Anton Romako, L'Imperatrice Elisabetta d'Austria (1883) |
PARIGI — Chi visita al Beaubourg la
splendida mostra Vienna 1880-1938 incontra nella prima sala un
inquietante ritratto di Elisabetta d'Austria, dipinto nel 1883 da
Anton Romako. Non vi si trova più alcuna traccia del fresco sorriso
di quella Sissi che a sedici anni aveva sposato l'imperatore
Francesco Giuseppe e che un secolo dopo sarà incarnata sugli schermi
da Romy Schneider. Lo splendore dell'imperatrice - che a trent'anni
disputava a Eugenia di Montijo, moglie dì Napoleone III, il titolo
della più bella testa coronata d'Europa —, quale risulta da un
altro celebre ritratto, quello di Winterhalter, si è un po'
attenuato.
All'epoca in cui Romako la dipinge,
Elisabetta ha 46 anni. Conserva il suo vitino di vespa, il suo
portamento altero, le labbra vermiglie e quella favolosa massa di
capelli castani che, sciolti, le arrivano alle caviglie (così
pesanti da procurarle il mal di testa, per cui soleva stenderli per
ore appesi ad un nastro, come panni messi ad asciugare). Nel ritratto
di Romako, Elisabetta è ancora bella ma il mento le si è
appesantito e il naso appare sproporzionatamente lungo. Colpiscono
soprattutto le mani, attorcigliate in un gesto convulso e gli occhi
cupi, quasi spiritati. Un'ombra di follia e di morte traversa il suo
sguardo.
Amore platonico
Questa vulnerabilità dell'imperatrice
ha incantato E.M. Cioran, come lui stesso racconta in una bellissima
intervista che figura nel prologo di Apocalypse Joyeuse, una raccolta
di saggi e testimonianze edita dal Beaubourg in occasione della
mostra viennese (pagg. 768, franchi 360). In questo testo, che
potrebbe figurare nei suoi Éxercices d'admiration (pubblicato
recentemente da Gallimard), Cioran dichiara che il suo «interesse
appassionato» fu suscitato anzitutto da una frase di Elisabetta
citata da Barrès nella prefazione ad una biografia di Costantino
Christomanos, e da lui letta all'età di 24 anni:«L'idea della morte
purifica e assolve la funzione del giardiniere, che strappa le
erbacce nel suo giardino, ma vuole essere solo e si adonta se i
curiosi lo guardano al di sopra del muro. Perciò io dissimulo il
volto sotto 1'ombrello e dietro il ventaglio, affinché l'idea della
morte possa tranquillamente compiere in me il suo lavoro di
giardinaggio».
Un profondo disincanto accomuna
l'imperatrice e l'autore di Syllogismes de l'amertume e De
l' inconvénient d'étre né. Ma tra loro esistono pure altre
affinità. Cioran è nato a Rasinari, in Tran-silvania, nel 1911,
quando la regione apparteneva ancora all'impero austro-ungarico. La
prima lingua che ha imparato alle elementari, e che parlavano i suoi
genitori, è stata il magiaro. Le prime musiche che lo hanno cullato
erano musiche tzigane. Esule ormai da decenni in Francia, Cioran è
ancora nostalgico della sua lingua natìa e dei ritmi tzigani che lui
s'identificano con l'amore per gli ungheresi, “un popolo così
originale, così complessp esiliato al centro dell'Europa e in preda
a una nostalgia selvaggia.
Franz Xaver Winterhalter, L'Imperatrice Elisabetta d'Austria in abito da ballo (1865) |
Come lui Elisabetta fu sensibile al
fascino magiare, tanto da voler studiare l'ungherese, lingua che
utilizzerà perfino nelle corrispondenze e nelle conversazioni
familiari. Quando a 27 anni Sissi si ribella al giogo della suocera,
l'autoritaria arciduchessa Sofia, sceglierà di vivere più a
Budapest che a Vienna ed è a Budapest che decide di mettere al mondo
la sua quartogenita, Maria Valeria. Ciò provoca un grave scandalo a
Corte, dove si mormora che la neonata sia la figlia adulterina di un
uomo politico ungherese, Gjula Andrassy. In realtà l'amore che
Elisabetta nutrì per Andrassy restò platonico, come del resto tutti
gli altri amori illeciti che le vennero attribuiti. E' vero invece
che, diventata docile strumento di Andrassy, l'imperatrice, di solito
indifferente alla politica, fece fuoco e fiamme per sostenere le
rivendicazioni nazionaliste ungheresi, contribuendo così a
vompromettere la solidità dell'impero. Cioran lo ammette: “A causa
della sua eccessiva passione per 1'Ungheria, ostile all'idea di una
federazione — unica soluzione ragionevole — l'imperatrice ha
accelerato, in una certa misura, il crollo della duplice monarchia».
Sprovveduta sul piano politico,
Elisabetta fu veramente folle nel senso patologico del termine? Qui
converrà rifarsi alla fondamentale biografia di Brigitte Hamann,
Elisabeth, Kaiserin wider Willen, pubblicata a Vienna da
Amalthea Verlag e poi in francese da Fayard (Elisabeth
d'Autriche), in cui 1'autrice, attingendo ad archivi depositati
in Svizzera e rimasti segreti per decenni, e ad altre fonti inedite,
ricostruisce le fasi successive dello slittamento di Elisabetta verso
la follia.
Questa discendente della famiglia
ducale dei Wittelsbach, dove i matrimoni tra consanguinei erano
frequenti, è vittima di una pesante eredità. Suo nonno, il duca Pio
di Baviera, era un eccentrico che trascorse gli ultimi anni della sua
esistenza come un eremita. Delle sue quattro sorelle, Sofia, duchessa
d' Alençon, curata dal celebre neurologo Krafft-Ebing, dovette
essere internata; e le altre tre — Elena, principessa di Turn und
Taxis, Maria Sofia, sposata a Francesco II delle Due Sicilie, e
Matilde, duchessa di Trani — manifestarono in vecchiaia sintomi di
nevrastenia. E non parliamo del cugino Ludwig II di Baviera, a cui
Elisabetta fu legatissima e del quale tutti conoscono la tragica
fine.
La giovane Sissi che nel 1854 arriva
alla Corte di Vienna è tuttavia una ragazzina radiosa e piena di
salute come una contadinella bavarese: lei stessa si definisce, in
una poesia, «una figlia del sole». Ma non riesce a piegarsi
all'etichetta e ai pesanti obblighi protocollari. Si annoia al fianco
di un marito innamoratissimo ma prosaico e puntiglioso come un
burocrate; soffre soprattutto dell'invadenza della suocera che la
tratta come una bambina, si intromette fra gli sposi fin dalla loro
luna di miele e prende in mano 1'educazione dei principini. Allora
Sissi si incupisce, piange, comincia a rifiutare il cibo, non vuole
partecipare alle cerimonie ufficiali.
Abbiamo già visto come manifestò le
sue velleità di rivolta a proposito dell'affare ungherese.
Sentendosi infelice, diserterà la Corte e soggiornerà sempre più a
lungo all'estero: a Madera, a Corfù, in Inghilterra, in Irlanda
(dove si dedica ai suoi sport favoriti — la caccia alla volpe e
l'equitazione — scortata dal giovane Bay Middleton che passa per
essere il suo amante), poi in Francia, in Italia, in Portogallo, in
Algeria, in Svizzera.
I suoi vagabondaggi, il fatto che
trascuri i suoi doveri di imperatrice, di moglie e di madre, i suoi
capricci alimentano molte chiacchiere. Spende somme favolose per
farsi costruire e arredare delle residenze personali (che talvolta
non abiterà neppure, come il celebre «Achilleion» di Corfù) o per
l'acquisto e l'addestramento dei suoi cavalli. Fa scandalo per la sua
mania di comparire senza farsi annunciare nelle Corti straniere, ivi
compresa quella della rigida regina Vittoria; le capiterà perfino di
farsi arrestare, presentandosi in incognito alla dimora della vedova
di Federico III di Prussia. Negli ultimi anni, quando adotta
definitivamente una dieta lattea, si porta appresso nei suoi viaggi
una capra e due vacche, per essere sicura di disporre sempre di latte
fresco.
Versi esaltati
Ha un vero culto della propria
bellezza, ciò che la induce a commettere molte stravaganze. Per
conservare la sua silhouette da indossatrice (cinquanta centimetri di
vita e sessantadue di fianchi,
per un peso di quarantasei chili e
un'altezza di un metro e 72) osserverà per tutta la vita diete
draconiane. Porta dei busti così stretti da diventare dei veri e
propri strumenti di tortura; s'impone quotidianamente ore di
ginnastica svedese, marce spossanti per le sue dame di compagnia,
esercizi di scherma. Si inizia perfino ad acrobazie da circo
equestre.
Il suo comportamento eccentrico si
aggrava con gli anni, come testimonia la sua avventura con Franz
Pacher. Già nonna, a un ballo di carnevale, protetta dall'anonimato
della maschera, abborda un giovane sconosciuto e intreccia con lui un
idillio romantico, che coltiverà per più di dieci anni sotto forma
epistolare. Si fa mandare le lettere fermo posta e si firma
Gabriella. A 46 anni indirizza ancora a Franz Pacher, che dopo il
famoso ballo non ha mai più rivisto, versi esaltati che potrebbero
essere stati scritti da una tredicenne: «...Talvolta ti credo
vicino, poi di nuovo così lontano. / Forse sei già su un'altra
stella? / Sei vivo? Allora dammi un segno, alla luce del giorno! /
Appena oso attenderlo, sperarlo...».
Cioran riconosce che Eìisabetta fu una
«grande egoista», il che per lui non costituisce tuttavia un motivo
di biasimo. «Trovava normale», dice, «che tutto un impero fosse in
subbuglio per permetterle di trascinare il suo disincanto da un paese
all'altro. Per i contemporanei era una provocazione. Fortunatamente
per Sissi, la storia è di un cinismo assoluto. Più si risale nel
tempo e più i giudizi morali si attenuano. Il comportamento lunatico
dell'imperatrice ne fa l'interesse e il fascino».
Lo scrittore è sensibile al
romanticismo di questa donna la cui «filosofia deriva da
Shakespeare, o più precisamente dai buffoni di Shakespeare»; che
ama il Faust di Goetne, le rime di Heine, di Byron e di Saffo;
che scrive poemi e li firma «Titania» (Elisabetta ha composto
versi, un po' da dilettante, durante tutta la sua vita; ma ha creduto
seriamente alla gloria postuma di quelli da lei scritti negli anni
Ottanta e riuniti sotto il titolo di Canzoni d'inverno e
Canzoni del mare del Nord. Ci credeva tanto, che diede
disposizioni testamentarie per la loro pubblicazione dopo il 1950.
Nella cassetta in cui depositò questi manoscritti, in Svizzera,
figurava una lettera firmata «Titania» e indirizzata a una «Cara
anima del futuro», cioè all'ignota persona che avrebbe scoperto un
giorno i suoi poemi e alla quale affidava il compito di pubblicarli
«a beneficio dei condannati politici più meritevoli e dei loro
familiari bisognosi».
Come sottolinea Cioran, lo strano
incanto esercitato da Elisabetta è legato al suo perpetuo ondeggiare
fra la pazzia — che lei considerava «più vera della vita»
— e la tentazione della morte. «Sapeva di essere insidiata dalla
follia e forse questa minaccia la lusingava. Era sostenuta dalla
coscienza della propria singolarità; e le tragedie familiari non
hanno fatto che favorire la sua decisione di allontanarsi dagli
esseri umani e sottrarsi ai propri doveri, offrendo così al mondo un
raro esempio di diserzione». La più grande tragedia della sua vita
fu il suicidio a Mayerling dell'arciduca Rodolfo, quell'unico figlio
maschio di cui lei non si era mai occupata. La morte di Rodolfo la
riempì di rimorsi, e da allora la si vide sempre vestita a lutto, il
volto nascosto dietro un ventaglio nero, fino a quel fatidico 10
settembre 1898 in cui, a Ginevra, un anarchico italiano, Luigi
Luccheni, le trafisse il cuore con una lama acuminata. L'imperatrice
spirò dopo pochi minuti, senza nemmeno essersi accorta della
pugnalata.
A Cioran, la sua tragedia ricorda
quella del re Lear. L'idea del suicidio, osserva, ha accompagnato
Elisabetta tutta la vita: «Non si può essere in preda alla
malinconia senza pensare al suicidio, che ne è il coronamento».
«Tutto le era pretesto», aggiunge, «per illustrare il suo
presentimento della morte (...): particolarmente i bei paesaggi. Le
stelle le apparivano come "lontani cadaveri luminosi"...».
E quell'inguaribile pessimista che è
Cioran, sempre attirato dai periodi di decadenza in cui tutti gli avvenimenti assumono una dimensione
smisurata, osserva che «le ossessioni, le manie, le bizzarrie di
Sissi prendono necessariamente un significato più profondo in
un'epoca che culminerà in una catastrofe modello». A posteriori
possiamo capire Elisabetta meglio dei suoi contemporanei, perché è
diventata il simbolo della «finis Austriae». Che, secondo Cioran,
prefigura il prossimo atto della tragedia storica europea: il crollo
dell'Occidente.
“la Repubblica”, 22 aprile 1986
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