10.2.14

2004. La morte di Liboni, il Lupo di Montefalco (W. Cremonte e R.Covino)

Sono passati quasi dieci anni dalla morte di Luciano Liboni, originario di Montefalco, che fu chiamato “il Lupo”. Era nato nel 1957 e già da ragazzo per la sua cattiva condotta – così si legge in Wikipedìa – aveva conosciuto la reclusione nel carcere minorile di Firenze, da cui aveva tentato la fuga. Dopo aver esercitato il mestiere di falegname e dopo la relazione con una donna di Foligno, il Lupo (cocì soprannominato o anche Cinghiale per il carattere selvatico) sembra essersi dedicato ai furti di opere d’arte e alle rapine negli uffici postali. Da latitante sembrava preferire covi nascosti tra boschi e montagne.
Nel 2002 un benzinaio riconosce nell’auto che Liboni guida, una Polo bianca, quella rubata a un suo amico. Avverte la polizia e lo segue in automobile insieme alla compagna e alla figlia, ma Liboni, sentendosi scoperto gli spara addosso, ferendolo al capo. Ormai è ricercato per tentato omicidio.
I cronisti raccontano di una caccia accanita, di una fuga disperata, anche all’estero. A Praga, all’inizio del 2004, va in carcere per 4 mesi perché in possesso di documenti falsi, ma l’Interpol lo segnala alla polizia italiana solo dopo la sua liberazione.
Il 21 luglio di quell’anno Liboni sotto falso nome, ammaccato al volto, si ricovera in ospedale a San Piero in Bagni, un paese ai margini della E7, che collega la Romagna all’Umbria. E’ da quelle parti che, dopo le dimissioni, uccide un appuntato che gli ha chiesto i documenti. Poi fugge. Si moltiplicano gli avvistamenti veri o presunti in Umbria e Lazio, fin quando a Roma il “Lupo” si scontra a fuoco con la polizia, che ha individuato l’auto rubata su cui viaggia. Circola la notizia, forse inventata, che è malato consapevole di Aids, il che lo renderebbe disperato e più pericoloso.
Il racconto della sua fine, avvenuta il 31 luglio, non senza contraddizioni, racconta del sequestro di un ostaggio e di una nuova sparatoria durante la quale è ferito a morte. I media hanno costruito intorno a lui l’immagine del mostro, ma non mancò chi ne fece una sorta di eroe, per il suo spirito ribelle.
Nel numero di settembre “micropolis”, nella rubrica “La battaglia delle idee” e sotto l’unico titolo Attenti al Lupo, pubblicò i due commenti, di Walter Cremonte e Renato Covino, che qui ripropongo con nuovo titolo. (S.L.L.) 
 
Luciano Liboni, ferito, sull'autoambulanza. Giungerà morto in ospedale.
Un sospiro di sollievo?
di Walter Cremonte
Un sabato di quest’estate Luciano Liboni veniva abbattuto in una via di Roma, povero lupo ammazzato come un cane in mezzo alla strada. Il giorno dopo, domenica, le locandine della cronaca umbra del “Messaggero” riportavano questo titolo, a grandi caratteri: Ucciso Liboni- Sospiro di sollievo soprattutto in Umbria. Ma perché? Perché il provincialismo di questa edizione provinciale si spinge fino al punto di voler interpretare la natura dei sospiri degli Umbri? Chi gliel’ha detto che il nostro (di noi Umbri) sospiro dovesse essere un sospiro di sollievo? E che avessimo sospirato? Non è più probabile che molti di noi avessero trattenuto il respiro, davanti a una vicenda così triste, così penosa?
Può anche darsi che qualcuno (ma non solo tra gli Umbri) abbia emesso qualcosa come uno sbuffo, qualcosa che assomiglia a un “finalmente questa rottura di coglioni è finita”, visto che da giorni non si parlava d’altro, in televisione. Ma nego, in ogni caso, che si sia trattato di un pensiero pulito, di quelli che si esprimono con la leggerezza di un soffio (“che va dicendo all’anima: sospira”). E che si sia trattato di un riflesso specificamente umbro, regionale, questo è davvero poco credibile: perché proprio qui, nella terra di Francesco (quello che un lupo l’aveva pure ammansito), ci dovrebbe essere un sollievo speciale per la condanna a morte e l’esecuzione di un povero Cristo? Queste cose le vediamo nei film e in televisione, dall’America: dove le esecuzioni sono accompagnate da scene di giubilo e di tifo da stadio; è anche vero, tuttavia, che quasi sempre dall’altra parte, sul marciapiedi opposto, si radunano altri, in silenzio, con candele in mano. Quelle candele che magari non dico tutti, ma qualcuno avrebbe acceso anche qui, in Umbria. L’edizione locale del “Messaggero” però non se ne accorgerebbe, tutta presa a scegliere per noi il tipo di sospiro più adatto. Ma non lo capiscono che in questo modo stanno tranquillamente propagandando la pena di morte? Se quando uno poco raccomandabile, che ha pure ucciso, viene direttamente giustiziato; e se a questo punto si pretende che la gente sia soddisfatta, anzi, alla lettera, sollevata: perché non darci allora in modo istituzionale questo conforto, questo compenso ai nostri stenti e alle nostre paure? Magari cominciando qui in Umbria, dove si sa che la popolazione è particolarmente sensibile al richiamo del taglione...
Ma davvero? E’ molto probabile che l’ispettore Callaghan, lo “sporco Callaghan” del grande Clint Eastwood, avrebbe sparato a Liboni, se non altro per salvare l’ostaggio (Liboni aveva preso una signora francese in ostaggio, ma dubito che le avrebbe fatto del male; anche se dalla disperazione tutto può venire). E poi perché è americano e crede in una giustizia da Far West, e ci ha ormai da tempo abituato a convivere con le nostre stesse contraddizioni, e a prenderle sul serio. Clint avrebbe sparato, ma poi non avrebbe chiesto alla contea di San Francisco di tirare un sospiro di sollievo. Si sarebbe ritirato in silenzio, con una sua smorfia di doloroso disincanto, riflettendo sul senso tragico di ogni agire umano.

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Il mito del fuorilegge
di Renato Covino
Non vale la pena di soffermarsi ulteriormente sulle dinamiche del caso Liboni, né sull’esecuzione annunciata del bandito di Montefalco. E’ già stato scritto tutto e, in maniera esemplare, qui accanto Walter Cremonte rende conto della qualità informativa della stampa locale.
Quello che è passato in sottordine, invece, è il tifo sotterraneo che ha attraversato il paese a favore del fuorilegge umbro. Non si tratta solo di marginali forze politiche di destra e di sinistra che lo hanno esaltato come simbolo della ribellione al potere. Sui muri delle città, sui treni, nei cessi di stazioni e d’università sono apparse scritte inneggianti alla sua fuga, alla sua imprendibilità, alla sua reazione nei confronti della polizia. Riemerge il mito dell’irregolare, del fuorilegge che tiene in scacco lo Stato e i suoi rappresentanti. Ricompare lo spirito sovversivo che segna l’estraneità e l’avversione di una parte non insignificante della società nei confronti delle autorità costituite.
E’ questo il sintomo di due fenomeni concomitanti e paralleli. Il primo è che mai come in questi ultimi anni si è diffusa la convinzione che la politica e lo Stato siano estranei alla vita dei comuni cittadini, anzi che essi rappresentino uno strumento d’oppressione. L’idea della democrazia come momento di partecipazione e di coinvolgimento appare, se non tramontata, in difficoltà. Il secondo è la crisi della rappresentanza, l’idea che partiti ed eletti non siano più espressione della realtà sociale.
E’ questa la fine dell’ipotesi su cui il Pci si costruì, nel secondo dopoguerra, come partito di massa. Il tentativo, in parte riuscito, era quello di rendere protagoniste le masse popolari, toglierle dalla subalternità, inserendole nella storia nazionale, rigettando appunto quello spirito sovversivo tipico di settori operai e non dall’Unità al fascismo. Questo disegno è oggi tramontato con la fine del partito operaio di massa, visto come comunità organizzata, come solidarietà strutturata, come strumento – se non di conquista - di partecipazione alla vita dello Stato.

Negare a lavoratori e popolo organizzazione e rappresentanza, costringe settori consistenti di società alla marginalità e alla subalternità, fa risorgere culture ribellistiche e sovversive. Allora anche un bandito piccolo piccolo come Luciano Liboni diviene un simbolo, un ribelle, un “eroe del nostro tempo”.

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