28.4.14

L'Italia che frana. La questione territoriale (Piero Bevilacqua)

Sui giornali toscani del 7 marzo 2014 si leggeva: “Il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, questa mattina è tornato a occuparsi di dissesto idrogeologico con un sopralluogo sulla frana di Panicaglia, a Borgo San Lorenzo, durante la tappa mugellana del suo viaggio in Toscana: «Non possiamo sopportare che la Toscana abbia strade franate o ponti divelti dalla furia delle acque come è accaduto nel senese». È stata l’ennesima occasione per stendere un triste bilancio dell’emergenza perenne che interessa il territorio toscano: quella del dissesto idrogeologico. Ad oggi, ricordano dalla Regione, sono 150 le frane censite in Toscana”. Il mese prima, nella stessa regione la frana di Roccalbegna, nel grossetano, aveva spaccato in due una comunità, con gravissimi danni economici.
L'articolo che segue è vecchio, del novembre 2011, e trovava occasione nei disastri di quella stagione, affronta il tema in termini generali. I fatti dimostrano che quella materia resta attualissima. Credo che se ne dovrebbe parlare nella campagna elettorale europea in corso di svolgimento, come in quelle di molti Comuni. Ma sono certo che non si farà. Ho il sospetto che al ceto politico non dispiacciano le “emergenze”: non dico che le procurino appositamente, ma se capitano sono contenti, perché gli interventi per le emergenze si fanno con più discrezionalità e meno controlli nella spesa. (S.L.L.)
Roccalbegna (Gr)
Chi, ormai da decenni, studia la storia del territorio italiano, di fronte alle frane e ai morti delle Cinque terre e ora al disastro di Genova, oltre al dolore per le vittime prova oggi uno scoramento profondo. La voglia di non dire nulla, il senso dell’inutilità di scrivere e protestare. Chi scrive è troppe volte dovuto intervenire per commentare simili tragedie, tentando di mostrare le cause morfologiche e storiche che sono normalmente all’origine delle cosiddette calamità naturali nel nostro Paese. E, per la verità, lo ha fatto insieme a voci sempre più numerose e agguerrite di geologi, meteorologi, esperti. Tutto invano. E nell’ultimo ventennio più invano che mai, considerata la qualità intellettuale e morale del ceto politico di governo che ci è capitato in sorte e che del territorio italiano si è occupato per darlo in pasto agli appetiti speculativi.
Tuttavia, l’obbligo di contribuire alla riflessione collettiva su fatti così gravi finisce col vincere sul senso di frustrazione. Senza l’ostinazione e la tenacia, d’altronde, la lotta politica, specie per chi sì è ritagliato una piccola frontiera di critica e di opposizione, non sarebbe neppure concepibile. Oggi, di fronte agli eventi catastrofici che si susseguono, bisogna denunciare con chiarezza l’emergere di una grave questione territoriale in Italia. Non si tratta di una novità assoluta, le vicende del territorio hanno un corso lento, lasciano il tempo per essere osservate, ma essa oggi si presenta con caratteri assolutamente nitidi e drammatici per un insieme di ragioni. Mettiamo da parte, per brevità, la Pianura Padana, che ha problemi particolari, ma che ospita, ricordiamolo, il più complesso sistema idrografico d’Europa, essendo il ricettacolo dei grandi fiumi alpini.Si tratta dell’area più stabile del nostro Paese, eppure, anch’essa, è percorsa da sistemi di forze che possono assumere carattere distruttivo in caso di eventi climatici estremi.
Il problema principale si chiama Appennino. La dorsale montuosa con i suoi innumerevoli corsi d’acqua e gli ingenti materiali d’erosione che trascina incessantemente a valle. Un tempo, la centralità dell’Appennino nell’equilibrio complessivo della penisola era chiaro anche agli uomini politici, quando questi possedevano un proprio profilo culturale oltre al curriculum politico. Meuccio Ruini, ad esempio, che fu anche presidente del Senato, ricordava nel lontano 1919, come «contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma dell’Italia peninsulare è signoreggiata dall’Appennino e ne riceve l’impronta». Ora, è noto da tempo, l’Appennino è in stato di abbandono. Ma soprattutto in condizioni di abbandono si trovano le terre pedemontane e collinari interne, quelle che per secoli sono state presidiate dalle abitazioni contadine, che sono state tenute sotto manutenzione dal lavoro quotidiano degli agricoltori. Una delle ragioni della diffusione e della durata storica della mezzadria nell’Italia di mezzo (soprattutto Toscana, Marche, Umbria) che dal medioevo è arrivata sino alla seconda metà del ’900, è legata al fatto che essa prevedeva l’insediamento della famiglia mezzadrile nel fondo, impegnata a governare
un territorio instabile.
Ora, anche questo è noto, da tempo le colline mezzadrili sono state abbandonate, o sono coltivate industrialmente, con poche macchine e senza uomini. Tale situazione, nota da tempo ai pochi esperti e appassionati della materia, conosce oggi un aggravamento dovuto a più fattori evolutivi. Da una parte, il progressivo, ulteriore abbandono dell’agricoltura da parte dei piccoli coltivatori che non ce la fanno a reggere i bassi prezzi con cui viene remunerata la loro impresa. Un fenomeno a cui gli economisti agrari di solito plaudono, perché il modello competitivo – nel pensiero economico astratto - è naturalmente la grande azienda, senza alcuna considerazione di ciò che accade al territorio, quando scompare un presidio. Di norma, quando la piccola impresa non è accorpata a una azienda più ampia, il terreno viene progressivamente invaso dalla vegetazione spontanea.
Negli ultimi anni, tuttavia, a tale fenomeno si è aggiunto un sempre più largo uso edificatorio del suolo. Il cemento ha preso il posto degli ulivi o degli alberi da frutto. I comuni hanno fatto cassa svendendo il loro territorio.
Nel frattempo il circolo vizioso demografico si è venuto sempre più accelerando. Se si abbandonano le aree interne tutto tende a gravitare nelle zone di pianura, che nella Penisola solo prevalentemente le aree costiere. Qui oggi si accentra oltre il 66% della popolazione peninsulare. E qui sono insediati
industrie, servizi, infrastrutture, la ricchezza materiale italiana. Ma anche qui, negli ultimi devastanti decenni dei governi di centrodestra (e nella pochezza e brevità di quelli di centrosinistra) si è continuato a cementificare con furia da “accumulazione originaria” cinese. Ora, l’ultimo elemento che completa il quadro riguarda la frequenza degli eventi estremi, vale a dire, nel nostro caso, la straripante quantità d’acqua che oggi cade in poco tempo in delimitate aree territoriali. Si tratta di un fenomeno dipendente dal riscaldamento globale, che il climatologo inglese John Houghton, definì, nel 1994, come «frequenza e intensità di eccessi meteorologici e climatici».
Dunque, come in questi ultimi anni, le piogge tenderanno in futuro a presentarsi sempre più come eventi particolarmente intensi. E le acque, dalle colline abbandonate o cementificate, mal regimate, precipiteranno lungo le pianure costiere dove il verde – la spugna che un tempo assorbiva le piogge – è diventato sempre più raro, impermeabilizzato da chilometri quadrati di cemento.
Che cosa possiamo aspettarci? Davvero pensiamo di affrontare tale gigantesca questione organizzando meglio la protezione civile? Rendendo più efficaci i sistemi di allarme? È evidente che qui ci si presenta una sfida che è anche una grande opportunità per il nostro Paese. Sia per creare nuove occasioni di lavoro, sia per ridare orizzonti progettuali alla politica sprofondata nel tramestìo quotidiano. La prospettiva è: riequilibrare la distribuzione demografica e valorizzare le vaste aree interne della Penisola. Un grande progetto per scongiurare disastri, ridando vita a una vasta area territoriale in cui gli italiani hanno vissuto per secoli. Il che si può fare con una molteplicità di interventi concertati, che puntino alla selvicultura e all’agricoltura di qualità, allo sfruttamento economico delle acque interne, al potenziamento del turismo escursionistico, al recupero – anche per insediarvi centri di ricerca - di tanti borghi e centri cosiddetti “minori”: spesso gioielli monumentali che fanno l’identità profonda di una parte estesa d’Italia. Un insieme di iniziative e pratiche che potrebbero offrire lavoro alla nostra gioventù e a tanti giovani extracomunitari, oggi perseguitati da una legislazione criminogena.
L’urgenza e l’assoluto vantaggio economico di procedere in tale direzione potrebbe fornire anche nuova forza al grande e specifico problema di tutela e conservazione del nostro paesaggio. Un bene inestimabile che stiamo compromettendo. Naturalmente, per realizzare tale obiettivo, che col tempo potrà salvare l’Italia da perdite umane ed economiche sempre più gravi, occorre utilizzare risorse. E le risorse – per definizione sempre scarse - oggi lo sono più che mai. Ma proprio per questo appare necessario, in questo momento, un atto di coraggio anche da parte di tanto ceto politico e giornalismo che, talora in buona fede, ha visto nelle cosiddette grandi opere (Tav, Ponte dello Stretto) un’occasione di sviluppo per il nostro Paese. Bisogna avere la forza di ricredersi. Se le risorse finanziarie andranno alle grandi opere verranno a mancare per le piccole con cui noi oggi dobbiamo affrontare la questione territoriale italiana. Se si realizzerà il Tav, le risorse pubbliche saranno prosciugate e, per la salvezza del nostro territorio, resteranno le briciole. O l’uno o le altre, tertium non datur. Senza dire che le due scelte si presentano incompatibili anche sotto il profilo storico e culturale.
Le grandi opere sono il frutto recente di un modo di procedere del capitale finanziario, in concerto con i poteri pubblici, per costruire infrastrutture – di più o meno provata utilità collettiva – e in genere contro la volontà delle popolazioni che vivono nei luoghi interessati. Senza dire che il nostro è un territorio delicato, che mal sopporta il gigantismo delle costruzioni fuori misura.
Al contrario, le piccole opere per risanare l’habitat italiano possono esaltare la partecipazione popolare, iscriversi nel solco di una tradizione secolare che ha fatto dell’Italia, per mano di anonimi artisti popolari, quello che resta ancora del Belpaese.


“il manifesto”, 8 novembre 2011

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