16.9.14

Un classico del Novecento. Raboni legge Paolo Conte (1986)

Giovanni Raboni, poeta di grande qualità, sul finire del 1986 legge i testi delle canzoni di Paolo Conte, cercando di individuarne i significati espliciti e impliciti, di stabilirne il valore poetico con puntuali sondaggi tematici e stilistici e con qualche attenzione al contesto (soprattutto musicale e interpretativo) e al rimosso. Ne viene fuori una lettura convincente e un giudizio a mio avviso definitivo sul poeta oltre che sul “cantautore”: “un dilettante più bravo di quasi tutti i professionisti, un piccolo e involontario classico – nel suo genere – di tutto il Novecento”. (S.L.L.)

Da dove cominciare? Dai suoi ultimi trionfali concerti a Roma e Milano? O dal suo ultimo disco intitolato Concerti (venti dei suoi brani più noti registrati dal vivo)? Cominciamo prima da un'enciclopedia: meglio andare sul sicuro. Ecco qui, subito, l'ottima Enciclopedia della musica Garzanti, nuova edizione aggiornata all'aprile del 1983. A pagina 179, fra la voce «contacio» (forma innografica del repertorio liturgico bizantina) e la voce «Conti Carlo» (compositore e insegnante al conservatorio di Napoli, autore di 11 melodrammi, 6 messe e 2 requiem), leggiamo le seguenti righe che, al momento, più direttamente ci riguardano: «Conte Paolo (Asti 1937), compositore di canzoni, cantante e pianista. Già autore di canzoni di successo (Azzurro per Adriano Celentano, Tripoli 69 per Patty Pravo), ha scritto e interpretato personalmente ironici bozzetti di provincia (Un gelato al limon, Bartali)».
Ironici? Bozzetti di provincia? Ah no, non ci siamo proprio. La mia fede nella «Garzantina», per un attimo, vacilla; vado a vedere la voce «Berio Luciano», la voce «Stockausen Karl-heinz»: sono eccellenti, chiarissime, si capisce tutto. Evidentemente, è più difficile cogliere il senso di una canzone che quello delle più grandi, ardite sperimentazioni formali...
Cercherò, per entrare davvero in argomento, di spiegare perché quella definizione mi sia parsa tanto inadeguata; e lo farò proprio a partire dal testo di una delle canzoni citate, Bartali, che è anche, credo, una delle più tipiche e famose del nostro autore.
Di che cosa si parla o, meglio, che cosa succede nella canzone Bartali? La situazione è molto precisa ma, come si vedrà, nient'affatto ironica e nient'affatto bozzettistica. Un uomo e una donna stanno, insieme, sul ciglio d'una strada. Lui è seduto «in cima a un paracarro», e ha l'aria di non volersi muovere affatto: sta aspettando qualcuno, qualcosa. Lei è impaziente, annoiata; vorrebbe andare, si capisce, da qualche altra parte, per esempio al cinema... L'uomo, a un certo punto, scatta: «E al cinema vacci tu!». A lui piace stare lì, sulla strada, anzi sullo «stradone» (parola che ci da una chiave, un riferimento ambientale e forse anche storico, di assoluta esattezza: chi è vissuto - poco o tanto, da residente o da sfollato - in un paese, sa che cos'è lo «stradone», che cosa evoca, che cosa implica). Gli piace stare lì, sullo stradone, in cima a un paracarro, perché aspetta che passi una corsa ciclistica, perché vuol vedere Bartali...
Certo, potrebbe anche essere un «bozzetto»: una scena di genere in cui il maschio sportivo, anzi tifoso, perde la pazienza con la moglie o la ragazza che ha voglia di fare qualcos'altro. Ma non è così. Non è così per la semplicissima ragione che Bartali non passerà mai, non può passare, ha smesso di correre da chissà quanto tempo; e le descrizioni che l'uomo, parlando fra sé, ne viene dando - Bartali con «quel naso triste come una salita... quel naso triste da italiano allegro», il campione per il quale i francesi «si incazzano» e «ci rispettano» - non sono descrizioni di una persona in carne e ossa ma descrizioni di un ricordo, di un rimpianto, di un mito.
L'uomo - l'uomo che parla, che canta, insomma lo stesso Conte - sta aspettando, dunque, il passaggio di un fantasma, il ritorno di un'immagine. Il suo voler restare lì, solo, ostinatamente immobile sul paracarro, non mi sembra (e chiedo scusa se mescolo il sacro al profano) tanto diverso dalle lunghe soste, dall'inspiegabile attardarsi del giovane Marcel Proust lungo il sentiero di Méséglise alla ricerca del profumo, del fantasma, della voce dei biancospini...
Sto esagerando? Certo che sto esagerando; ma bisogna appunto esagerare per farsi capire. E comunque, a mia parziale discolpa, ecco i due versi - davvero belli, secondo me, con la loro reticenza un po' brusca, il loro tenero brontolìo - con cui, nella canzone, l'autore o il suo personaggio giustifica il suo atteggiamento: «È tutto un complesso di cose/ che fa sì che io mi fermi qui...».
Niente bozzetto, dunque; al contrario, una situazione narrativa scarnificata, ridotta a situazione grammaticale, e tuttavia con un suo retroterra, un suo antefatto molto circostanziato. E niente ironia, assolutamente: la voce, il timbro di Conte esprimono una complicità totale: sono «struggenti» nel senso, anche letterale, che si riferiscono a un tempo che si strugge, a un'età che si consuma...
Vorrei fare qualche altro esempio di racconto dato per accenni, risolto in poche frasi apparentemente sconnesse. In Onda su onda, altra canzone fra le più note del nostro, la situazione presenta, a prima vista, qualche elemento comico-surreale. Il personaggio, parlando come sempre in prima persona, allude al fatto di essere «caduto dalla nave mentre a bordo c'era il ballo». L'incidente, dal seguito della canzone, sembra essersi risolto nel migliore dei modi: «Onda su onda mi sono ambientato ormai/ il naufragio mi ha dato la felicità...». Potrebbe anche darsi; non sarebbe il primo caso di un involontario, ma fortunato ritorno alla natura. Senonché, a tendere bene l'orecchio, dal parlato un po' troppo euforico del naufrago saltano fuori dettagli alquanto sospetti: la donna amata era, durante il ballo, e probabilmente è tuttora, fra le braccia di uno sconosciuto, e la cosa sembra tutt'altro che indifferente all'uomo in mare. Insomma, nell'ascoltatore non distratto si fa strada un dubbio inquietante: da dove sta parlando veramente il personaggio scivolato in mare? Da un paradiso terrestre o da un aldilà vagamente purgatoriale? E siamo proprio sicuri che ci sia scivolato, in mare, o che invece non ci si sia buttato per smarrimento, per disperazione, per gelosia?
Ma i miei pezzi preferiti - più ancora di Genova per noi o del trascinante, convulso Via con me (del quale vorrei almeno citare tre versi che a me, lo confesso, sembrano proprio belli, belli in assoluto: «Non perderti per niente al mondo / lo spettacolo d'arte varia / di uno innamorato di te...») - i miei pezzi preferiti, dicevo, sono La topolino amaranto e il dittico costituito da Sono qui con te sempre più solo e La ricostruzione del Mocambo.
Quanto alla prima, è presto detto: si tratta, sotto apparenze giocose, nientemeno che di una piccola fine del mondo. Passeggiando con la ragazza sulla vecchia, incantevole utilitaria, dopo aver esclamato, in puro stile anni Trenta, «Ah l'auto che comodità!», e aver osservato (in rima con «amaranto») che «si va che è un incanto», il parlante (mi si consenta, considerato anche il particolare modo di cantare del nostro, di dire «parlante» anziché «cantante»), il parlante, dunque, butta lì con negligenza qualche particolare agghiacciante come «c'è un paesaggio che non va» e addirittura «sei case su dieci sono andate giù». Mi sembra un po' difficile, francamente, credere ciò che il parlante vuoi far credere alla sua ragazza, e cioè che c'è stato, semplicemente, un forte temporale...
Nel dittico, che chiamerò «dittico del Mocambo» (e di cui, francamente non so quale sia il testo che precede e quale quello che segue), la situazione è invece realistica. A parlare, stavolta non è un alter ego dell'autore, ma un personaggio vero e proprio, e fortemente caratterizzato: il proprietario gestore di un bar (il bar Mocambo appunto) coinvolto in un fallimento Ma la sua angoscia non è soltanto eco nomica: a un certo punto, anzi, sembra che il bar sia stato riaperto, e i rapporti col curatore del fallimemto sono comunque improntati a una certa umanità («Oggi il curatore mi ha offerto il caffè»). Più sottilmente de vastanti sono i rapporti con la partner, identificata, in una delle canzoni, con una ragazza di maggior levatura sociale e intellettuale che «disprezza il suo mondo e anche lui» nell'altra con un'austriaca con la quale esistono insormontabili problemi d comprensione, anzi di comunicazione «tout court», dal momento, per dirle col personaggio, che «io non parlo il tedesco... scusa... pardon...».
Non è molto certo, ma è proprio lì il bello, nella scarsità, nella pochezza delle tracce. E poi c'è quel «brutto tinello marrone» di cui - con un bell'effetto di sdoppiamento - il personaggio parla con ribrezzo e l'autore, invece con affettuosa gozzaniana nostalgia. La cosa che salta all'occhio comunque, e che più conta, è che nel sue oscillare fra umiltà e megalomania fra attacchi di depressione e soprassalti di fierezza («sono sempre elegante, so anche trattare...»), il protagonista della doppia storia è una sorta d Grande Gatsby suburbano.
Verrebbe voglia di continuare, di raccontarle un po' tutte queste microstorie così delicatamente, pudicamente nascoste nel loro bozzolo di rauchi bisbigli, di immagini volutamente mutilate o sfuocate. Mi limiterò, invece, a citare una canzone che mi piace molto meno e che costituisce tuttavia una chiave in negativo, una controprova della verità, dell'originalità e del fascino del mondo (non sto a dire, per non suscitare equivoci, se poetico o musicale o più genericamente fantastico) di Paolo Conte: Hemingway. Una canzone nella quale, dopo un accenno all'Harry's Bar e a qualche località esotica, non si dice praticamente più nulla ed è la musica - la musica degli strumenti - a prendere la parola e il sopravvento. 
Ma certo, era inevitabile: che cosa poteva dire, che cosa può avere da dire sul conto di Ernest Hemingway il nostro Paolo Conte, lui che assomiglia tanto all'altro, al rivale, a Francis Scott Fitzgerald, lui che è, come Fitzgerald, un dilettante più bravo di quasi tutti i professionisti, un piccolo involontario classico, nel suo genere, non di questo o quel decennio ma, forse, di tutto il Novecento?

"L'Europeo", 15 febbraio 1986

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