11.7.13

Roma, 9 settembre `43: la fuga ingloriosa del Savoia (Denis Mack Smith)

Una pagina di storia italiana, raccontata da un grande storico inglese. (S.L.L.)

Vittorio Emanuele III di Savoia, il re soldato
Nelle prime ore del 9 settembre, poiché il lancio su Roma delle truppe aviotrasportate del generale Taylor era stato annullato, Vittorio Emanuele dovette scappare in gran fretta dalla capitale, lasciando dietro di sé dei semplici ordini verbali, così ambigui da risultare incomprensibili. Non nominò nessuno che potesse agire in suo nome con chiara autorità. L'intero esercito fu abbandonato a se stesso e fu fatto in gran parte prigioniero dai tedeschi. Il re, fuggendo, si lasciò alle spalle anche Mussolini, che fu liberato dalle truppe germaniche, le quali di lì a poco sarebbero diventate padrone della maggior parte della penisola. Le due divisioni tedesche di stanza nei pressi di Roma avevano temuto fino all'ultimo di essere costrette a ritirarsi verso nord. Inferiori numericamente, erano riuscite ad ingannare Ambrosio sulla loro consistenza e il loro armamento, ma non si immaginavano di poter occupare Roma. Più tardi ammisero che un aerosbarco americano le avrebbe messe nei guai. Ma purtroppo le truppe italiane erano così demoralizzate che riuscirono ad ingaggiare solo qualche isolato combattimento. Se avessero avuto ordini chiari e buoni comandanti, le divisioni di Carboni avrebbero potuto affrettare di molto la liberazione del loro paese. Quanto meno, avrebbero potuto ostacolare molto di più lo spostamento dei rinforzi tedeschi verso la zona critica di Salerno, dove era in corso una delle battaglie decisive della guerra. Dopo gli ultimi avvenimenti, Eisenhower dovette prendere atto che il governo del re non era un alleato di cui ci si potesse fidare. Al comandante alleato Badoglio aveva dato le più ampie assicurazioni che Mussolini era custodito in luogo sicuro. Castellano, inoltre, gli aveva fatto sperare che fosse già pronto un piano per proteggere contro i tedeschi i porti e gli aeroporti più importanti; aveva parlato anche di una resistenza popolare che avrebbe effettuato interruzioni della rete ferroviaria e atti di sabotaggio.
(…)
Ma purtroppo i generali a Roma temevano la formazione di gruppi partigiani che avrebbero potuto avere idee rivoluzionarie o antimonarchiche. Non meno deludente per Eisenhower fu la decisione di Badoglio di annullare quel lancio di paracadutisti su Roma che era stato richiesto dalle stesse autorità italiane. I rischi dell'operazione erano stati attentamente calcolati e il suo improvviso annullamento fu deplorato da alcuni comandanti italiani, mentre nell'alto comando alleato c'era chi considerava addirittura quell'aerosbarco uno dei piani strategici più interessanti di tutta la guerra.
Quasi altrettanto rovinoso fu il sospetto che la richiesta del lancio dei paracadutisti potesse essere stata un astuto stratagemma delle autorità italiane per ostacolare l'invasione angloamericana della penisola. Il generale Carboni, incaricato della difesa di Roma, non ebbe mai l'intenzione di favorire l'operazione delle truppe aviotrasportate, perché altrimenti avrebbe fatto preparativi molto diversi prima dell'8 settembre. Aspettò fino alle undici a bloccare l'operazione. Poi affermò una cosa che, come capo dei servizi di informazione, sapeva essere falsa: e cioè che gli aeroporti intorno a Roma erano occupati dalle truppe tedesche. Dopo aver prima dichiarato che i suoi reparti motorizzati erano in perfetta efficienza, più tardi affermò che non aveva né la benzina né le munizioni necessarie per appoggiare un attacco diretto degli alleati sulla capitale. Ma, come doveva sapere, esistevano scorte abbondanti di combustibile e di munizioni, che furono abbandonate nelle mani dei tedeschi.
(...)
Vittorio Emanuele aveva detto già da alcune settimane che se gli avvenimenti avessero preso una brutta piega, avrebbe abbandonato Roma. Aveva sperato, tuttavia, di essere lasciato in pace da entrambe le parti belligeranti. Passò la notte fra l'8 e il 9 settembre al ministero della Guerra con Badoglio e Ambrosio. Ma, con grande sorpresa di molti suoi generali, mentre i tedeschi avevano piani dettagliati per qualsiasi eventualità, il governo italiano non ne aveva nessuno, salvo l'intento di rimanere neutrale il più a lungo possibile. Nonostante i numerosi appelli che venivano dagli ufficiali di grado inferiore al comando delle unità operative, l'unico ordine concreto emanato da Badoglio nella notte fra l'8 e il 9 settembre fu quello di non prendere alcuna iniziativa contro i tedeschi, perché sperava ancora che questi non avrebbero reagito. Solo all'alba del 9 settembre, quando giunse notizia di alcuni scontri tra truppe italiane e tedesche, si capì che i tentativi di dilazione erano falliti e che stavano per cominciare seri combattimenti. Ma neanche allora fu dato l'ordine di organizzare la resistenza; furono invece fatti i preparativi per abbandonare la capitale al suo destino. Da Eisenhower giunse l'appello perché «fossero immediatamente chiamati a raccolta tutti gli italiani di sentimenti patriottici» ed «ogni tedesco fosse preso per la gola»; ma esso non ebbe alcuna risposta, perché un simile piano non rientrava nei propositi del governo.
Il re, come sempre, mantenne la calma, ma Badoglio, in preda al panico, fu incapace di prendere qualsiasi decisione razionale. Prima di lasciare Roma, dimenticò - o forse omise intenzionalmente - di telefonare agli altri ministri per avvertirli che partiva e per dir loro dove era diretto, se dovevano accompagnarlo o se dovevano organizzare in altro modo il governo. Se avesse avuto la certezza che Roma non era difendibile, avrebbe potuto elaborare dei piani per una simile eventualità e avrebbe potuto organizzare una ritirata che consentisse al grosso dell'esercito di continuare la lotta altrove. Ma, suscitando il disgusto di alcuni comandanti di unità operative, fu lasciato soltanto un ordine vago e contraddittorio (scritto a matita e non firmato) su come avrebbero dovuto comportarsi i soldati che restavano a Roma. In questo modo, una situazione militare tutt'altro che perduta fu pregiudicata in modo gravissimo. La cosa più inspiegabile è che, in sei settimane, il governo aveva avuto tutto il tempo per elaborare dei piani di emergenza. Non si spiega neppure perché il re, come capo dello Stato e comandante supremo delle forze armate, prima di abbandonare la capitale il 9 settembre non avesse lasciato chiare istruzioni ai suoi ministri e generali, dicendo loro ciò che avrebbero dovuto fare. Mentre il 25 luglio Vittorio Emanuele aveva voluto rivendicare la sua supremazia sui ministri e apparire come l'interprete dell'interesse nazionale, il 9 settembre non manifestò alcun indizio di voler avere voce in capitolo.
In due giorni di confusione, al ministero degli Esteri e a quello della Guerra gli archivi furono dati alle fiamme: un fatto che ha contribuito a confondere e a rendere difficile la ricostruzione del corso degli avvenimenti in un periodo così cruciale della storia nazionale. Mentre i ministri e i soldati venivano abbandonati alla loro sorte, tutti gli ufficiali di Stato Maggiore si eclissarono, molti in abito civile per sfuggire alla cattura. I tedeschi furono ben lieti di vederli andar via e non fecero alcun tentativo di fermare il convoglio delle limousine reali ai vari posti di blocco lungo la strada per Pescara. Nel piccolo porto di Ortona si assisté a una zuffa indecorosa quando duecento generali e colonnelli apparvero inaspettatamente sulla banchina, lottando invano per imbarcarsi su una piccola corvetta destinata a trasportare la comitiva reale nell'Italia meridionale. Il 10 settembre, durante la traversata, il re inviò un telegramma all'ottantunenne maresciallo Caviglia, con l'ordine di coordinare la difesa di Roma. L'invio di quel messaggio dimostra che finalmente il re si era reso conto di avere sbagliato; ma l'ordine non giunse mai a destinazione e in ogni caso era stato spedito troppo tardi. Alcuni reparti militari italiani a Roma combatterono coraggiosamente ed efficacemente contro i tedeschi, ma il grosso dell'esercito, privo di ordini e senza capi, si disgregò. Ad illustrare la portata di questa tragedia, si può fare il confronto con il comportamento della marina: il grosso della flotta italiana si unì subito agli alleati, non appena l'ammiraglio De Courten si assunse la responsabilità di dare con chiarezza quell'ordine.
Il conte Calvi di Bergolo, genero di Vittorio Emanuele, e il ministro della Guerra Antonio Sorice furono forse gli unici due generali che disobbedirono all'ordine regio di abbandonare le truppe e di unirsi agli altri ufficiali nella precipitosa fuga verso Pescara. Il principe ereditario Umberto fu udito criticare, forse per la prima volta in vita sua, un ordine del padre; ma obbedì anche lui e abbandonò, sia pure con riluttanza, il suo posto di comando. E' interessante osservare, a riprova del carattere estremamente chiuso e riservato di Vittorio Emanuele, che Umberto, il quale stava per compiere trentanove anni, non era stato consultato prima che fosse presa quella drammatica decisione. E nelle sei settimane precedenti, non era stato neppure informato delle trattative di armistizio. Come i suoi predecessori, Vittorio Emanuela era geloso del suo erede; non voleva che altri gli parlassero di politica; e non aveva voluto prepararlo agli ardui compiti della successione, con risultati negativi per la sopravvivenza della dinastia.
Un'altra infelice omissione fu quella di lasciare Mussolini prigioniero sulle pendici del Gran Sasso, dove fu liberato dai paracadutisti tedeschi il 12 settembre. Il re, partendo da Roma, aveva accennato alla possibilità che i tedeschi tentassero quell'impresa, ma non aveva pensato di trasferire il prigioniero in un posto più sicuro. Purtroppo la liberazione di Mussolini permise all'ex duce di costituire nell'Italia del Nord un governo fascista repubblicano, che per altri diciotto mesi aggiunse agli orrori della guerra quelli di una terribile guerra civile. Il re forse si sentiva legato alla promessa fatta al suo ex capo del governo, di garantirgli l'incolumità personale. Non è senza interesse che continuasse a parlare con simpatia del leader fascista, mentre quest'ultimo ebbe solo parole di odio e di disprezzo per l'uomo che chiamava Vittorio Savoia e definiva un «piccolo delinquente». Nonostante l'offerta iniziale di collaborare col regime badogliano, Mussolini, appena libero, definì Vittorio Emanuele il più grande traditore della storia, che aveva seguito le tradizioni della sua dinastia nello schierarsi coni nemici della patria, facendo entrare in Italia un esercito di «ottentotti, sudanesi, indiani venduti, negri statunitensi ed altre varietà zoologiche».
Allo sbarco a Brindisi, il re diffuse una dichiarazione per giustificare il suo cambiamento di fronte e per spiegare la fuga da Roma come atto necessario per salvaguardare l'esistenza di un governo libero; aggiunse che, lungi dal fuggire il pericolo, egli era pronto anche a morire per la salvezza del proprio paese. In un altro proclama ammise che, contrariamente a quanto era stato detto ad Eisenhower, nel firmare l'armistizio non c'era stata alcuna intenzione di impegnarsi più a fondo e di combattere contro i tedeschi; era stato solo l'inatteso attacco di questi ultimi a Roma che aveva costretto Vittorio Emanuele a trasferirsi al Sud ed egli non aveva ancora nessuna intenzione di dichiarare guerra alla Germania.
Ovviamente, erano stati i suoi ministri i principali responsabili dei catastrofici errori del settembre 1943. Il re arrivò persino a dire che essi non gli avevano mai fatto conoscere le clausole dell'armistizio; ma su questo punto mentiva o dava prova di un'incredibile incompetenza. Nei mesi successivi, Vittorio Emanuele manifestò una fortissima antipatia per Badoglio. Criticava il suo primo ministro per una supposta mancanza di zelo nel difendere gli interessi della corona, mentre in realtà Badoglio faceva di tutto per escludere dal governo di Brindisi gli oppositori della monarchia. Badoglio cercò inoltre di convincere gli alleati che a guerra finita non si sarebbe dovuto assolutamente permettere al popolo italiano di modificare la costituzione esistente, perché gli italiani erano inadatti all'autogoverno e ad assumere decisioni politiche autonome; ma questo suo discorso cadeva nel vuoto sia a Washington sia a Londra.
Eisenhower mise a capo della Commissione alleata di controllo, con sede a Brindisi, il generale inglese Mason-Macfarlane, assistito da due ministri civili, l'americano Robert Murphy e l'inglese Harold Macmillan. Ad essi il re spiegò nuovamente quanto sarebbe stato pericoloso consentire al popolo italiano di votare per scegliere tra la monarchia e la repubblica. Murphy, in seguito, ricordò Vittorio Emanuele come «un politico molto più abile di quanto la maggior parte della gente fosse disposta a credere; egli non trascurò nessun accorgimento che potesse in qualche modo ritardare il suo destino». I due inglesi ne furono un po' meno impressionati: a loro giudizio, il re era un uomo triste, querulo, ostinato, che metteva caparbiamente gli interessi della dinastia al di sopra di quelli dell'Italia. Macmillan lo descrisse fisicamente infermo, nervoso, tremulo, ma gentile, con una certa modestia e semplicità di carattere che attrae. Ha una concezione obiettiva, e direi persino distaccata e divertita, dell'umanità e delle sue follie. «Le cose non sono difficili», diceva; «solo gli uomini lo sono». Non credo che fosse capace di prendere una qualsiasi iniziativa politica, se non sottoposto a una fortissima pressione.
Altre volte il re spiegò loro che egli era pessimista per l'avvenire politico del paese: «In Italia la politica è sempre difficilissima perché il popolo ha opinioni troppo diverse. Difatti tutto in Italia è difficilissimo. Anche la vita stessa».
Il re reagì alla sconfitta con un atteggiamento orgoglioso, non esente dal puntiglio e qualche volta dalla presunzione. Per qualche tempo continuò ad attribuirsi i titoli di re d'Albania e imperatore d'Etiopia, sostenendo con una certa pedanteria che in una monarchia costituzionale solo il Parlamento avrebbe potuto mutarli. Trovava sconcertante, come molti altri italiani, che Mason-Macfarlane osasse presentarglisi davanti in maniche di camicia e calzoni corti, cosa che non dava alcun fastidio al re d'Inghilterra. Indubbiamente era molto sensibile all'idea che l'abbandono di Roma potesse essere interpretato come una diserzione nel momento del pericolo e dovette essere molto allarmato quando il Comitato di liberazione nazionale condannò, con voto unanime, il fatto che egli non avesse impartito alcun ordine di resistenza mentre si affrettava a mettersi in salvo. Una tipica reazione fu quella di Arturo Toscanini che si rifiutò di rivolgere ancora la parola al «codardo e degenerato re» che aveva «vergognosamente tradito» e abbandonato oltre la metà del paese a una forma ancora più perversa di fascismo.

Da I Savoia Re d’Italia, Rizzoli 1992

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