiosi di storia.

“il manifesto”, 29 marzo 2011

26.6.13

"L'associatu". Ovvero il mafioso comunista.(S.L.L.)

Campobello di Licata, la piazza principale negli anni 60
Per i depositari della tradizione orale del mio paese natìo, Campobello di Licata (tra sopravvissuti e cultori della materia non si supera la dozzina) l'associatu è la grande retata del prefetto di ferro, Mori, nel 1929, e il processo che ne scaturì. Quanto all'etimo ci sono due possibili spiegazioni: il termine allude al reato di associazione a delinquere o al fatto che ognuno degli arrestati - secondo l'uso dei dispacci d'epoca - veniva "associato" al carcere agrigentino di san Vito.
Nella retata, e forse anche nei processi, si usarono metodi che coinvolsero persone che nulla avevano a che vedere con le cosche. La violenza della repressione indiscriminata, del resto, lasciò tracce nella memoria collettiva di tutto il popolo siciliano. Girolamo Li Causi fu il capo comunista che con inaudito coraggio sfidò la mafia e la sua potenza di fuoco, fin nei suoi covi considerati inaccessibili; pagò col sangue (una ferita grave da cui guarì con qualche menomazione) il suo comizio a Villalba ove osò chiamare a confronto il capo di Cosa Nostra, "don" Calò Vizzini, e i suoi accoliti, ottenendone fucilate. Eppure, nella battaglia politica, fu proprio Li Causi a coniare il motto, caro a Leonardo Sciascia, "né mafia né Mori", espressione della volontà di combattere il potere criminale rispettando lo stato di diritto.
Nell'associatu, come che che sia, vennero coinvolti piccoli delinquenti (scassapagliara) e perfino alcuni innocenti che dopo alcune settimane vennero liberati; ma nella rete rimasero impigliati anche alcuni "pezzi da novanta", tra cui quel Calogero Sferrazza di cui c'è traccia in questo blog; e uno dei suoi fratelli, Rocco, che non era un capo, ma aveva a suo carico più di un omicidio. Insomma lo rinchiusero "in collegio" (così si dice in gergo), donde uscì alla Liberazione, senza di finire di scontare la pena che, se non ricordo male, era vicina ai trent'anni.
Si sposò subito, seguendo le strategie d'alleanza matrimoniale tipiche del suo mondo, con una Montaperto, Rosina credo, di quella famiglia che avrebbe espresso un capo riconosciuto della mafia, Antonino, e un sindaco e segretario provinciale della Dc, Vito figlio di Antonino, ucciso in un agguato del 1953, forse per la sua volontà di recidere certi legami.
Rocco Sferrazza nel dopoguerra non venne coinvolto in nessun fatto criminale e appariva uomo simpatico e pacifico. Per alcuni anni gestì proprio al centro della piazza un caffè, che all'apertura fece scalpore per gli specchi che lo arredavano. Per un po' di tempo funzionò anche da ristorante per i rappresentanti di passaggio che non amavano la plebea "taverna": lo zio Rocco faceva il cuoco. Ma il lavoro non faceva per lui e abbastanza presto diede quel bar in gestione ad altri.
Nei periodi natalizi, ma solo negli anni in cui i carabinieri avevano l'ordine di non far giocare d'azzardo nel circolo dei possidenti e negli altri circoli, lo "zi' Roccu" apriva una bisca assai poco clandestina, nel sottotetto della sua casa, sulla piazza principale. Funzionava un sistema di comunicazione che da tetto a tetto avvisava dei movimenti dei gendarmi e un congegno per cui rapidamente scomparivano carte, sabot e altre tracce del baccarat e altrettanto rapidamente comparivano le focacce e i buccellati per fingere un incontro festivo e festoso di amici. C'era anche un bel presepe. Quando vennero i carabinieri furono costretti a cantare Tu scendi dalle stelle insieme ai giocatori.
Nella improvvisata bisca Rocco non tenne mai banco e neppure puntava: raccoglieva la tangente che in questo caso non si chiamava pizzu, ma masciu ("mastro"), una percentuale che retribuiva lo spazio occupato, le attrezzature necessarie e l'abilità del gestore. In compenso teneva banco nelle chiacchierate in piazza, sul grande marciapiede centrale chiamato scanaturi (spianatoia). Si proclamava poeta: in carcere aveva letto la Divina Commedia che ogni tanto citava o recitava a memoria, aveva avuto a suo dire le visioni (soprattutto della Madonna) e ne aveva tratto un lunghissimo poema autobiografico, Vita e visioni di Sferrazza Li Calzi Rocco.
Mi capitò di leggerne uno stralcio dalla prima parte, Allattamento, che s'apriva con un solenne: "Latte non mi ebbi dalla mamma / causa partorienza disastrata. / Avara fu per me l'amata donna / ed anche in ciò la sorte mi fu avversa, matrigna e tiranna". Vi raccontava come "poppando or da questa or da quella", venisse in braccio a una zitella ingannevolmente prosperosa: "Piansi quel giorno, piansi amaramente / causa succhiare vanamente". Il vecchio galeotto soleva dire che Dante lo "fotteva" per l'arte, ma non per la profondità dei concetti.
Quanto alla politica credo che nel voto si comportasse come i suoi congiunti Montaperto, ben inseriti nella Dc anche dopo la morte precoce del promettente sindaco; ma nei discorsi di piazza si prendeva molte libertà e si proclamava idealmente "comunista. "Dio - diceva - non tracciò confini e non elevò siepi, diede tutto a tutti, in comune. Poi gli uomini malvagi si accaparrarono le terre, le miniere, tutte le ricchezze e si nominarono re, principi e baroni. Ma Dio, furbo, creò la notte. Creò la notte e la pistola".