25.9.14

Cara Sissi. Cioran e la tragica imperatrice (Elena Guicciardi)

Anton Romako, L'Imperatrice Elisabetta d'Austria (1883)
PARIGI — Chi visita al Beaubourg la splendida mostra Vienna 1880-1938 incontra nella prima sala un inquietante ritratto di Elisabetta d'Austria, dipinto nel 1883 da Anton Romako. Non vi si trova più alcuna traccia del fresco sorriso di quella Sissi che a sedici anni aveva sposato l'imperatore Francesco Giuseppe e che un secolo dopo sarà incarnata sugli schermi da Romy Schneider. Lo splendore dell'imperatrice - che a trent'anni disputava a Eugenia di Montijo, moglie dì Napoleone III, il titolo della più bella testa coronata d'Europa —, quale risulta da un altro celebre ritratto, quello di Winterhalter, si è un po' attenuato.
All'epoca in cui Romako la dipinge, Elisabetta ha 46 anni. Conserva il suo vitino di vespa, il suo portamento altero, le labbra vermiglie e quella favolosa massa di capelli castani che, sciolti, le arrivano alle caviglie (così pesanti da procurarle il mal di testa, per cui soleva stenderli per ore appesi ad un nastro, come panni messi ad asciugare). Nel ritratto di Romako, Elisabetta è ancora bella ma il mento le si è appesantito e il naso appare sproporzionatamente lungo. Colpiscono soprattutto le mani, attorcigliate in un gesto convulso e gli occhi cupi, quasi spiritati. Un'ombra di follia e di morte traversa il suo sguardo.

Amore platonico
Questa vulnerabilità dell'imperatrice ha incantato E.M. Cioran, come lui stesso racconta in una bellissima intervista che figura nel prologo di Apocalypse Joyeuse, una raccolta di saggi e testimonianze edita dal Beaubourg in occasione della mostra viennese (pagg. 768, franchi 360). In questo testo, che potrebbe figurare nei suoi Éxercices d'admiration (pubblicato recentemente da Gallimard), Cioran dichiara che il suo «interesse appassionato» fu suscitato anzitutto da una frase di Elisabetta citata da Barrès nella prefazione ad una biografia di Costantino Christomanos, e da lui letta all'età di 24 anni:«L'idea della morte purifica e assolve la funzione del giardiniere, che strappa le erbacce nel suo giardino, ma vuole essere solo e si adonta se i curiosi lo guardano al di sopra del muro. Perciò io dissimulo il volto sotto 1'ombrello e dietro il ventaglio, affinché l'idea della morte possa tranquillamente compiere in me il suo lavoro di giardinaggio».
Un profondo disincanto accomuna l'imperatrice e l'autore di Syllogismes de l'amertume e De l' inconvénient d'étre né. Ma tra loro esistono pure altre affinità. Cioran è nato a Rasinari, in Tran-silvania, nel 1911, quando la regione apparteneva ancora all'impero austro-ungarico. La prima lingua che ha imparato alle elementari, e che parlavano i suoi genitori, è stata il magiaro. Le prime musiche che lo hanno cullato erano musiche tzigane. Esule ormai da decenni in Francia, Cioran è ancora nostalgico della sua lingua natìa e dei ritmi tzigani che lui s'identificano con l'amore per gli ungheresi, “un popolo così originale, così complessp esiliato al centro dell'Europa e in preda a una nostalgia selvaggia.
Franz Xaver Winterhalter, L'Imperatrice Elisabetta d'Austria in abito da ballo (1865)
Come lui Elisabetta fu sensibile al fascino magiare, tanto da voler studiare l'ungherese, lingua che utilizzerà perfino nelle corrispondenze e nelle conversazioni familiari. Quando a 27 anni Sissi si ribella al giogo della suocera, l'autoritaria arciduchessa Sofia, sceglierà di vivere più a Budapest che a Vienna ed è a Budapest che decide di mettere al mondo la sua quartogenita, Maria Valeria. Ciò provoca un grave scandalo a Corte, dove si mormora che la neonata sia la figlia adulterina di un uomo politico ungherese, Gjula Andrassy. In realtà l'amore che Elisabetta nutrì per Andrassy restò platonico, come del resto tutti gli altri amori illeciti che le vennero attribuiti. E' vero invece che, diventata docile strumento di Andrassy, l'imperatrice, di solito indifferente alla politica, fece fuoco e fiamme per sostenere le rivendicazioni nazionaliste ungheresi, contribuendo così a vompromettere la solidità dell'impero. Cioran lo ammette: “A causa della sua eccessiva passione per 1'Ungheria, ostile all'idea di una federazione — unica soluzione ragionevole — l'imperatrice ha accelerato, in una certa misura, il crollo della duplice monarchia».
Sprovveduta sul piano politico, Elisabetta fu veramente folle nel senso patologico del termine? Qui converrà rifarsi alla fondamentale biografia di Brigitte Hamann, Elisabeth, Kaiserin wider Willen, pubblicata a Vienna da Amalthea Verlag e poi in francese da Fayard (Elisabeth d'Autriche), in cui 1'autrice, attingendo ad archivi depositati in Svizzera e rimasti segreti per decenni, e ad altre fonti inedite, ricostruisce le fasi successive dello slittamento di Elisabetta verso la follia.
Questa discendente della famiglia ducale dei Wittelsbach, dove i matrimoni tra consanguinei erano frequenti, è vittima di una pesante eredità. Suo nonno, il duca Pio di Baviera, era un eccentrico che trascorse gli ultimi anni della sua esistenza come un eremita. Delle sue quattro sorelle, Sofia, duchessa d' Alençon, curata dal celebre neurologo Krafft-Ebing, dovette essere internata; e le altre tre — Elena, principessa di Turn und Taxis, Maria Sofia, sposata a Francesco II delle Due Sicilie, e Matilde, duchessa di Trani — manifestarono in vecchiaia sintomi di nevrastenia. E non parliamo del cugino Ludwig II di Baviera, a cui Elisabetta fu legatissima e del quale tutti conoscono la tragica fine.
La giovane Sissi che nel 1854 arriva alla Corte di Vienna è tuttavia una ragazzina radiosa e piena di salute come una contadinella bavarese: lei stessa si definisce, in una poesia, «una figlia del sole». Ma non riesce a piegarsi all'etichetta e ai pesanti obblighi protocollari. Si annoia al fianco di un marito innamoratissimo ma prosaico e puntiglioso come un burocrate; soffre soprattutto dell'invadenza della suocera che la tratta come una bambina, si intromette fra gli sposi fin dalla loro luna di miele e prende in mano 1'educazione dei principini. Allora Sissi si incupisce, piange, comincia a rifiutare il cibo, non vuole partecipare alle cerimonie ufficiali.
Abbiamo già visto come manifestò le sue velleità di rivolta a proposito dell'affare ungherese. Sentendosi infelice, diserterà la Corte e soggiornerà sempre più a lungo all'estero: a Madera, a Corfù, in Inghilterra, in Irlanda (dove si dedica ai suoi sport favoriti — la caccia alla volpe e l'equitazione — scortata dal giovane Bay Middleton che passa per essere il suo amante), poi in Francia, in Italia, in Portogallo, in Algeria, in Svizzera.
I suoi vagabondaggi, il fatto che trascuri i suoi doveri di imperatrice, di moglie e di madre, i suoi capricci alimentano molte chiacchiere. Spende somme favolose per farsi costruire e arredare delle residenze personali (che talvolta non abiterà neppure, come il celebre «Achilleion» di Corfù) o per l'acquisto e l'addestramento dei suoi cavalli. Fa scandalo per la sua mania di comparire senza farsi annunciare nelle Corti straniere, ivi compresa quella della rigida regina Vittoria; le capiterà perfino di farsi arrestare, presentandosi in incognito alla dimora della vedova di Federico III di Prussia. Negli ultimi anni, quando adotta definitivamente una dieta lattea, si porta appresso nei suoi viaggi una capra e due vacche, per essere sicura di disporre sempre di latte fresco.

Versi esaltati
Ha un vero culto della propria bellezza, ciò che la induce a commettere molte stravaganze. Per conservare la sua silhouette da indossatrice (cinquanta centimetri di vita e sessantadue di fianchi,
per un peso di quarantasei chili e un'altezza di un metro e 72) osserverà per tutta la vita diete draconiane. Porta dei busti così stretti da diventare dei veri e propri strumenti di tortura; s'impone quotidianamente ore di ginnastica svedese, marce spossanti per le sue dame di compagnia, esercizi di scherma. Si inizia perfino ad acrobazie da circo equestre.
Il suo comportamento eccentrico si aggrava con gli anni, come testimonia la sua avventura con Franz Pacher. Già nonna, a un ballo di carnevale, protetta dall'anonimato della maschera, abborda un giovane sconosciuto e intreccia con lui un idillio romantico, che coltiverà per più di dieci anni sotto forma epistolare. Si fa mandare le lettere fermo posta e si firma Gabriella. A 46 anni indirizza ancora a Franz Pacher, che dopo il famoso ballo non ha mai più rivisto, versi esaltati che potrebbero essere stati scritti da una tredicenne: «...Talvolta ti credo vicino, poi di nuovo così lontano. / Forse sei già su un'altra stella? / Sei vivo? Allora dammi un segno, alla luce del giorno! / Appena oso attenderlo, sperarlo...».
Cioran riconosce che Eìisabetta fu una «grande egoista», il che per lui non costituisce tuttavia un motivo di biasimo. «Trovava normale», dice, «che tutto un impero fosse in subbuglio per permetterle di trascinare il suo disincanto da un paese all'altro. Per i contemporanei era una provocazione. Fortunatamente per Sissi, la storia è di un cinismo assoluto. Più si risale nel tempo e più i giudizi morali si attenuano. Il comportamento lunatico dell'imperatrice ne fa l'interesse e il fascino».
Lo scrittore è sensibile al romanticismo di questa donna la cui «filosofia deriva da Shakespeare, o più precisamente dai buffoni di Shakespeare»; che ama il Faust di Goetne, le rime di Heine, di Byron e di Saffo; che scrive poemi e li firma «Titania» (Elisabetta ha composto versi, un po' da dilettante, durante tutta la sua vita; ma ha creduto seriamente alla gloria postuma di quelli da lei scritti negli anni Ottanta e riuniti sotto il titolo di Canzoni d'inverno e Canzoni del mare del Nord. Ci credeva tanto, che diede disposizioni testamentarie per la loro pubblicazione dopo il 1950. Nella cassetta in cui depositò questi manoscritti, in Svizzera, figurava una lettera firmata «Titania» e indirizzata a una «Cara anima del futuro», cioè all'ignota persona che avrebbe scoperto un giorno i suoi poemi e alla quale affidava il compito di pubblicarli «a beneficio dei condannati politici più meritevoli e dei loro familiari bisognosi».
Come sottolinea Cioran, lo strano incanto esercitato da Elisabetta è legato al suo perpetuo ondeggiare fra la pazzia — che lei considerava «più vera della vita» — e la tentazione della morte. «Sapeva di essere insidiata dalla follia e forse questa minaccia la lusingava. Era sostenuta dalla coscienza della propria singolarità; e le tragedie familiari non hanno fatto che favorire la sua decisione di allontanarsi dagli esseri umani e sottrarsi ai propri doveri, offrendo così al mondo un raro esempio di diserzione». La più grande tragedia della sua vita fu il suicidio a Mayerling dell'arciduca Rodolfo, quell'unico figlio maschio di cui lei non si era mai occupata. La morte di Rodolfo la riempì di rimorsi, e da allora la si vide sempre vestita a lutto, il volto nascosto dietro un ventaglio nero, fino a quel fatidico 10 settembre 1898 in cui, a Ginevra, un anarchico italiano, Luigi Luccheni, le trafisse il cuore con una lama acuminata. L'imperatrice spirò dopo pochi minuti, senza nemmeno essersi accorta della pugnalata.
A Cioran, la sua tragedia ricorda quella del re Lear. L'idea del suicidio, osserva, ha accompagnato Elisabetta tutta la vita: «Non si può essere in preda alla malinconia senza pensare al suicidio, che ne è il coronamento». «Tutto le era pretesto», aggiunge, «per illustrare il suo presentimento della morte (...): particolarmente i bei paesaggi. Le stelle le apparivano come "lontani cadaveri luminosi"...».
E quell'inguaribile pessimista che è Cioran, sempre attirato dai periodi di decadenza in cui tutti gli avvenimenti assumono una dimensione smisurata, osserva che «le ossessioni, le manie, le bizzarrie di Sissi prendono necessariamente un significato più profondo in un'epoca che culminerà in una catastrofe modello». A posteriori possiamo capire Elisabetta meglio dei suoi contemporanei, perché è diventata il simbolo della «finis Austriae». Che, secondo Cioran, prefigura il prossimo atto della tragedia storica europea: il crollo dell'Occidente.


“la Repubblica”, 22 aprile 1986

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