La mattina del 24
ottobre, all'inizio dell'offensiva, su Tolmino, Plezzo e Caporetto
gravava una nebbia fittissima, eccezionale: un muro piovigginoso che
salvò la vita a migliaia di soldati italiani perché il nemico fu
costretto a rinunziare ai gas asfissianti. Ma le dense nubi stagnanti
permisero alle divisioni austriache e tedesche di avanzare
tranquillamente fino a confondersi addirittura con le nostre truppe e
a provocare quello che un testimone autorevole, Angelo Gatti, definì
«uno dei più improvvisi e vasti disfacimenti di eserciti che
ricordi la storia».
Le battaglie si possono
perdere in tanti modi, ma in quei giorni a Caporetto avvenne qualcosa
di simile all'8 settembre 1943. I soldati che Cadorna si affrettò a
definire (in un bollettino che non si ebbe nemmeno il coraggio di
pubblicare integralmente) dei «vili», non erano, in fondo, che
persone ingannate e violentate dai loro comandi, che essi odiavano
più del nemico e della guerra stessa.
Alla Camera dei deputati
riunita in «comitato segreto» il ministro della guerra dirà
qualche giorno dopo: «Era una folla, non indisciplinata, ma
soprattutto incosciente, dimentica del passato, noncurante
dell'avvenire, che collo sguardo atono moveva per le grandi strade,
senza sapere né dove andasse né perché. Chi ha veduto quelle
colonne non le dimenticherà mai! Invano si cercava in quegli occhi
un lampo di vita, invano un sintomo di coscienza, fosse pure quella
del ribelle!».
Di fronte a quel che
rappresenta Caporetto è difficile chiedere allo storico un giudizio
perentorio, anche perché dalla disfatta, che appariva irrimediabile,
si giunse, un anno dopo, alla vittoria. Ma nessuno storico può
negare che nei mesi successivi a Caporetto si cancellarono le
speranze che la classe dirigente e la società italiana nel suo
complesso potessero trasformarsi, aprirsi a quelle esigenze di
giustizia sociale e di democrazia che il 1917 aveva visto esplodere
in quasi tutti i paesi d'Europa coinvolti nella guerra.
E' assurdo quindi vedere
Caporetto come l'episodio di una grave crisi militare. Esso fu molto
di più, fu la manifestazione di una crisi politica e sociale di
vaste proporzioni che era maturata nel seno stesso della guerra e che
riesploderà puntualmente nel dopoguerra, coinvolgendo tutta la
nazione. In tal senso la rotta del 1917 e la vittoria del 1918 non
sono che le facce di una stessa medaglia. Anzi proprio la ripresa
militare servì a completare e perfezionare il colpo di Stato del
maggio 1915 che aveva costretto l'Italia a entrare, recalcitrante,
nel conflitto. Con la differenza che, mentre nelle «radiose
giornate» i fronti contrapposti erano tra neutralisti e
interventisti (e all'uno o all'altro appartenevano indifferentemente
conservatori e progressisti), nel 1918 la contrapposizione fu più
sottile e si precisarono meglio i ruoli di classe. Soprattutto nei
termini di una «riscossa» della borghesia che puntò sulla propria
unificazione ideologica e politica esclusivamente in funzione
antisocialista.
Il primo segnale di
questo processo si ebbe già alla fine del 1917, nel corso di uno dei
«comitati segreti» della Camera: alla richiesta pressante della
sinistra di individuare le responsabilità politiche e militari di
Caporetto e di promuovere un'inchiesta pubblica, la risposta fu la
creazione di un «fascio di difesa nazionale» (sostenuto dal
governo) che raccolse subito l'adesione di 158 deputati liberali e
conservatori. L'iniziativa fu esaltata, ad esempio, da Giovanni
Amendola proprio perché essa serviva, secondo le sue parole, a
bloccare l'azione e il rilancio dei socialisti.
La sinistra, il movimento
operaio erano ora il «nemico interno» (l'espressione fu coniata a
proposito) da sconfiggere alla stessa stregua di quello esterno: così
si esprimevano, nel dicembre 1917, ottanta patriottici professori
dell'Università di Roma. E ciò mentre, di fronte al disastro di
Caporetto, le voci contro la guerra tacevano anche a sinistra e da
parte dei lavoratori e dei sindacati non si ostacolavano in alcun
modo i progetti di riorganizzazione strategica e logistica
dell'esercito. Evidentemente l'occasione era troppo importante per le
forze della conservazione per non tentare l'identificazione tra
la difesa del territorio nazionale e la difesa di precisi interessi
sociali ed economici.
Certo, incombeva l'ombra
allarmante della rivoluzione russa, scoppiata nei giorni di
Caporetto, ma in che chiave leggere (ecco un altro esempio) quanto
scriveva nel suo diario, il 10 novembre 1917 un membro del
governo, l'industriale Silvio Crespi? «La situazione alimentare è
disastrosa. Nelle Calabrie non c'è più pane da quindici giorni. Da
tutti i prefetti giungono telegrammi che chiedono farina per pane.
Alcuni fanno balenare il pericolo di una rivoluzione. Rispondo che
chiederò l'applicazione della legge marziale ovunque si accenni a
rivoluzione». Chi parlava così non era il ministro
dell'interno, ma il Commissario degli approvvigionamenti e consumi,
cioè colui che più di ogni altro avrebbe dovuto comprendere i
bisogni immediati di una delle regioni più povere e più decimate,
nei suoi uomini migliori, dalla guerra. Ma l'industriale e l'uomo di
governo si erano fusi perfettamente.
La rotta di Caporetto è
dunque uno spartiacque politico e ideologico di grande rilievo nella
storia non soltanto della guerra. Sappiamo bene quanti rivolgimenti
provocò quel conflitto nell'Europa e nel mondo e non
vogliamo quindi ingigantire il caso italiano. E' un fatto però che
la borghesia italiana, che pure, negli anni precedenti, aveva
mostrato in alcuni suoi settori (della cultura, della produzione,
della politica) una certa sensibilità e duttilità nei confronti
dei problemi più gravi dello sviluppo civile e sociale del paese,
fa, dopo Caporetto, una autocritica: ma in negativo. Sarà la fine di
molte illusioni, tra cui quella (come confermerà il fascismo qualche
anno dopo) che l' Italia potesse diventare un paese meno squilibrato
e più democratico.
“la Repubblica”, 23
ottobre 1977
Nessun commento:
Posta un commento