9.12.13

Non più compagni di strada. L’intellettuale-letterato e il 68 (Mario Spinella)

Nel frastuono che accompagna le «celebrazioni» del ventennale del '68, sembra prevalere l'immagine di un'esplosione più o meno inattesa e improvvisa. E certo, i sondaggi di opinione dei primi anni sessanta, con la loro insistenza sul dato delle «tre M» (Macchina, Moglie, Mestiere) che avrebbero rappresentato la scala dei valori al vertice delle aspirazioni della generazione dei ventenni — o giù di lì — di allora, sembrano confermare questo tipo di interpretazione.
Tuttavia, al di là dei segnali che già alla fine del 1966 ci giungevano dai campus studenteschi degli Stati Uniti e dal fervore della West Coast californiana, taluni non trascurabili sintomi di un non tanto sotterraneo mutamento in corso ci erano venuti dal senso stesso della nostra società. Di alcuni, in verità, si è già variamente scritto, anche se forse non con la necessaria evidenza, nel corso delle rievocazioni: il femminismo, il dibattito politico teorico, emergente soprattutto nei «Quaderni rossi» (1961) di Raniero Panzieri, ma già presente in alcune altre riviste e periodici (e basti accennare a «Passato e Presente» 1958, a «Quaderni piacentini» 1962, a «Re Nudo»).
Minore attenzione, mi sembra, è stata finora prestata ai segnali che, già dalla fine degli anni Cinquanta, provenivano dal dibattito letterario e dall'aggregarsi e disaggregarsi di posizioni (e di «gruppi») che lo avevano caratterizzato.
Romano Luperini, nel suo attentissimo «manuale» pubblicato da Loescher nel 1981, Il Novecento, apparati ideologici, ceti intellettuali, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, aveva già colto il significato, insieme culturale e «sociologico» della nascita di «Officina» (1955-1959), del «Menabò» (1959-1967), di «Il Verri» (1956) e di altre riviste.
Osserva Luperini: «La storia degli intellettuali-letterati degli anni sessanta è quella di una scissione e della ricerca di una sua difficile composizione: l'intellettuale si scopre, a un tempo, tecnico specializzato addetto a un campo particolare della sovrastruttura e lavoratore che vende la propria forza-lavoro ... lusingato dalle prospettive dello sviluppo scientifico e tecnologico e dei servizi che esso gli può garantire attraverso l'offerta di nuove mansioni, ma anche terrorizzato dalla perdita di un orizzonte ideologico e di una funzione umanistica e ridotto in una condizione lavorativa che lo eguaglia alla massa degli altri lavoratori dipendenti. L'alternativa che egli si pone (e che esploderà nel '68) è tra la semplice ridefinizione del ruolo (che appare comunque indispensabile) e la sua contestazione».
Vi è da aggiungere che non è certo casuale che la tensione e la contraddizione siano particolarmente avvertite da coloro che Luperini definisce «intellettuali-letterati». Gli intellettuali-tecnici (in senso lato) si inseriscono abbastanza facilmente nel ciclo produttivo dell'industria e dei servizi; ivi compreso il grande «servizio» dell'insegnamento dei vari ordini e gradi (checché se ne dica il ruolo dei docenti, nel '68, è stato, in conseguen¬za, del tutto marginale, e talvolta persino conservatore, rispetto alla esplosione studentesca).
Radicalmente diversa è invece la situazione dell'intellettuale-letterato, tradizionalmente arroccato nella realtà — ma soprattutto nella idealizzazione — di una sua autonomia e «libertà». È proprio su questa figura — culturale e sociale che si accumulano le contraddizioni segnalate da Luperini. Sul terreno più specificamente «politico» (in modo diretto e indiretto) avviene un processo che presenta non poche analogie con quanto sopra accennato. La fascinosa formula gramsciana «specialista+politico» appare, in pratica scarsamente percorribile. Da un lato, infatti, gli «intellettuali» (specie se «umanisti», «letterati») che si inseriscono integralmente nell'attività politica (gli Alicata, gli Ingrao, e tanti altri) recano sì alti contributi alla gestione della politica, ma rinunziano, di fatto, alla loro «specialità» (di poeta, per esempio, Ingrao, di critico Alicata, ecc.). Dall'altro lato coloro che non operano questa scelta finiscono per sentirsi, in misura maggiore o minore, ridotti al ruolo di «fiancheggiatori». Possono accettarlo o possono, come avviene tra l'altro proprio attraverso le nuove riviste, politiche ma anche letterarie, progettare e perseguire, più o meno consapevolmente, un proprio, diverso, ruolo, che sia «autonomo» e, generalmente, improntato a una più o meno accentuata venatura critica nei confronti dei partiti (in primo luogo del Pci, come quello che aveva agito come grande polo di attrazione e di riferimento).
I processi, i percorsi individuali, non sono certo così lineari e schematizzabili. Un punto di crisi è senza dubbio il 1956, con la denunzia dei crimini dello stalinismo e la rivolta di Ungheria; ma più in profondo agisce la mutazione sociale che trasforma in modo accelerato il paese da agricolo-industriale a sempre più accentuatamente industriale-agricolo.
Il quarto fascicolo del «Menabò», la rivista di Elio Vittorini e Italo Calvino, dedicato a «Letteratura
e industria» (1961), è sintomatico della presa di coscienza di questi fenomeni strutturali, anche se la
risposta agli interrogativi posti da questa svolta non può che essere — e lo rimarrà a tutt'oggi — in-
quieta e dubitativa.
Questi vari fili, in un campo, come quello della letteratura, assai più intrecciato con il contesto politico e sociale di quanto non si soglia pensare, si annodano, in misura rilevante, con la nascita del «Gruppo '63» che prende appunto nome dalla data della sua fondazione e del suo primo pubblico convegno palermitano. Molte cose si potrebbero osservare a questo proposito. Basti qui accennare al dato per cui i suoi principali iniziatori ed esponenti (Sanguineti, Porta, Eco, ecc.) appartengono a una generazione troppo giovane per avere direttamente compiuto l'esperienza dell'antifascismo militante e della Resistenza (è una connotazione — si badi — che non vuole avere nessun senso limitativo, e, meno che mai, negativo).
Si aggiunga che il «Gruppo» trae le sue origini da un'area culturale e sociale specifica (Milano, con la sua tradizione industriale, positivista, antistoricista), e che in esso è ben presente sin dall'inizio una volontà «manageriale», il progetto, cioè, di agire inserendosi in prima persona, e con funzioni direzionali, nell'attività aziendale, editoriale.
Spiccano dunque tratti che caratterizzano molti aspetti del movimento sessantottesco: l'an-titradizionalismo (l'Italia è cambiata), il respiro europeo e internazionale, l'aggressività critica verso r«establishment», «l'esistente» (nei campi specifici), e, particolarmente , il progetto di «autogestione»; da ultimo, infine, il senso vivo della spettacolarità, della pubblicità in senso ampio, del confronto anche aspro, del partecipare a una «impresa comune».
Senza che se ne voglia fare una regola generale, sembra perciò si possa dire che, in questo caso e relativamente all’Italia, la letteratura abbia «anticipato» su fenomeni sociali di gran lunga più vasti e rilevanti.


“Il Contemporaneo – Rinascita”, Speciale Per capire il ’68 , 12 marzo 1988

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