Sono passati quasi dieci anni
dalla morte di Luciano Liboni, originario di Montefalco, che fu chiamato “il
Lupo”. Era nato nel 1957 e già da ragazzo per la sua cattiva condotta – così si
legge in Wikipedìa – aveva conosciuto la reclusione nel carcere minorile di
Firenze, da cui aveva tentato la fuga. Dopo aver esercitato il mestiere di
falegname e dopo la relazione con una donna di Foligno, il Lupo (cocì
soprannominato o anche Cinghiale per il carattere selvatico) sembra essersi
dedicato ai furti di opere d’arte e alle rapine negli uffici postali. Da latitante
sembrava preferire covi nascosti tra boschi e montagne.
Nel 2002 un benzinaio riconosce
nell’auto che Liboni guida, una Polo bianca, quella rubata a un suo amico.
Avverte la polizia e lo segue in automobile insieme alla compagna e alla
figlia, ma Liboni, sentendosi scoperto gli spara addosso, ferendolo al capo.
Ormai è ricercato per tentato omicidio.
I cronisti raccontano di una
caccia accanita, di una fuga disperata, anche all’estero. A Praga, all’inizio
del 2004, va in carcere per 4 mesi perché in possesso di documenti falsi, ma
l’Interpol lo segnala alla polizia italiana solo dopo la sua liberazione.
Il 21 luglio di quell’anno Liboni
sotto falso nome, ammaccato al volto, si ricovera in ospedale a San Piero in
Bagni, un paese ai margini della E7, che collega la Romagna all’Umbria. E’ da
quelle parti che, dopo le dimissioni, uccide un appuntato che gli ha chiesto i
documenti. Poi fugge. Si moltiplicano gli avvistamenti veri o presunti in
Umbria e Lazio, fin quando a Roma il “Lupo” si scontra a fuoco con la polizia,
che ha individuato l’auto rubata su cui viaggia. Circola la notizia, forse
inventata, che è malato consapevole di Aids, il che lo renderebbe disperato e
più pericoloso.
Il racconto della sua fine,
avvenuta il 31 luglio, non senza contraddizioni, racconta del sequestro di un
ostaggio e di una nuova sparatoria durante la quale è ferito a morte. I media
hanno costruito intorno a lui l’immagine del mostro, ma non mancò chi ne fece
una sorta di eroe, per il suo spirito ribelle.
Nel numero di settembre
“micropolis”, nella rubrica “La battaglia delle idee” e sotto l’unico titolo Attenti al Lupo, pubblicò i due
commenti, di Walter Cremonte e Renato Covino, che qui ripropongo con nuovo
titolo. (S.L.L.)
Un sospiro di sollievo?
di Walter Cremonte
Un sabato di quest’estate Luciano
Liboni veniva abbattuto in una via di Roma, povero lupo ammazzato come un cane
in mezzo alla strada. Il giorno dopo, domenica, le locandine della cronaca
umbra del “Messaggero” riportavano questo titolo, a grandi caratteri: Ucciso
Liboni- Sospiro di sollievo soprattutto in Umbria. Ma perché? Perché il
provincialismo di questa edizione provinciale si spinge fino al punto di voler
interpretare la natura dei sospiri degli Umbri? Chi gliel’ha detto che il
nostro (di noi Umbri) sospiro dovesse essere un sospiro di sollievo? E che
avessimo sospirato? Non è più probabile che molti di noi avessero trattenuto il
respiro, davanti a una vicenda così triste, così penosa?
Può anche darsi che qualcuno (ma
non solo tra gli Umbri) abbia emesso qualcosa come uno sbuffo, qualcosa che
assomiglia a un “finalmente questa rottura di coglioni è finita”, visto che da
giorni non si parlava d’altro, in televisione. Ma nego, in ogni caso, che si
sia trattato di un pensiero pulito, di quelli che si esprimono con la
leggerezza di un soffio (“che va dicendo all’anima: sospira”). E che si sia
trattato di un riflesso specificamente umbro, regionale, questo è davvero poco
credibile: perché proprio qui, nella terra di Francesco (quello che un lupo l’aveva
pure ammansito), ci dovrebbe essere un sollievo speciale per la condanna a
morte e l’esecuzione di un povero Cristo? Queste cose le vediamo nei film e in
televisione, dall’America: dove le esecuzioni sono accompagnate da scene di
giubilo e di tifo da stadio; è anche vero, tuttavia, che quasi sempre dall’altra
parte, sul marciapiedi opposto, si radunano altri, in silenzio, con candele in mano.
Quelle candele che magari non dico tutti, ma qualcuno avrebbe acceso anche qui,
in Umbria. L’edizione locale del “Messaggero” però non se ne accorgerebbe,
tutta presa a scegliere per noi il tipo di sospiro più adatto. Ma non lo
capiscono che in questo modo stanno tranquillamente propagandando la pena di morte?
Se quando uno poco raccomandabile, che ha pure ucciso, viene direttamente giustiziato;
e se a questo punto si pretende che la gente sia soddisfatta, anzi, alla
lettera, sollevata: perché non darci allora in modo istituzionale questo
conforto, questo compenso ai nostri stenti e alle nostre paure? Magari cominciando
qui in Umbria, dove si sa che la popolazione è particolarmente sensibile al richiamo
del taglione...
Ma davvero? E’ molto probabile
che l’ispettore Callaghan, lo “sporco Callaghan” del grande Clint Eastwood, avrebbe
sparato a Liboni, se non altro per salvare l’ostaggio (Liboni aveva preso una
signora francese in ostaggio, ma dubito che le avrebbe fatto del male; anche se
dalla disperazione tutto può venire). E poi perché è americano e crede in una
giustizia da Far West, e ci ha ormai da tempo abituato a convivere con le
nostre stesse contraddizioni, e a prenderle sul serio. Clint avrebbe sparato,
ma poi non avrebbe chiesto alla contea di San Francisco di tirare un sospiro di
sollievo. Si sarebbe ritirato in silenzio, con una sua smorfia di doloroso
disincanto, riflettendo sul senso tragico di ogni agire umano.
---
Il mito del fuorilegge
di Renato Covino
Non vale la pena di soffermarsi
ulteriormente sulle dinamiche del caso Liboni, né sull’esecuzione annunciata del
bandito di Montefalco. E’ già stato scritto tutto e, in maniera esemplare, qui
accanto Walter Cremonte rende conto della qualità informativa della stampa
locale.
Quello che è passato in
sottordine, invece, è il tifo sotterraneo che ha attraversato il paese a favore
del fuorilegge umbro. Non si tratta solo di marginali forze politiche di destra
e di sinistra che lo hanno esaltato come simbolo della ribellione al potere.
Sui muri delle città, sui treni, nei cessi di stazioni e d’università sono
apparse scritte inneggianti alla sua fuga, alla sua imprendibilità, alla sua
reazione nei confronti della polizia. Riemerge il mito dell’irregolare, del
fuorilegge che tiene in scacco lo Stato e i suoi rappresentanti. Ricompare lo
spirito sovversivo che segna l’estraneità e l’avversione di una parte non
insignificante della società nei confronti delle autorità costituite.
E’ questo il sintomo di due
fenomeni concomitanti e paralleli. Il primo è che mai come in questi ultimi
anni si è diffusa la convinzione che la politica e lo Stato siano estranei alla
vita dei comuni cittadini, anzi che essi rappresentino uno strumento
d’oppressione. L’idea della democrazia come momento di partecipazione e di
coinvolgimento appare, se non tramontata, in difficoltà. Il secondo è la crisi della
rappresentanza, l’idea che partiti ed eletti non siano più espressione della
realtà sociale.
E’ questa la fine dell’ipotesi su
cui il Pci si costruì, nel secondo dopoguerra, come partito di massa. Il
tentativo, in parte riuscito, era quello di rendere protagoniste le masse
popolari, toglierle dalla subalternità, inserendole nella storia nazionale,
rigettando appunto quello spirito sovversivo tipico di settori operai e non dall’Unità
al fascismo. Questo disegno è oggi tramontato con la fine del partito operaio
di massa, visto come comunità organizzata, come solidarietà strutturata, come
strumento – se non di conquista - di partecipazione alla vita dello Stato.
Negare a lavoratori e popolo
organizzazione e rappresentanza, costringe settori consistenti di società alla marginalità
e alla subalternità, fa risorgere culture ribellistiche e sovversive. Allora
anche un bandito piccolo piccolo come Luciano Liboni diviene un simbolo, un
ribelle, un “eroe del nostro tempo”.
Nessun commento:
Posta un commento