13.4.14

Scrive Moravia, scrive (Massimo Fini, 1982)

A Massimo Fini, giornalista umorale e polemista puntuto, non mancano di certo cultura, intelligenza e “bella scrittura”, che lo hanno portato a esiti dignitosi, perfino quando, un po' perché attratto dalle sirene di destra, un po' per mania d'anticonformismo, ha ecceduto nel “politicamente scorretto” esaltando la “bella guerra” (che non è comunque quella tecnologica oggi dominante). Dei primi anni Ottanta (1982) è l'articolo che segue che apparve su “Pagina”, un settimanale molto culturale e molto anticomunista di sostegno a Craxi e al suo “lib-lab”, che era animato da Pigì Battista e durò poco. Ma anche in quel contesto Fini era un “cane sciolto” e a questa sua natura è riconducibile la “stroncatura”, che segue, di 1934, il romanzo di Moravia uscito da poco e da molti osannato. L'articolo diventa peraltro una stroncatura di Moravia scrittore, cui tuttavia si riconosce un “capolavoro” (Gli Indifferenti) e altri testi di valore, pochissimi. Io, che sul Moravia narratore sono sulla stessa lunghezza d'onda ("uno scrittore in progressiva involuzione"), salverei qualcosa di più e darei un giudizio positivo sui saggi de L'uomo come fine. (S.L.L.)
Renato Guttuso, Ritratto di Alberto Moravia
Alberto Moravia è un caso clinico, assai curioso. Ogni libro che scrive è peggiore del precedente. È vero che iniziò nel 1928 con un capolavoro, Gli indifferenti, ma da allora sono passati cinquantatre anni e Moravia ha pubblicato più di quaranta libri per cui, per quanto alto fosse quell'esordio, la situazione della sua produzione si è fatta drammatica.
Si pensava che Moravia avesse toccato il fondo nel 1960 con La noia ma poi scrisse Io e lui, dialogo fra un uomo ed il suo pene, libro di cui Giuseppe Berte, pochi mesi prima di morire, mi dette, in un'intervista all'Europeo, questo giudizio: «Io credo che uno che ha scritto Io e lui dovrebbe vergognarsi per l'eternità». Ma Moravia non si vergognò né si fermò, precipitando, di libro in libro, verso il raccapriccio. E l'abominio. Nel 1977 ignorando di essere morto come scrittore, pubblicò La vita interiore, racconto imperniato sulle innumeri inchiappettature di un'eroina sessantottesca, tale Desideria (corredata da una pedantesca "voce" che la eccita continuamente all'eversione), così comicamente "signorina snob" della rivoluzione, fasulla ed inesistente, che si stenta persine a credere che Mora-via possa averne incontrato il prototipo, ed essersene lasciato senilmente ingannare, in qualcuno di quei salotti romani di cui è la riverita mummia. Per sopramercato nella Vita interiore Moravia abbandonava, a favore della formula dell'intervista fra l'"io narrante" e l'insopportabile Desideria, anche l'unico coraggio di cui è sicuramente dotato: quello di raccontare "scrivendo brutto" e male, come dice Edoardo Sanguineti, ma di raccontare.
Lo stesso autore si rese conto che La vita inferiore era una "performance" difficilmente battibile e dichiarò solennemente: «Questo è il mio ultimo romanzo». I lettori tirarono un sospiro di sollievo e forse anche i critici la cui lascivia laudatoria e servile, per quanto smisurata, cominciava a non essere più all'altezza delle opere del maestro. Ma Moravia, ahinoi, ci ripensò e così, all'alba di quest'anno, è riuscito a scrivere il libro più brutto della sua vita, 1934, tale che nemmeno la critica italiana ufficiale, che nel caso di Moravia è solita raggiungere percentuali di consenso di tipo albanese, del cento e frazioni per cento, è riuscita ad essere unanime. Almeno una voce s'è, questa volta, levata irrispettosa contro l'intoccabile: quella di Alfredo Giuliani, clic, in una recensione, dopo aver a lungo girato attorno all'argomento, ha alla fine ammesso che 1934 è «un libro gratuito dal principio alla fine».
Ma quella di Giuliani è stata una nota isolata nel coro estatico dei Milano, dei Pampaloni, dei Camon, dei Riva (Valerio), dei Nascimbeni, dei Davico Benino, dei Siciliano, dei Filippini. A parte Siciliano, che non fa testo nemmeno nell'adulazione e che, talvolta, riesce persino a nauseare lo stesso Moravia per eccesso di servilismo (che sarebbe come disgustare un vampiro per eccesso di sangue), la cosa più comica a proposito di 1934 l'ha detta Paolo Milano («il critico più vile d'Italia», secondo Berto) trovando delle parentele fra Moravia e Nietzsche, quando è noto che il nostro detesta Nietzsche perché non ne ha mai capito un'acca. Va da sé che 1934 ha vinto il premio Mondello 1982 per la sezione italiana.
Di Moravia io ammiro la consumata abilità. Credo che sia l'unico scrittore al mondo che sia riuscito a campare cinquant'anni su un solo libro valido. E che le cose stiano così deve essere, sotto sotto, anche l'opinione dei suoi ammiratori. Ne è spia un libriccino biografico pubblicato da Fel-trinelli con intenti dichiaratamente incensatori in cui, con significativo lapsus, la nascita degli Indifferenti viene datata 1828 (milleottocento), sembrando allo stesso amorevole curatore esserci un abisso fra quel Moravia e tutto il successivo, come se fossero scrittori di due secoli diversi.
Tralascerò qui l'aspetto clientelare e mafioso dell'attività culturale di Alberto Moravia perché mi costringerebbe a passare dal faceto al serio, a ricordare tragedie come quella di Morselli, a parlare di personaggi trucidi come Siciliano, e non ne ho voglia.
Detto sul conto del nostro tutto ciò che c'era da dire, e anche qualcosa di meno, ci assale però un tormentoso dubbio. Moravia resta, nonostante tutto, per Gli indifferenti, per Inverno di malato, per alcuni dei Racconti romani, uno scrittore che, perlomeno, è stato in serie A. Sia pure all'epoca dell'"Ambrosiana Inter". Ed è stato il destino della nostra generazione di dover rivalutare, una volta visti i successori, tutto ciò contro cui si era battuta: abbiamo imparato che al peggio non c'è mai limite. Ed il vero slogan del '68 è: «Rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto». Forse anche Alberto Moravia, l'abominevole.

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