23.2.14

Ma esisteva Vittorini? (di Franco Fortini)

Una rievocazione del 1986, in qualche passaggio difficile, perché difficile è talora lo stile “alto” di Fortini; e tuttavia intensa e vera, tale da stimolare domande in serie: “Ma sono mai esistiti Fortini, Vittorini, Calvino e tutti gli altri? E perché nulla è rimasto di loro? Non hanno lasciato nulla o abbiamo sperperato tutto?”. (S.L.L.)

“Uno degli anni in cui noi uomini d’oggi si era ragazzi o bambini…”. Con questo “c’era una volta” comincia l’ultima opera, postuma, di Vittorini Le città del mondo. E vuol dire nell’infanzia del mondo e in quella nostra. È un universo adamitico, Sicilia che un Icaro sorvola, veduta celestiale dal “Balcone delle Madonie”. Sono proprio queste o altre simili pagine di Vittorini, lucidi idillii piscatorii o favole silvestri, a farci intendere quale spietata metamorfosi il secolo abbia apparecchiata a tutti noi, non solo a quel poeta bucolico.
Negli anni Venti e Trenta, più vicino agli ermetici, Bilenchi cercava un suo nudo disegno attonito. Vittorini, come certamente Montale, dai divieti del Ventennio trovava fomento ad un uso dei simboli, delle mitologie delle origini e dei poteri tellúrici o magici, quali aveva letti in Lawrence e in tanti altri inglesi, anche più che negli americani, che tutti sempre rammentano. Di quelle contaminazioni culturali, avventurose e spesso rovinose per gli autodidatti, elaborò il suo miele. Ma, per riuscirvi, ebbe bisogno di strafare; tanto col faticoso sistema di iterazioni ed ecolalie che fu la più riconoscibile delle sue sigle, quanto col manierismo sottilissimo del suo maggiore esito; che, poco ascoltata, Maria Corti aveva fin dal 1974 indicato proprio in Le città del mondo.
Come i suoi amati arabi o l’Ariosto o gli spagnoli d’oro o il Marino, sbagliando, errando, riesce fino a verdi radure luminosissime dove si ode il canto delle fenìci. Mentre sono piuttosto le figure e le situazioni da Garofano a Sempione a Erica a Le donne di Messina e La Garibaldina, a parere oggi più remote di quanto non sarebbero ad una lettura meno prevenuta. Fa eccezione il nero meteorite psichico di Conversazione proprio pochi giorni or sono ripubblicata da Rizzoli con disegni di Guttuso, e al centro di un convegno che si svolge a Viareggio l’1 e il 2 febbraio.
Per parte mia credo che la sua opera abbia raggiunto vittoria solo in due momenti, opposti fra loro. Il primo è quello lirico, che si suddivide a sua volta in due parti, tenebrosa la prima (discesa alle Madri, di Conversazione), lucente la seconda (e rapita di stupefazione onirica, in Le città), l’altro è un libro a torto ritenuto macchinazione propagandistica, errore e fallimento: Uomini e no. Intendo, nella sua prima versione, 1945. Unico fra i lettori e i critici italiani, Noventa vide fin da allora che Vittorini si sporgeva in quel libro al di là di sé medesimo, in una situazione “russa”, dove l’episodio resistenziale e terroristico è, a un tempo, tutto convenzionale ma anche tutto – oggi lo sappiamo bene – profetico. Berta è il solo personaggio vittoriniano che (in termini non ignoti a un Cernicevskij) contesti radicalmente, con pochissimi gesti e parole, l’eroicismo letterario dell’autore. Pragmatismo e comportamentismo che per poco più di un decennio egli aveva potuto credere marxistico avevano reso Vittorini (e il suo sosia) diffidente di ogni comunicazione soprattutto verbale. Ed è invece a parole che Berta vuole chiarire la sua situazione di donna di due uomini; dove la parola non è in funzione di letteratura o di melodia ma di scelte etiche. Enne Due, posto di fronte a una donna che è anche linguaggio comunicativo, fugge allora verso l’infanzia, manca il rapporto erotico; e la sua volontà di purezza e tensione, verginale e asessuata, si rovescia in virilismo e durezza.
Lo straordinario esito del libro, nel suo apparente scacco romanzesco, è di darci uno dei più inattesi e profondi autoritratti dell’autore (e di molti, di allora e di oggi), del suo arcangelismo, segnato da una crepa o ferita occulta che gli amici avvertirono sotto l’apparenza integra di Elio. Tanto che Vittorini è tornato ad apparire loro in sogno o visione e sempre come figura di profilo o di fuga; a segno da farli dubitare avesse mai avuta realtà.
Ci siamo urtati, spesso e a lungo, caratteri irreconciliabili. Lui “contatto passionale con le cose”, come scrisse, e col particolare e il concreto, io, con l’astratto, il negativo, e l’invisibile. Non mancò chi speculasse su quei contrasti, attizzandoli. Distanti, ne abbiamo sofferto. Ma Elio non aveva dimenticato, né io, il primo quinquennio del dopoguerra. Dopo di allora gli ho sentito pronunciare parole cattive (anche contro di me); meschine mai. Sfavillava d’ira contro i pedanti, i professori, gli esangui. Odiava tenebre e pietà... Una volta, ammalato, in casa sua (penombra, un letto basso) disse, con quel suo affetto irato: “In punto di morte vorrei ancora guardare laggiù, dalla finestra” – e verso le persiane voltava di scatto la mascella e la gran bocca saracena, immobili le spalle e le mani piantate sul lenzuolo.
Nome e opera di Vittorini dimorano oggi nella medesima luce d’eclisse che già aveva avvilito Pavese. E, credo, per le medesime ragioni; pessime ma irresistibili. Che il suo nome non torni mai se non per ironia sulle pagine dei nostri attuali maestri del non–pensiero non dovrebbe però troppo deporre a suo favore: quel che è mutato è proprio quel che egli perseguì con maggiore coerenza e cioè l’idea di una letteratura vivente che avesse il compito di evitare l’invecchiamento del mondo. Si è adempiuto uno dei voti di Asor Rosa: che la letteratura smettesse di pretendere di essere tutto, augurandosi proprio per questo di poter essere qualcosa. E lo è, infatti, quanto basta perché si sorrida come di ingenui ragazzi di coloro che ancora venti o trenta anni fa, pensavano di poter dire, nella tradizione romantica rianimata dalle avanguardie, qualcosa sulle “verità ultime” nelle forme della lingua nazionale
Certo, se torno a leggere i tormentosi appunti che una pietà forse ingiusta di studiosi e di amici volle pubblicare poco più di venti mesi dopo la morte di Vittorini, col titolo di Le due tensioni, ritrovo lo scoramento che me ne venne allora, di fronte a quell’ininterrotto accumulo di affermazioni esasperate e di razionalizzazioni incalzanti, dove si leggeva il meglio e il peggio della sua intelligenza. Il peggio, che era presunzione di onnipotenza intellettuale; il meglio, che era fede in valori verificabili potenzialmente da tutti. Da quel peggio gli era sempre venuta la scarsissima attenzione a idee che, contraddicendolo, richiedessero alla sua mente la pazienza, virtù a lui sempre nemica, e quindi la orgogliosa disperazione del rovello autocritico, fatta di rovesciamenti radicali e perciò infruttuosi.
Da quel meglio traeva invece una sovrabbondante passione per i moti innovatori degli individui e della storia che, nella oratoria della sua prosa saggistica, non si dispiegava soltanto ma coraggiosamente proponeva a modello di un possibile altro; e comune linguaggio della comunicazione, di un “volgare” di genti liberate. Diario in pubblico, titolo perfetto, fu l’ultimo gesto di scrittura italiana rivolto in quella direzione, dove si cercasse ancora equilibrio fra il narcisismo della letteratura che parla di se stesso e l’altruismo di un linguaggio che si vuole di relazione. L’ultimo; perché se Vittorini aveva saputo superare e conservare l’estetismo della sua educazione nell’ampiezza di una letteratura internazionale di grandi miti e di catastrofi atroci e generose, non aveva retto ai trionfi del nuovo Capitale, nella cui “scienza” aveva pur continuato a credere fino alla fine.
Era infatti un “progressista”; e le contraddizioni del progresso lo ammutolirono. Lavorava ancora al progetto d’una rivista internazionale quando s’accorse che l’età dei viaggi, ossia del suo più amato mito e simbolo, era finita. Volse in odio l’amore per la propria giovinezza. Delirò di industria come luogo della ricerca innovatrice e rivoluzionaria. Eppure nel suo ospedale, poco prima della morte, lette le accuse di populismo rivolte alla sua opera passata, lo sentii rivendicare, da amico quale era, le radici della propria e mia natura e difenderle da quelle che vedeva come imminenti esaltazioni tecnocratiche.
Chissà che anno era. Forse la prima manifestazione di studenti attaccata dalla polizia. Contro la Spagna di Franco. Una carica, alcuni arresti. Con altri vidi Vittorini venire avanti; sceso dalla sua casa di via Gorizia. Non gli andai incontro, anzi mi allontanai. Due carabinieri mi fermano e fra di loro, come Pinocchio, mi avvio al cellulare. La strada sgombra sotto le lampade; la folla, in un silenzio improvviso, premuta sui marciapiedi. Alta, gridando, la voce di Elio: “Arrestate anche me, sono uno degli organizzatori!”. Detto fatto. Agguantano anche lui ed eccoci fra i giovani arrestati. Il giorno dopo lasciai alla portineria di Elio un esemplare della prima edizione italiana dei Miserabili, con un biglietto, per farlo ridere, alla pagina celebre “Ci sono anch’io”, quando la guardia nazionale fucila gli insorti.
Siamo stati insieme, in questo senso, molto a lungo, fino al comune modo di vivere il XX Congresso sovietico e l’Ungheria del 1956, fino alle comuni amicizie francesi negli anni d’Algeria, 1958-1960, e fino a quella mattina dell’ottobre del ’62, crisi di Cuba, quando ognuno con i propri fiori in braccio, ci si incontrò nel punto dove la sera prima una camionetta della Celere aveva ammazzato il suo primo studente, Ardizzone. Bisogna rileggere le prose non narrative di Vittorini per capire che cos’è, quando c’è, il coraggio mentale. E dovessi rispondere a un giovane “Leggi Diario in pubblico”, direi, “tutto”.

“L’Espresso”, 2 febbraio 1986

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