10.7.14

Oscar Wilde e il suo amico Bosie (Attilio Lolini)

II più bell'elogio al libro di Lord Alfred Douglas Con Oscar Wilde (Gammalibri, 1982), venne, tutto sommato, da André Gide che lo definì «infame». 
«Non conoscevo Douglas — racconta Gide — ma Wilde cominciò a parlarmi di lui in tono di straordinario elogio. Lo chiamava Bosie, per cui non compresi subito a chi le lodi si riferissero, tanto più che sembrava mettere una certa affettazione nel lodarne solo la bellezza (...). Accettai di uscire con loro dopo pranzo (...) Alfred mi prese affettuosamente per il braccio e dichiarò: Queste guide sono stupide: si ha un bello spiegare loro, vi portano sempre In caffè pieni di donne. Spero che slate come me: ho orrore delle donne. Mi piacciono solo i ragazzi». 
Non solo: «II fatto seguente» - prosegue Gide - «darà la misura del suo cinismo: perché lo interrogavo un giorno sui due figli di Wilde, insistette sulla bellezza di Cyril (credo) giovanissimo ancora a quel tempo, poi bisbigliò con un compiacente sorriso: 'Egli è per me'».
A Bosie fu indirizzato il capolavoro di Oscal Wilde: il De Profundis, scritto nel carcere di Reading dove lo scrittore scontò due anni di detenzione per il reato di sodomia. Il marchese di Queensberry, padre di Bosie, aveva «spinto» Wilde a citarlo per diffamazione; il processo che seguì, spettacolare e clamoroso — rovinò completamente il poeta che dopo gli anni di prigione «scelse» una vita errabonda e disperata prima in Francia e poi in Italia seguito, oltre che dalla curiosità della gente, da un gruppetto di amici (tra i quali Douglas) i quali gli consentirono, almeno, di non morire di fame.
Lord Alfred non perdonò mai a Wilde il De profundis, opera — del resto — alla quale è essenzialmente affidata la sua memoria. Wilde morì, in condizioni di totale miseria, il 30 dicembre del 1900 e Alfred rilasciò subito numerose interviste dandosi un gran daffare per riabilitare l'immagine dell'amico specie agli occhi del pubblico inglese; poi, all'improvviso — come scrive Peppi Nocera Tenaxis nella nota introduttiva al pamphlet di Douglas: Con Oscar Wilde, per la prima volta tradotto da noi — il voltafaccia. «Robert Ross, divenuto l'esecutore letterario e testamentario di Wilde pubblica una parte del De Profundis, consegnando l'altra metà (inclusi i contenuti "scabrosi" per quel tempo) al British Museum, con la clausola che venga messa sotto sigillo fino al 1960».
Douglas perde la testa; per la prima volta Wilde gli appare «sincero» e la lettera a lui indirizzata, un fiume d'amarezza, la «vendetta» contro un amante indegno e superficiale. Superficialità, scrive Wilde, che è il sommo vizio.
Il De Profundis — nota Jaques Barzum — non «disgusta con le sue particolarità meschine, né getta ombra di pietà sul genere umano con la messa a nudo dell'io. Ci sono momenti che sfiorano il sublime, dato che il vero argomento è un cuore appassionato, provocante, sbalordito e consapevole».
La confutazione del «testamento» dell'amico è opera troppo ardua per Lord Alfred che è tutt'altro che un cattivo scrittore, anzi. Con Oscar Wilde, è, spesso, un libro «riuscito» e anche acuto e intelligente. Ecco la descrizione di come il fascinoso autore di Salomé apparve al giovane Lord a Oxford: «Allora aveva circa quarant'anni; era un affascinante conversatore, come tutti sanno. Era completamente diverso da tutti gli esseri che avevo conosciuto fino ad allora. Aveva quella coscienza illuminata di tutti i problemi della vita che è come la compensazione che l'età dona all'uomo superiore in cambio della perdita di moltissime altre cose. Aveva l'abitudine di esprimere i sentimenti più immorali ed estremisti con un'aria di autorità che doveva piacere a un giovanissimo uomo incline — come sono generalmente tutti i giovani entusiasti — a mille stravaganze. L'essenziale, a suo avviso, era "essere un grazioso ragazzo imparentato a tutta l'aristocrazia"; e, una volta raggiunto questo, tutti gli eccessi erano permessi, purché fossero commessi con grande eleganza».
Ma il primo «errore» di Douglas, e fondamentale, consiste nella negazione della propria omosessualità, anzi il libro pare scritto proprio per questo e, in tal senso, oltre che contraddittorio, appare addirittura penoso. Cosi deve essere stato inteso da Gide quando lo definì infame; e il processo Wilde-Queensberry uno scenario sommo di ipocrisie, tutto centrato sull'esorcizzazione dell'immondo «vizio» tanto che perfino «mio padre», scrive il bell'Alfred, «non era arrivato ad accusare Wilde della pratica di questi vizi; sul biglietto lasciato al Club egli lo rimproverava soltanto di posare a personaggio depravato».
La «difesa» di Lord Douglas, come spesso succede in questi casi, è un pericoloso boomerang, anzi avvalora la convinzione — ormai certezza — che il «corruttore» sia stato proprio lui, Douglas; e Wilde la «vittima» consapevole, disponibile alla rovina, al «suicidio».
La vita ad un certo punto, come a Pier Paolo Pasolini protagonista di una dissimile tragedia, deve essergli apparsa insopportabile, un «mucchio d'ironiche rovine»; il successo una vana chimera e l'amore un imprendibile miraggio. La totale «innocenza» di Wilde è evidenziata dal De Profundis, opera di liberazione, di annullamento mentre Lord Douglas continuerà per sempre a «difendersi» con le sue scialbe «precisazioni», con i suoi distinguo in una mostruosa tela di menzogne o di mezze verità.

“il manifesto”, ritaglio senza data, probabilmente 1982

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