23.6.14

Città ribelli. Lotta di classe metropolitana (Roberto Monicchia)

Londra 1936 - Manifestazione operaia
L'importanza della dimensione urbana nello sviluppo capitalistico è una tesi da tempo sostenuta dal geografo ed economista americano David Harvey. Il tema è al centro del suo ultimo lavoro, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street (Il Saggiatore, Milano 2013). Il titolo appare fuorviante: la rassegna dei movimenti di lotta urbani degli ultimi secoli è solo una parte della trattazione, e non la principale. Ben più interessante è l'analisi storico-economica dell'interrelazione tra il processo di accumulazione capitalistico e quello di sviluppo e trasformazione della realtà urbane, due aspetti evidentemente centrali del mondo contemporaneo.
Harvey prende spunto da un saggio di Henri Lefèbvre del 1967, Il diritto alla città, in cui il filosofo marxista francese, muovendo dalla storia della Comune del 1871 e analizzando le trasformazioni della città moderna, proponeva un'interpretazione estesa del soggetto rivoluzionario: era il proletariato urbano, insieme di figure lavorative varie e composite molto oltre gli operai di fabbrica, il protagonista delle principali fasi rivoluzionarie. Di lì a poco il '68 avrebbe confermato, in Francia e altrove, l'importanza - e non solo come scenario - della città nei movimenti di protesta.
L'analisi di Lefèbvre è confermata e rafforzata dall'evoluzione del capitalismo neoliberista: tanto l'espropriazione capitalistica dell'urbanesimo quanto lo sviluppo di movimenti a base urbana conoscono nell'ultimo trentennio dimensioni inedite. Non si tratta di fenomeni inediti. Le città nascono come "concentrazione geografica" di un surplus produttivo, e fin dall'antichità evidenziano una articolazione sociale gerarchica (oligarchie, caste sacerdotali, etc). Con il capitalismo questo processo assume un'importanza crescente: poiché la logica dell'accumulazione richiede un continuo reinvestimento del profitto, il capitale è alla continua ricerca di spazi di assorbimento delle eccedenze. L'urbanizzazione è il principale strumento per aggirare gli ostacoli che si oppongono costantemente alla realizzazione del plusvalore. Esiste quindi un nesso statisticamente verificabile tra i cicli di accumulazione, con l’alternanza di periodi di crecita e di crisi, e il processo di urbanizzazione, che, a sua volta, nelle sue diverse fasi, comporta trasformazioni profonda dell’organizzazione sociale, che incidono sulla vita quotidiana, le abitudini e le relazioni tra le diverse classi che abitano lo spazio urbano. Lo studio dell’investimento immobiliare e della rendita urbana è quindi da mettere in primo piano non solo perché chiarisce le dinamiche concrete del processo di riproduzione e circolazione del capitale (che lo stesso Marx subordina al processo di produzione solo dal punto di vista del metodo di trattazione, considerandolo coessenziale al processo complessivo della produzione capitalistica), ma perché sia nelle fasi espansive che in quelle recessive è una variabile importantissima delle relazioni di classe, spesso considerate anche dal marxismo come limitate al rapporto (e al tempo) di lavoro.
Harvey verifica questa “centralità dell’urbano” attraverso una serie di esempi storici. Il primo, molto noto, è la ristrutturazione di Parigi all’indomani della rivoluzione del 1848. Il progetto di Napoleone III è realizzato dal prefetto Hausmann, che dà alla città l’inconfondibile profilo geometrico dei grandi boulevard, eliminando interi quartieri popolari e rendendo impossibili le barricate, forma tipica delle rivolte popolari urbane dal 1789. A questa matrice politica, diretta filiazione del ciclo rivoluzione-reazione del 1848, si intrecciano altre motivazioni. Il 1848 è il punto culminante della prima crisi generale del capitalismo, e il programma di sventramenti, ristrutturazioni, costruzioni infrastrutturali e immobiliari, consente sia di dare sfogo al surplus di capitale inutilizzato, sia di assorbire la disoccupazione di massa. Lo schema assicura crescita e stabilità sociale per quindici anni, nel corso dei quali è evidente il mutamento irreversibile dello "stile di vita" urbano. La vicenda di Parigi è paradigmatica anche per il rovescio della medaglia: il ciclo di investimento urbano, poiché innesta – per usare il linguaggio del Capitale – l'integrazione rischiosa tra capitale reale e "fittizio", tra produzione e speculazione, moltiplica le occasioni e le manifestazioni della crisi. Nel caso specifico, il crac finanziario del 1868 apre la strada al mutamento di scenario, e la crisi culmina con la guerra franco-prussiana e la caduta del secondo impero; dentro il crollo non a caso si colloca la vicenda della Comune, che è anche da vedere come tipico esempio di rivoluzione urbana. Prima di concentrasi su questo punto, Harvey prende in considerazione altri esempi del ciclo "urbano" di accumulazione: la ristrutturazione di New York, progettata a partire del 1942, accompagna la crescita dei "gloriosi trenta", di cui acquisisce anche i tratti "keynesiani", con lo sviluppo di infrastrutture e servizi pubblici, ma senza evitare le distorsioni economiche e sociali connaturate alla rendita urbana: la sproporzionata crescita speculativa con relativa difficoltà di rientro (data la lunghezza del ciclo di investimento immobiliare) da un lato, e l'esproprio, espulsione, marginalizzazione dei ceti popolari, nel caso specifico connotati razzialmente. Il '68 americano è non a caso introdotto da una serie di rivolte urbane guidate dalle minoranze e centrate sulla rivendicazione del "diritto alla città". Il caso più recente è anche il più evidente. Negli ultimi trent'anni il fenomeno dell'urbanizzazione, ormai da considerare su scala globale, è stato il principale meccanismo di assorbimento dei surplus, nonché uno degli strumenti privilegiati per l'elaborazione di quei meccanismi che hanno consentito una crescita esponenziale dei mercati finanziari, che non poteva che trovare un traumatico punto di arresto: è noto a tutti che l'innesco della crisi del 2008 è nel crollo negli Usa dei subprime, quel sistema di cartolarizzazione dei mutui che aveva coinvolto fino ai più modesti proprietari di casa nella roulette finanziaria. Non è solo la crisi a sconvolgere il tessuto sociale; il processo di urbanizzazione è il più evidente esempio della distruzione creatrice attraverso cui si svolge lo sviluppo capitalistico; per i ceti subalterni ristrutturazioni, sventramenti, ricostruzioni, significano come sempre espulsione e drastica riduzione dei diritti: è il corrispettivo urbano dello sfruttamento.
Per questo gli episodi di resistenza e rivolta urbana vanno considerati – secondo Harvey - come specifico e centrale esperienza della lotta di classe. Il proletariato urbano, protagonista delle azioni rivoluzionarie fin dalla Comune, si è esteso sempre di più fino a divenire molto più ampio e importante della classe operaia (che spesso ne costituisce un sottoinsieme). Lo sfruttamento di classe continua anche fuori dalla fabbrica, e l'urbanizzazione è essa stessa un prodotto: Perciò i movimenti per il "diritto alla città" devono essere posti al centro di ogni ragionamento sulle strategie rivoluzionarie.

Questa consapevolezza di fondo deve però essere sviluppata e articolata. Un limite ricorrente delle rivolte urbane è la difficoltà a generalizzarsi. Non è solo una questione oggettiva: l'autonomia delle rivendicazioni locali e la necessità del controllo dal basso vengono spesso elevati a principi assoluti contrapposti ad ogni tentativo di estensione, vissuta come imposizione dall'alto. Simili posizioni si ritrovano in forme diverse, dalle polemiche tra Bakunin e Marx sulla Comune, al dibattito sul bilancio partecipato, fino all'assemblearismo di Occupy Wall Street. E' evidente che tutto ciò è conseguenza della stratificata e complessa articolazione delle società urbane, d'altra parte - sostiene convincentemente Harvey - senza un salto di qualità geografico e "istituzionale", le esperienze locali non potranno mai costituire l'alternativa di sistema che potenzialmente rappresentano.

"micropolis", marzo 2014

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