15.9.13

La Colonna infame del Manzoni. Testimoni maledetti di incubi millenari (Pierpaolo Ascari)

Il noto Alessandro Manzoni, conte, poeta e scrittore
«La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di San Lorenzo), vide venire un uomo con la cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani che pareua che scrivesse». 
Il cronista dell'avvistamento di Caterina Rosa, la «spettatrice», è Alessandro Manzoni, intenzionato a compendiare il XXXII capitolo dei Promessi sposi con gli esempi di «furor popolare» che divamparono nella città di Milano assediata dalla peste. Espulsa dalle pagine del romanzo, però, a Caterina spetterà il privilegio di azionare un secondo racconto, svincolato dalle disavventure di Renzo e di Lucia e liberato pertanto dagli scrupoli di economia narrativa che ne avrebbero inevitabilmente sfoltito la vicenda. Tuttavia, il nuovo contesto non permette alla «spettatrice» di occupare lo spazio storico, politico o forse solo tematico che le spetterebbe, ridotta a una funzione della storia che all'autore preme raccontare. 
La storia - com'è noto - è quella della Colonna Infame, che con la pubblicazione del XII volume dell'Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, a cura di Carla Riccardi, è possibile rileggere, oggi, insieme alle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, contenute in appendice al volume. Rilettura, questa, di notevole attualità, se consideriamo che la medesima «inverosimiglianza» denunciata dal Verri e recepita dal Manzoni - l'idea cioè che sia possibile armeggiare con un'epidemia che ancora disarma la ricerca scientifica e diffondere «intenzionalmente» il contagio senza rimetterci la salute - è stata ribadita nei giorni in cui la Sars si diffondeva dalla Corte Suprema di Pechino. Verso le quattro e trenta di una mattina di giugno, dunque, Caterina Rosa è affacciata alla finestra di casa. Sulla strada piove e un uomo cammina rasente il muro. Forse sta cercando il riparo di una gronda, ma Caterina è ugualmente sospettosa, perché uno degli effetti collaterali della pestilenza consiste proprio nell'intossicare il gioco degli sguardi. La paura del contagio - lo aveva sottolineato Daniel Defoe nella storia dell'epidemia londinese del 1665 - induce a «scantonare» dagli altri e a spiarne i comportamenti. Anzi, è proprio il parossismo delle cautele a trasformarsi in distintivo di salute, perché temere la peste significa non esserne ancora prigionieri. A Milano, per di più, le cose si complicano. Un dispaccio firmato dal re in persona, infatti, aveva informato il marchese Spinola, governatore della città, della fuga da Madrid di quattro francesi, «ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi». Ci si può immaginare l'effetto che la notizia, prontamente diffusa, aveva avuto sul popolo. Manzoni riferisce in proposito di tre giovani, scesi in Italia a cercar fortuna, che si erano recati in visita al Duomo, dove subito «si formò un crocchio, a guardare, a tener d'occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch'era peggio, di francesi». Accerchiati, spintonati e malmenati al primo pretesto, i francesi vengono tradotti in carcere dai loro aggressori. Dove, conclude Manzoni, «furon trovati innocenti, e rilasciati».

Bisogna quindi dedurre che Caterina Rosa non fosse una «spettatrice» isolata, uno sguardo solitario lanciato «per disgrazia» nei vicoli, sulle piazze e sotto i cavalcavia di Milano, ma che appartenesse piuttosto a una moltitudine di spettatori sensibilmente più estesa. Ad ogni modo, vedendo un uomo «con la cappa nera» all'alba di quel 21 giugno, Caterina si apposta. E a quello che ha visto ripensa durante la mattina, quando per le strade del quartiere è tutto uno schiamazzare per la bava che imbratta i muri del corso. E' allora che la donnicciola, da «spettatrice», viene promossa al rango di protagonista, mentre nel «tumulto di chiacchiere» non tarda a inserire il resoconto del suo avvistamento. Tra l'autore delle unzioni e l'uomo «con la cappa nera», a questo punto, si viene a creare una fatale congruenza. L'uomo risponde al nome di Guglielmo Piazza, lavora come funzionario al Tribunale della Sanità e in effetti è colui che si protegge dalla pioggia sotto lo sguardo malevolo dei suoi concittadini. Perché quella dei funzionari, in tempo di peste, non è una vita comoda. Quando l'infezione comincia a minacciare le parrocchie della City, per esempio, gli sceriffi di Defoe si decidono a decretare le prime misure di profilassi. Ogni parrocchia dovrà allora dotarsi di un «ispettore», che è obbligato a vigilare sulle condizioni sanitarie dei quartieri e ad aggiornare l'anagrafe degli appestati. Coloro che rifiutano la nomina saranno «confinati in prigione». Davanti a ogni casa infetta stazioneranno poi due «guardiani», responsabili della sorveglianza dell'abitazione «giorno e notte», «sotto pena di severi castighi». Alla base della piramide staranno infine le «visitatrici», addette all'ispezione dei cadaveri, «sorvegliate» e, nel caso, «denunciate» dal personale medico. L'ordinanza degli sceriffi è quindi scrupolosa: organizza un sistema di osservazione totale, domiciliare, ma nello stesso tempo minaccia chiunque si sogni di svicolare dal proprio incarico.

Siamo nei paraggi di quello che Michel Foucault ha chiamato il «sogno politico della peste», «il momento meraviglioso nel quale il politico si esercita pienamente», un politico «le cui ramificazioni capillari raggiungono senza interruzione la grana degli individui stessi». Dagli sceriffi alle latrine di Londra - che l'ispettore, con l'aiuto della sua sciagurata manovalanza, è tenuto a sorvegliare - si crea infatti un controllo continuo e microscopico e la concentrazione del potere, resa opportuna dall'emergenza sanitaria, libera così la politica da ogni vincolo. In primo luogo nessuno prenderà partito per chi, disobbedendo alle disposizioni centrali, può trasmettere l'infezione. Inoltre, come suggerisce Ludovico Antonio Muratori, nel periodo della peste dovranno essere sospesi i «commerci» e i «vescovi» rinunceranno momentaneamente alla propria giurisdizione. Il primato della politica è assoluto, adesso, sciolto da ogni interferenza. Ma è un primato che dipende ancora dalle «ramificazioni capillari» e risulta pertanto difettoso: questo dimostrano le minacce con cui gli sceriffi sono costretti a coscrivere il personale civile. Le «ramificazioni» di Foucault rimangono traballanti, perché forte sarà l'istinto, da parte dei controllori, di disertare un incarico che li obbliga a trafficare con la morte. Per questo vengono minacciati e per questo in diverse occasioni se la daranno ugualmente a gambe. 
E' così che Caterina Rosa e gli altri spettatori, incarnando il modello della sorveglianza dai davanzali, fanno il loro ingresso sulla scena politica. Alla base del nuovo modello ci saranno il panico morale suscitato dagli untori e la conseguente propagazione del sospetto, forze necessarie e sufficienti a fare del cittadino uno «spettatore» e a trasformare la cittadinanza in uno spettacolo terribilmente esclusivo. La peste rende l'uomo lupo, infatti, allude a un sogno primitivo, sia che a rappresentarla sia l'inconscio delle disposizioni politiche, sia che se ne faccia carico la letteratura, più incline a cogliere nella «morte che transita» la promessa di un sogno ulteriore, di tipo orgiastico, ma pur sempre instaurato sul fondo di terrore che erode i sentimenti e il telaio sociale. Non è un caso che, in Camus, l'unico personaggio ad accogliere l'epidemia con esultanza sia l'uomo che ha qualche conto in sospeso con la giustizia...
Manzoni, quindi, non si discosta dalla tradizione: anche la Storia della Colonna infame rappresenta la «cattività», una degenerazione dei tessuti morali che solo apparentemente si limita a colpire le scelte dei magistrati. I magistrati sono immorali, infatti, ma perché? Perché sono animati dal terrore del «non trovar colpevoli», dice Manzoni. Ma questo non significa forse che il «pubblico» degli spettatori comporta che vi siano delle colpe, perché proprio queste colpe costituiscono la condizione di esistenza di un «pubblico»? Non è la paura di quel pubblico che loro stessi hanno mobilitato che spinge i magistrati a torturare ripetutamente Guglielmo Piazza e il barbiere Gian Giacomo Mora, dando ampio credito alle «inverosimiglianze» di Caterina Rosa?
La «donnicciola», allora, la «femminella», la «spettatrice», la donna che amministra la sua cambiale di potere dalla finestra di casa, la titolare di quello che Pietro Verri chiama curiosamente un «delitto sognato»; l'autrice dell'avvistamento dal quale dipendono le torture e che condanna i presunti colpevoli a essere suppliziati, questo personaggio della microstoria che sembrerebbe esaurirsi nella «superstizione» e nel «fanatismo» - è qualcosa di più.

Prima di tutto non è il caso isolato di una signora che inganna il tempo pattugliando la via che conduce alle colonne di San Lorenzo. In una prima stesura della Storia - contenuta anch'essa nel volume curato da Carla Riccardi - Caterina entra subito in scena al fianco di una seconda «femminella», che Manzoni deciderà poi di nominare altrove. Insieme a Caterina, inoltre, ci sono le lavandaie, chiamate a fornire una perizia sul recipiente d'acqua prelevato dal cortile del barbiere («il corpo del delitto»). E anche per loro non ci sono dubbi, quell'acqua nasconde delle «furfanterie». Perizia che viene confermata da un «medico» e da due «fisici», emergendo dal mare di «voci» che si affastellano all'alba di quel 21 giugno 1630 e che, senza nessun passaggio burocratico, giungono direttamente al senato.
Caterina, in breve, è la rappresentante di un esercito volontario di occhi e di lingue i cui sentimenti sono sicuramente impastati di paura, fanatismo e ignoranza, ma nel contesto di un fenomeno politico e sociale più ampio.
«La mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio», aveva scritto il Ripamonti citato da Manzoni. Le stoviglie e i materassi risultano quindi infestati, se non dalla peste, dalla paura degli unguenti e delle polveri. Fin sotto le lenzuola, di conseguenza, si devono aguzzare gli sguardi dell'esercito che Caterina Rosa è onorata di rappresentare, senza che i ministri, la «sbirraglia», gli sceriffi e i senatori abbiano nemmeno bisogno di rendersi impopolari. La «spettatrice» incarna questa possibilità di delegare alla paura il controllo dei vicoli e delle soffitte, è la giuntura di una versione più elaborata di quel desiderio con cui la peste ha tentato, e insieme illuminato, le notti del potere. Nella sceneggiatura di quel sogno, inoltre, il ruolo di Caterina non è più caduto in disuso. La minaccia delle polveri di antrace che fuoriescono dai laboratori governativi del Maryland, per esempio, e il timore che Al-Qaeda potesse avvelenare le condutture idriche delle nostre città, polverizzano allo stesso modo l'allarme, lo inscrivono nel registro della comunicazione privata e dei bisogni elementari e implicano una presenza del sovrano che sappia rendersi altrettanto interstiziale. Che arrivi dappertutto, dove si annida il pericolo e laddove solo l'esercito volontario di Caterina è in grado predisporre un adeguato sistema di sorveglianza.
Più rudimentale, ma pur sempre animata dal medesimo sogno primitivo, risulterà l'«inverosimiglianza» - sconfessata in agosto dal capo dell'antiterrorismo, ma recepita in luglio dai giornali e dalle forze dell'ordine - della presenza di palloncini «all'Hiv» tra i manifestanti di Genova. 

Allo stesso livello simbolico e psicologico lavorano infine le minacce di fucilazione per tutti coloro che diffonderanno «intenzionalmente» la Sars, dove la presunta intenzionalità degli untori serve al potere che li minaccia per mostrare i muscoli e per armare, l'uno contro l'altro, gli stessi davanzali tra i quali si potrebbe organizzare il dissenso. 
Decifrare questi segnali nella prospettiva dell'ignoranza e della superstizione, dell'errore o dell'emergenza, significa quindi affidarsi a un nuovo paradigma pestilenziale e al sogno assolutistico, al premuroso coup d'état che la paura del contagio ha sempre reso plausibile.


“il manifesto”, 10 agosto 2003

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