26.9.14

Caporetto 1917. La borghesia contro il "nemico interno" (Lucio Villari)

La mattina del 24 ottobre, all'inizio dell'offensiva, su Tolmino, Plezzo e Caporetto gravava una nebbia fittissima, eccezionale: un muro piovigginoso che salvò la vita a migliaia di soldati italiani perché il nemico fu costretto a rinunziare ai gas asfissianti. Ma le dense nubi stagnanti permisero alle divisioni austriache e tedesche di avanzare tranquillamente fino a confondersi addirittura con le nostre truppe e a provocare quello che un testimone autorevole, Angelo Gatti, definì «uno dei più improvvisi e vasti disfacimenti di eserciti che ricordi la storia».
Le battaglie si possono perdere in tanti modi, ma in quei giorni a Caporetto avvenne qualcosa di simile all'8 settembre 1943. I soldati che Cadorna si affrettò a definire (in un bollettino che non si ebbe nemmeno il coraggio di pubblicare integralmente) dei «vili», non erano, in fondo, che persone ingannate e violentate dai loro comandi, che essi odiavano più del nemico e della guerra stessa.
Alla Camera dei deputati riunita in «comitato segreto» il ministro della guerra dirà qualche giorno dopo: «Era una folla, non indisciplinata, ma soprattutto incosciente, dimentica del passato, noncurante dell'avvenire, che collo sguardo atono moveva per le grandi strade, senza sapere né dove andasse né perché. Chi ha veduto quelle colonne non le dimenticherà mai! Invano si cercava in quegli occhi un lampo di vita, invano un sintomo di coscienza, fosse pure quella del ribelle!».
Di fronte a quel che rappresenta Caporetto è difficile chiedere allo storico un giudizio perentorio, anche perché dalla disfatta, che appariva irrimediabile, si giunse, un anno dopo, alla vittoria. Ma nessuno storico può negare che nei mesi successivi a Caporetto si cancellarono le speranze che la classe dirigente e la società italiana nel suo complesso potessero trasformarsi, aprirsi a quelle esigenze di giustizia sociale e di democrazia che il 1917 aveva visto esplodere in quasi tutti i paesi d'Europa coinvolti nella guerra.
E' assurdo quindi vedere Caporetto come l'episodio di una grave crisi militare. Esso fu molto di più, fu la manifestazione di una crisi politica e sociale di vaste proporzioni che era maturata nel seno stesso della guerra e che riesploderà puntualmente nel dopoguerra, coinvolgendo tutta la nazione. In tal senso la rotta del 1917 e la vittoria del 1918 non sono che le facce di una stessa medaglia. Anzi proprio la ripresa militare servì a completare e perfezionare il colpo di Stato del maggio 1915 che aveva costretto l'Italia a entrare, recalcitrante, nel conflitto. Con la differenza che, mentre nelle «radiose giornate» i fronti contrapposti erano tra neutralisti e interventisti (e all'uno o all'altro appartenevano indifferentemente conservatori e progressisti), nel 1918 la contrapposizione fu più sottile e si precisarono meglio i ruoli di classe. Soprattutto nei termini di una «riscossa» della borghesia che puntò sulla propria unificazione ideologica e politica esclusivamente in funzione antisocialista.
Il primo segnale di questo processo si ebbe già alla fine del 1917, nel corso di uno dei «comitati segreti» della Camera: alla richiesta pressante della sinistra di individuare le responsabilità politiche e militari di Caporetto e di promuovere un'inchiesta pubblica, la risposta fu la creazione di un «fascio di difesa nazionale» (sostenuto dal governo) che raccolse subito l'adesione di 158 deputati liberali e conservatori. L'iniziativa fu esaltata, ad esempio, da Giovanni Amendola proprio perché essa serviva, secondo le sue parole, a bloccare l'azione e il rilancio dei socialisti.
La sinistra, il movimento operaio erano ora il «nemico interno» (l'espressione fu coniata a proposito) da sconfiggere alla stessa stregua di quello esterno: così si esprimevano, nel dicembre 1917, ottanta patriottici professori dell'Università di Roma. E ciò mentre, di fronte al disastro di Caporetto, le voci contro la guerra tacevano anche a sinistra e da parte dei lavoratori e dei sindacati non si ostacolavano in alcun modo i progetti di riorganizzazione strategica e logistica dell'esercito. Evidentemente l'occasione era troppo importante per le forze della conservazione per non tentare l'identificazione tra la difesa del territorio nazionale e la difesa di precisi interessi sociali ed economici.
Certo, incombeva l'ombra allarmante della rivoluzione russa, scoppiata nei giorni di Caporetto, ma in che chiave leggere (ecco un altro esempio) quanto scriveva nel suo diario, il 10 novembre 1917 un membro del governo, l'industriale Silvio Crespi? «La situazione alimentare è disastrosa. Nelle Calabrie non c'è più pane da quindici giorni. Da tutti i prefetti giungono telegrammi che chiedono farina per pane. Alcuni fanno balenare il pericolo di una rivoluzione. Rispondo che chiederò l'applicazione della legge marziale ovunque si accenni a rivoluzione». Chi parlava così non era il ministro dell'interno, ma il Commissario degli approvvigionamenti e consumi, cioè colui che più di ogni altro avrebbe dovuto comprendere i bisogni immediati di una delle regioni più povere e più decimate, nei suoi uomini migliori, dalla guerra. Ma l'industriale e l'uomo di governo si erano fusi perfettamente.
La rotta di Caporetto è dunque uno spartiacque politico e ideologico di grande rilievo nella storia non soltanto della guerra. Sappiamo bene quanti rivolgimenti provocò quel conflitto nell'Europa e nel mondo e non vogliamo quindi ingigantire il caso italiano. E' un fatto però che la borghesia italiana, che pure, negli anni precedenti, aveva mostrato in alcuni suoi settori (della cultura, della produzione, della politica) una certa sensibilità e duttilità nei confronti dei problemi più gravi dello sviluppo civile e sociale del paese, fa, dopo Caporetto, una autocritica: ma in negativo. Sarà la fine di molte illusioni, tra cui quella (come confermerà il fascismo qualche anno dopo) che l' Italia potesse diventare un paese meno squilibrato e più democratico.


“la Repubblica”, 23 ottobre 1977

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