22.6.14

Vera Vergani: “Quella sera, con Pirandello” (Silvia Giacomoni)

Una vecchia e bella intervista telefonica a una grande signora del teatro novecentesco, arricchita da curiosità biografiche e piena di suggestive evocazioni. C'è un curioso trio a Torino, per esempio. (S.L.L.)
Vera Vergani con il marito, il "comandante" Leonardo Pescarolo
Al telefono la voce di Vera Vergani, classe 1894, è allegra, squillante: "Sto bene, benissimo. Il tempo, a Procida, è sempre bello. Se sono contenta della mostra che mi dedica il Museo Biblioteca dell'attore di Genova? Felicissima! Adoro Genova; sono felice e emozionata come avessi vent'anni. Ed è il ritorno dei novantenni".
La decana delle nostre attrici di cinema e di prosa adora Genova: vi ha vissuto anni felici, dopo il matrimonio di romanticissimo amore che la strappò, nel 1930, a soli 35 anni, ai palcoscenici di mezzo mondo. Si era innamorata perdutamente, la bellissima, mentr'era in viaggio per l'America Latina: di Leonardo Pescarolo, il commissario di bordo. Bellissimo, elegante, grande tombeur de femmes, Pescarolo nel corso della stessa traversata - prima che la diva gli dichiarasse che senza di lui non avrebbe potuto più vivere - aveva conquistato la giovane Anna Magnani, che debuttava in quegli anni con la compagnia Vergani-Cimara. Era stupendo, nei suoi lini stazzonati, Pescarolo, e, a suo modo, un vincitore. Nato a Procida, figlio di una guardia carceraria, aveva preso giovanissimo il mare. Secondo ufficiale di coperta sull'"Elettra" di Guglielmo Marconi aveva scoperto il potere della sua presenza: lo scienziato lo preferiva al primo ufficiale come accompagnatore alle cerimonie. Quella presenza Pescarolo mise al servizio della carriera di commissario di bordo negli anni mitici della marineria italiana: fu sul "Rex" e sulla "Leonardo da Vinci". Ma la mise anche al servizio di Vera. E furono felici, assieme, a Genova, tra un imbarco e l'altro di lui. Poi a Procida, dove lui volle tornare quando ebbe maturata la pensione.
Quanto alla sua, di carriera, finché visse il marito, Vera Vergani non ne volle più parlare come fosse una cosa trascurabile, d'impiccio: temeva forse una gelosia retrospettiva dei trionfi, le corbeille, le passioni suscitate, gli amori con Niccodemi, con Cimara? Restata vedova, Vera Vergani ha scoperto i trentasei volumi di ritagli degli articoli che le eran stati dedicati, amorosamente conservati dalla figlia. Li ha letti con passione, e oggi si diverte meravigliosamente a rievocare la sua giovinezza. "Ho avuto una vita bellissima, sempre con gente molto intelligente. Mio fratello Orio, prima di tutto, e gli zii Podrecca, mia madre che era una grande musicista...". Il nonno Podrecca, avvocato a Cividale nel Friuli, fu il primo della famiglia col tarlo del teatro: scriveva irrappresentabili commedie, montava il pianoforte su un carro trainato da buoi, portava Beethoven sulle aie. Lo zio Guido, socialista, anticlericale, fondatore con Galantara dell'Asino, teorizzava il libero amore. Lo zio Vittorio, geniale organizzatore, radunava il meglio della cultura del tempo al servizio del suo Teatro dei Piccoli.
Mamma Maria, bella, appassionata, coraggiosa, ebbe le doglie di Vera durante una Manon alla Scala. Alla figlia piccolissima fece ascoltare 14 volte il Lohengrin. Un giorno, imbattutasi in via Manzoni nel tenore wagneriano Giuseppe Borgatti gli chiese: "E' lei, Borgatti?". Lui la fissò, e fu vinto. Ma quando la figlia Vera ebbe 18 anni ed entrò nella compagnia veneta di Benini, mamma Maria, non trovando un adeguato chaperon, le fu accanto in tutte le pensioncine e gli alberghi della tournèe. Vecchia, nella Milano degli anni 50, andava ogni settimana a confessarsi da un prete diverso. Confessava un peccato tremendo, la superbia. E ai preti stupefatti diceva: "Vorrei vedere lei, se avesse dei figli come Orio, come Vera!".
Vera e Orio, scomparso prestissimo il padre, furono da Maria tirati su con coraggio: con lezioni di pianoforte, e il ricamo di pianelle friulane. E vennero su bene. Vera, a 20 anni, era primattrice giovane con Talli; a 22 primattrice con Ruggeri; a 26 con Niccodemi. "Vuole sapere perché non scrivo i miei ricordi? Ho letto le memorie di Sarah Bernhardt, e mi fanno pena. Lei pensa solo a raccontare di sé, racconta di quando le portavano gli elefanti a salutarla. Ma cosa vale la piccola persona di un'attrice, di fronte alla ricchezza dei suoi tempi, all'intelligenza delle persone di cui ha detto le parole, di quelli con cui ha lavorato?". Commenta il direttore del Museo Biblioteca dell'attore, Tinterri: "Vera Vergani ha rappresentato parecchio, nel nostro teatro, soprattutto se si tiene conto di quanto è stata breve la sua carriera. E' stata un'attrice particolare che ha lavorato con delle compagnie particolari e con una compagnia particolarissima, quella di Niccodemi. E' stata la prima figliastra nei Sei personaggi, la prima Silla Gala nel Gioco delle parti, la prima Delia Morello in Ciascuno a suo modo. Certo, la sua fortuna è stata quella di aver recitato negli anni 20, i più interessanti per il teatro italiano: quando si afferma Pirandello, nasce il teatro d'arte, si avvertono i primi sintomi della regia, prima che si consolidi il regime fascista. Ha avuto la fortuna di capitare nel momento giusto, di lavorare con i migliori attori e capocomici: ma non a caso sceglievano lei Talli, Ruggeri, Niccodemi".
"Pirandello" ricorda la Vergani "lo rammento ingenuo: un uomo stupito della vita, un uomo dolce. Alla prima dei Sei personaggi il pubblico lo voleva picchiare. Ma io l'ho difeso a spada tratta". Anche per la compagnia erano difficili, i Sei personaggi. E Niccodemi, quando Pirandello si chiudeva in camerino a riscrivere delle battute, mandava Checco Rissone bambino a origliare il tono con cui le scandiva a voce alta. Ma Vera Vergani fu innumeri volte, con ineguagliato successo - e anche nella serata d' addio - Mila di Codro.
Ricorda: "D' Annunzio era un parolaio meraviglioso, molto affascinante per le donne: non per me, ch'ero scettica. Ma anche Gramsci, ho conosciuto, e Gobetti. Mi si presentarono alla fine di una recita, a Torino: due giornalisti. E tornarono ogni sera, chiacchierando mi accompagnavano in albergo. Gobetti aveva un cappelluccio tutto tirato avanti. Gramsci era molto gauche. Dovevano essere veramente eccezionali altrimenti io, nella mia giovinezza, li avrei mandati a farsi friggere! Non credo fossero affascinati dalla mia bellezza; avevo fascino anche per quel che dicevo; venivo da una famiglia colta: siamo in quattro o cinque, sulle enciclopedie!".
Alla mostra di Genova ci sono quattro abiti: due costumi di scena veri e propri, e poi un abito da sera bianco e un vestito con strascico dell'Ottocento: appartenuto alla nonna Podrecca, Vera lo indossava in Moglie e buoi dei paesi tuoi. Non c'era, allora, la rigorosa divisione tra abiti normali e da scena; per le commedie borghesi andavano benissimo i vestiti d'ogni giorno. Quelli di Vera erano splendidi, delle migliori sartorie milanesi. Ma queste son quisquilie su cui la vecchia signora non ama soffermarsi. Vorrebbe piuttosto che si ricordasse meglio Benini, l'Eduardo veneto con cui debuttò, da tutti dimenticato. E vuole far l'elogio dei figli: "Le garantisco, sono, e sono stati, sempre adorabili".


“la Repubblica”, 6 novembre 1985  

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