27.8.14

I greci di Bruno Snell (Roberto Andreotti)

Caspar David Friedrich - Il tempio di Giunone ad Agrigento (1830)
Perché mai oggi dovremmo tornare a leggere Bruno Snell? La sua idea di Classico impregnata di universali è ancora operante dopo tanti anni, o invece è una moneta fuori corso o, tutt’al più, un inutile oggetto d’affezione? Che fondamento scientifico è ancora in grado di garantirci la sua ermeneutica «dagli effetti deformanti» – come ha lucidamente dimostrato Bernard Williams –, tesa a dimostrare che se i greci di Omero non riconoscono un certo elemento, allora questo «per loro non esiste»?: così, ad esempio, non avendo a disposizione corrispondenti termini lessicali, gli eroi omerici risulterebbero privi del concetto unitario di «corpo», di «anima», di identità personale; sarebbero incapaci di prendere decisioni; avrebbero «una esperienza etica primitiva, priva di moralità»...
Mettiamoci per un attimo nei panni di uno degli studenti che in questi giorni danno la maturità, il quale intenda proseguire nello studio delle lingue classiche per farne il fulcro del proprio sviluppo culturale, umano, professionale: a che altezza egli dovrà collocare l’ideologia archetipica e grecocentrica di Snell, trovandosi viceversa nella prospettiva di un Occidente ibridizzato che ha messo in discussione non solo l’‘univocità’ delle proprie radici, ma la stessa legittimità culturale delle radici?; e nel quale il Classico come matrice primigenia ed esemplare della cultura europea ha lasciato il campo a un ripensamento pluralistico dei modelli?
A provocare questi e altri interrogativi è la pubblicazione inattesa di un libro del celebre filologo tedesco (1896-1986), arrivato sulla scrivania giusto il giorno del Venerdì Santo: con un tramonto ad Agrigento di Friedrich su una veste dai toni bassi prettamente universitaria (sembrano xerox-copie anni ottanta rilegate). Dunque un fatto di ordinaria attualità, ma di un’attualità quasi senza tempo, stando alla dedica in frontespizio (omnibus qui studia classica amant), per la cui comprensione sarà
utile accendere perlomeno qualche lampadina di storia della cultura.
Il volumetto in questione riunisce per il lettore italiano due saggi di Snell mai prima tradotti: Noi e gli antichi Greci, Nove giorni di latino (Pàtron editore, a cura di Marilena Amerise). Si tratta di due testi di natura diversa, entrambi risalenti agli anni cinquanta. Solo il primo di essi, pubblicato in Germania nel 1962, è propriamente un saggio. La sua scansione – come correttamente dichiara l’autore – risale in parte a una serie di contributi precedentemente apparsi in rivista o ciclostilati: «Regole e libertà nella lingua»; «Osservazioni sulle teorie dello stile», sul relativismo storico delle esperienze e delle teorie estetiche; «Cultura generale e scienze naturali», sulla nozione occidentale di scienza come diretto frutto della filosofia greca; «Sviluppo di una lingua scientifica in Grecia», col graduale passaggio dal concreto all’astratto, e così via. A quell’epoca, specialmente in Germania, era molto attuale – per dirla con il discepolo Erbse – «la discussione sul valore dell’educazione umanistica», con inevitabili ricadute soprattutto nel campo degli studi classici. Snell, che aveva maturato progressivamente un punto di vista anti-hegeliano, e preso le distanze dall’influente «Terzo umanesimo» di Jaeger (come ha spiegato molto bene Diego Lanza), vedeva negli antichi Greci l’archetipo cui ricondurre parabole di «progresso e declino» e schemi di stili, linguaggi e soluzioni formali sentiti però come degli stadi evolutivi lungo un ideale vettore di sviluppo della civiltà, dove letteratura e arti figurative si rincorrano in un suggestivo ma rischioso testa a testa. Così, ad esempio, un cavallo fremente del Partenone sembrerà a Snell molto più «animato» di certe teste umane anticoegiziane, anche se i Greci – conclude con apprezzabile cultura pittorica –, non avevano ancora imparato a «sentimentalizzare» gli animali come farà, molti secoli dopo, Landseer. Ecco un passo abbastanza sintomatico del suo periodare: «Che un albero nella neve getti un’ombra blu, ciascuno oggi lo vede, ma quando io ero un bambino molti ancora lo contestavano ai pittori impressionisti. E così come questa parte di natura ha dovuto essere scoperta, tutto ciò che noi chiamiamo “natura” è stato acquisito alla consapevolezza umana nel corso della storia (…) La natura grande, libera, il paesaggio che solleva lo spirito, c’è soltanto da quando Petrarca per primo salì su un monte, il monte Ventoso in Provenza (…). La natura intesa come kosmos ordinato (…) solo da quando i filosofi greci la postularono…» (p. 68).
Sia tatticamente, sia stilisticamente (Erbse esalta la «chiarezza espositiva» di queste pagine, tanto più stranianti se paragonate a certo saggismo fumoso che ci tocca in sorte oggi), siamo insomma all’altezza dello Snell maggiore de La cultura greca e le origini del pensiero europeo, il famoso saggio uscito in prima edizione a Gottinga nel 1948 con un titolo ancora ‘hegeliano’: Die Entdeckung des Geistes, ‘la scoperta dello spirito’. Einaudi lo tradusse quasi sùbito, ma cambiandogli l’abito. Probabilmente lo spirito in copertina avrebbe creato perplessità e grattacapi, mentre gli inglesi se la cavarono con il meno compromesso Mind. Una risaputa sentenza dello stesso Hegel può aiutarci a fotografare, con un solo scatto, il background filosofico di quel fortunato libro: «Presso i Greci ci sentiamo subito in patria (heimatlich), perché siamo sul terreno dello spirito… Lo spirito europeo ha trascorso la sua giovinezza in Grecia: da ciò l’interesse di ogni persona colta per tutto ciò che è greco». Solo puntandogli una pistola alla tempia oggi si troverebbe qualcuno disposto a sottoscrivere quest’immagine.
Di tutt’altra natura, come detto, è il secondo dei testi tradotti in questa occasione, e cioè la sbobinatura di una serie di lezioni radiofoniche per il Terzo programma tedesco, tenute da Snell a partire dalla sera del Natale 1954, sull’importanza strategica del latino e su alcuni aspetti rilevanti della cultura letteraria latina, da Catullo alla retorica ciceroniana a Ovidio, fino ai Carmina Burana, con annessa piccola antologia di esempi. Anche qui l’attitudine alla limpidezza del dettato ci fa essere indulgenti su qualche inevitabile disaccordo storico-critico, ma le parti più attraenti per noi restano quelle in cui Snell si concede, sempre con stile, qualche spicchio di vissuto: il liceo Johanneum di Lüneburg frequentato da ragazzo, «dove sibilava la ghigliottina» della traduzione all’impronta («continua tu ora…»); la cosiddetta battaglia delle forme, cioè le gare di latino in classe prima dell’estate; i compiti a casa con l’aiuto del padre, psichiatra, che però sbagliava gli accenti e gli spiriti di greco…
Non abbiamo ancora detto come è nato questo Snell italiano proposto fuori stagione dai classicisti bolognesi: non è del tutto irrilevante per intuire che alone deve avere accompagnato il grande filologo tedesco nella sua lunga vita. Qualcosa trapela dalle pagine introduttive e si tratta, in perfetta sintonia con la philía che impregnava le sue ricerche, di una curiosa staffetta umanistica. La spinta a tradurre in italiano questi testi risalirebbe infatti allo stesso Hartmut Erbse (1915-2004), il discepolo di Snell. Erbse conobbe Snell nel ’37, rimanendone segnato per la vita, all’università di Amburgo, dove il maestro si distingueva anche nella resistenza al nazismo. Ormai vecchissimo Erbse ospitò a Bonn una giovane antichista italiana, Marilena Amerise appunto, che insieme a lui, quasi cieco, leggeva proprio queste pagine di Snell per migliorare il proprio tedesco. Nel frattempo è scomparso Erbse e infine anche l’ultima staffettista, prematuramente fotografata da sorella morte sulla soglia di un convegno pontificio – come ricorda il cardinal Ravasi nell’epicedio che apre il libro da lei così amorevolmente curato. Nessuno dei protagonisti di questa catena degli affetti si è dato cura però di sottoporre a una elementare verifica storico-critica i «valori» affidati tanti anni fa a questi testi: verifica tanto più necessaria in quanto la loro traduzione è destinata (anche) a lettori giovani e comunque lontani dalla temperie in cui essi furono concepiti.
La difesa strenua del Classico come umanesimo esemplare; la Grecia crogiolo dell’uomo europeo, e via dicendo, sono l’esito inconfondibile di una determinata ideologia della Storia che non può certo essere riproposta oggi tout court, senza dare conto almeno delle obiezioni scientifiche mosse le da autorevoli antagonisti come Lévi-Strauss o la scuola Gernet-Vernant-Detienne: a cominciare da quel «principio lessicale» che Williams ha smontato in pagine feroci e memorabili. Alcuni di questi dispositivi di Snell, ormai definitivamente disinnescati, ‘tornano’ nelle pagine ora svelate al lettore italiano. Per esempio le dimostrazioni lessicali a proposito della ‘conquista’ dell’astratto, o sulle origini della congiunzione causale, in greco; o ancora, quando si pretende di abbozzare una teoria universale delle arti che arrossirebbe se affrontata anche solo alle pagine iniziali di Arte e illusione.
Si potrebbe obiettare che qui in fondo lo scopo dei ragionamenti è tutto nobilmente proteso a tutelare l’appannaggio della tradizione classica nella scuola (allora) moderna, vale a dire a difendere l’architrave dell'«uomo occidentale» (commovente la pagina di Snell sull’influenza esercitata dal Timeo di Platone sulla giovane mente del grande fisico quantistico Werner Heisenberg). Non ci troviamo forse anche noi, oggi, nella condizione persino più drammatica di dover salvare l’insegnamento a scuola del greco, del latino e della storia antica? Molto difficilmente però la classicità smagliante di Snell, così univoca e archetipica, avrebbe qualche chance di essere recepita e metabolizzata in un quadro di saperi dove la nozione stessa di uomo occidentale – o quanto meno quella a cui si riferiva quella generazione – è andata in frantumi. Né i testi letterari e filosofici che Snell con trasporto encomiabile ha studiato e in alcuni casi fissato in valorose edizioni, possono essere considerati dei preziosi gioielli per così dire astratti dalla storia; la cui bellezza e verità sia arrivata misteriosamente intatta sino a noi dopo avere solcato le onde del tempo (per usare una formula schematica: storicità vs esemplarità). È probabile che un pregiudizio anti-marxista sbarrasse al filologo pensante Snell l’accesso a tutta una serie di acquisizioni, dall’antropologia alla linguistica, che poi di fatto avrebbero modificato sin dalle fondamenta il glorioso edifico ottocentesco delle Scienze dell’antichità, e perciò anche la definizione di Classico nel panorama epistemologico del dopoguerra.
Oggi che si sono raffreddati i furori ideologici, e depurati certi eccessi di autoreferenzialità, possiamo valutarne meglio esiti e guadagni. La lettura ‘anacronistica’ di questo libro di Snell riporta indietro le lancette, e ci fa sedere per qualche ora, in piena Guerra fredda, in un confortevole salotto borghese tedesco le cui finestre siano rimaste chiuse da allora. In garage ci sarà ancora parcheggiato un indistruttibile Maggiolino VW, o più probabilmente un’elegante berlina con la stella a tre punte. Se non ci facciamo stordire dalla macchina del tempo, possiamo portarci a casa l’insegna e ricominciare daccapo: I greci e noi è ancora un buon programma di lavoro.


Alias 2 luglio 2011

Nessun commento:

Posta un commento