5.6.13

Caso Ilva, Riva non è l’eccezione (di Guido Viale)

Per capire di che cosa parliamo quando parliamo di privatizzazioni guardiamo l’Ilva. Riva ha comprato l’Italsider di Taranto (un «ferrovecchio», secondo lui che lo ha comprato; un gioiello, secondo Prodi che ne ha predisposto la vendita) una ventina di anni fa per una manciata di miliardi (di lire: cioè di milioni di euro). Da allora, ha instaurato in fabbrica un regime dispotico, che gli è valso due condanne per discriminazione (ma ne avrebbe meritate decine), ma che è costato agli operai centinaia di morti sul lavoro. Ha appestato la città con emissioni, reflui e rifiuti nocivi che hanno provocato migliaia di malattie e centinaia di morti. Ha macinato profitti per miliardi di lire, ma poi anche di euro, e ne ha imboscati molti in paradisi fiscali, rimpatriandone una parte esentasse grazie allo scudo fiscale di Tremonti. Ha sfruttato gli impianti senza investire se non lo stretto necessario per tenerli in funzione, mettendo in conto di abbandonarli, insieme a operai e città inquinata, quando non sarebbero più stati redditizi.

Riva non è un’eccezione: il resto dell’Italsider ceduta a privati come Lucchini e ora prossima al fallimento non è stata da meno. Ma le privatizzazioni degli anni ’90 hanno riguardato ben altro: le tre Banche di Interesse Nazionale e con loro quasi tutto il sistema bancario, compresa la Banca d’Italia (che, grazie al «divorzio» dal Tesoro, che da allora non la «controlla» più, oggi è «proprietà privata» delle banche che dovrebbe controllare…). Le quali, ingrossate e ingrassate, si sono dedicate soprattutto ad acquisizioni e a speculazioni fallimentari (grandi immobiliaristi alla Ligresti, grandi opere tipo Tav, titoli dello Stato, che si dissangua per loro). Se oggi il tessuto produttivo sta naufragando per il credit crunch lo dobbiamo a quelle privatizzazioni. Quanto al manifatturiero dell’Iri, oggi resta solo Fincantieri che è un covo di (presunti) delinquenti, vive di commesse militari e ha liquidato tutto il settore civile, motore di gran parte del settore metalmeccanico del paese. E Telecom prima è stata regalata a Fiat, poi a Bernabè, poi ai «capitani coraggiosi» di D’Alema, poi a Tronchetti Provera (che l’ha usata, sembra, per integrare il suo reddito con lo spionaggio; chi controlla i telefoni controlla tutti), poi di nuovo a Bernabè che ora la smembra con l’aiuto della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) cioè dello Stato nascosto dietro a una banca fintamente privatizzata. Ma anche Telecom era il motore di tutta la microelettronica italiana (un «gioiello» tecnologico avanzatissimo), che da allora è stata prima svenduta a multinazionali estere, poi svuotata del suo know-how e poi liquidata insieme, ovviamente, ai lavoratori del braccio e della mente che impiegava (sono storie di oggi: Jabil, Nokia-Siemesn, Lucent-Alcatel, ecc.). La chimica dell’Eni non ha avuto sorte diversa. Per non parlare della Fiat, che ha campato per decenni con gli aiuti di Stato e che oggi emigra negli Usa o in Serbia a seconda delle convenienze. E potremmo continuare…

Ma perché privatizzare tutte quelle imprese? E perché lo Stato non può rinazionalizzare l’Ilva, che è l’unica strada per bonificarla e non farla chiudere? «Ce lo chiede l’Europa» è la risposta falsa allora e falsa oggi: il «divorzio» tra Banca Centrale e Tesoro – poi trasferito a livello europeo, ciò che oggi ci inchioda a un’austerità paralizzante – ha preceduto quello di tutte gli altri paesi dell’Ue (e in quelli non-euro non è mai avvenuto). E in Italia sono state privatizzate tutte le banche pubbliche (che erano il 70 per cento del settore bancario), mentre Germania e Francia ne hanno privatizzato solo il 10 per cento. In Francia il settore elettrico è rimasto tutto in mano pubblica (e questo è un bene, visto che si tratta di impianti nucleari); ma è pubblico, molto più che in Italia, anche in Germania. E il Regno Unito, antesignano delle privatizzazioni all’epoca della Thatcher (poi superato dalle svendite del nostro paese) ha rinazionalizzato la rete ferroviaria di fronte alle pessime performances dei privati che l’avevano comprata. E potremmo continuare…

Ora è il turno dei servizi pubblici locali: le ex-municipalizzate su cui la finanza, dopo l’assalto a salari e pensioni, ha messo gli occhi per appropriarsene a spese della popolazione. Con un meccanismo semplice: il patto di stabilità interno strangola gli Enti locali – sui quali ricade l’80 per cento dei tagli della spesa pubblica – e costringe i Comuni, per «salvare i bilanci e non venir commissariati, a svendere le loro partecipazioni nelle ex-municipalizzate, ormai trasformate in Spa. I comuni non hanno più accesso al credito anche perché la Cdp, creata più di centocinquant’anni fa per finanziare a tassi agevolati gli investimenti degli Enti locali con il risparmio dei piccoli risparmiatori, è stata anch’essa privatizzata (all’italiana, cioè in modo fittizio). Ora non fa più credito ai Comuni, ma in compenso finanzia la privatizzazione delle loro «partecipate», o la loro concentrazione, per «portarle in borsa» e sottrarle definitivamente al controllo delle amministrazioni locali e della cittadinanza. Portarle in borsa significa renderle redditizie, cosa che si può fare soltanto aumentando le tariffe: cioè a spese degli utenti. Cent’anni fa le municipalizzate erano state create, con la legge Giolitti del 1903, e finanziate con la fiscalità generale, per portare acqua, fogne, elettricità, gas e trasporti in quartieri popolari dove gli abitanti non avrebbero potuto accedere a quei servizi se avessero dovuto pagarli a tariffa piena. Oggi quegli stessi servizi – più altri – vengono privatizzati perché ai Comuni non vengono più date le risorse per finanziarli. Ci pensano, con l’aiuto della Cdp e i soldi dei piccoli risparmiatori, i privati. Ma per finanziare i loro profitti con l’aumento delle tariffe: di chi può pagare. Perché agli utenti che non pagano il servizio viene sottratto: le linee di trasporto pubblico (bus e treni) che non sono redditizie vengono tagliate e la fornitura di beni essenziali come l’acqua viene bloccata, come insegna l’esperienza della società Acqua Latina…

«È l’Europa che ce lo chiede» continuano a blaterare i nostri governanti. Falso. Non ce lo chiede affatto l’Europa (altri paesi si comportano differentemente), ma ci viene imposto dai patti finanziari scellerati che i nostri governanti hanno sottoscritto. Patti che come sono stati firmati possono venir revocati; soprattutto se a pretenderlo fossero non un solo governo, ma tutti quelli dei paesi che da quei patti vengono trascinati verso la catastrofe.

Ma che cosa c’è dietro quei patti? All’inizio, la volontà di bloccare spesa pubblica e salari, accusati di essere la causa dell’inflazione: è la grande svolta degli anni ’80 che ha aperto l’era del liberismo e del pensiero unico, quello del «Non c’è alternativa». Da quella svolta molti (il 99 per cento forse no; ma quasi) ci hanno perso, e parecchio; ma qualcuno ci ha guadagnato, e ancora di più. A guadagnare è stata la finanza, la forma che il potere del capitale ha assunto nell’epoca della globalizzazione.

Ma guardiamo le cose un po’ più da vicino, per esempio nei consigli di amministrazione e nel management delle società: private, privatizzate o ancora (formalmente) pubbliche, o di organismi di indirizzo e controllo. Scopriamo che ciascuno dei membri di questa élite è presente, contemporaneamente o in successione, in molte di queste imprese o di questi organismi; anche se sono tra loro concorrenti o in un rapporto di controllore e controllato. Di più: il loro curriculum non è fatto di saperi e competenze (come ci hanno dimostrato, per esempio, il prof Monti, la prof. Fornero o il prof. Profumo nella passata compagine governativa: la loro incompetenza in tutto ciò di cui si sono occupati è addirittura proverbiale; e ne portiamo tutti le conseguenze), bensì del cumulo dei loro incarichi: che è ciò che permette loro di agire «in rete»; di consolidare reciprocamente il loro potere e di coprire a vicenda le loro responsabilità (che cosa non hanno fatto Monti, Passera e Clini per coprire le responsabilità dei Riva; o dei dirigenti di Finmeccanica, di Fiat, di Eni, ecc!).

Insomma, rinazionalizzare, o riportare comunque sotto una gestione pubblica, è in molti casi – e non solo in quello dell’Ilva – indispensabile. Ma non basta (anche l’Italsider prima dei Riva non è cosa da rimpiangere; come non lo sono molti servizi pubblici locali ancora sotto un formale controllo dei relativi Comuni). Ci vuole un controllo dal basso della gestione di queste società: da parte delle maestranze, ma anche della cittadinanza attiva e delle loro associazioni; e di amministrazioni locali a cui si imponga di assumersi responsabilità dirette nella loro gestione. Dobbiamo puntare, e in fretta, alla creazione di una nuova classe dirigente in grado di aprirsi – quando verrà il momento; e non è lontano. In molti casi è già arrivato – a nuove forme di gestione democratica e partecipata. Perché le classi dirigenti attuali sono inemendabili e ci stanno conducendo al disastro.

"il manifesto", 29.5.2013

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